|  |  Editoriale  Il 
                          Papa e l’Università  
                          Scoprire 
                          le ragioni di una vicenda controversa 
                      
                      Il dibattito sulla laicità delle istituzioni e sul ruolo 
                      della Chiesa, oltre che sul rapporto tra scienza, ragione 
                      e fede, è stato rilanciato in Italia dall’invito che il 
                      Rettore dell’Università “La Sapienza” di Roma ha rivolto a 
                      Papa Benedetto XVI, in occasione dell’inaugurazione 
                      dell’anno accademico. Come è noto, il dibattito si è 
                      acceso soprattutto quando 67 docenti dell’Ateneo, 
                      prevalentemente appartenenti alla Facoltà di Fisica, hanno 
                      indirizzato una lettera di protesta al Rettorato 
                      dell’Università, auspicando l’annullamento dell’incontro 
                      con il Pontefice. 
                      Le polemiche che si sono sviluppate in seguito, a cui si è 
                      aggiunta anche l’occupazione del Rettorato da parte di 
                      alcuni gruppi di studenti, hanno infine convinto Benedetto 
                      XVI a rinunciare all’invito. Poiché è stato detto e 
                      scritto tanto sull’argomento, spesso sotto la pressione di 
                      spinte emotive e poco ragionate e in un clima di aspra 
                      contrapposizione ideologica, è opportuno ricostruire 
                      attentamente la vicenda, cercando di coglierne l’autentico 
                      significato.
 
                      
                      Partiamo dalle ragioni che hanno spinto il Papa a 
                      rinunciare all’invito. Durante l’Angelus in Piazza 
                      san Pietro, Ratzinger si è limitato a dire: «Avevo accolto 
                      molto volentieri il cortese invito, ma il clima che si era 
                      creato ha reso inopportuna la mia presenza alla cerimonia 
                      e ho rinunciato mio malgrado». 
                      Alcuni, come Paolo Flores d’Arcais, direttore della 
                      rivista Micromega, hanno commentato l’episodio 
                      dicendo che il Papa, essendo abituato ad avere di fronte a 
                      sé folle festanti e compiacenti, appena ha sentito odore 
                      di contestazione, se ne è rimasto a casa. 
                      Un’affermazione del genere non aiuta però a comprendere 
                      l’accaduto, limitandosi ad attribuire al Papa un 
                      atteggiamento di fuga dal confronto. Dispiace, del resto, 
                      che l’insinuazione venga proprio da Flores d’Arcais, al 
                      quale Joseph Ratzinger aveva dimostrato apertura e 
                      disponibilità, accogliendone l’invito per un dibattito 
                      pubblico, svoltosi il 21 settembre del 2000 al teatro 
                      Quirino di Roma. 
                      Nella lettera a Flores d’Arcais, con cui confermava la sua 
                      presenza al dibattito, Ratzinger scriveva: «Nei rari 
                      momenti liberi sto leggendo Micromega 2/2000 e 
                      trovo estremamente interessante il vasto panorama di 
                      posizioni. Sotto molti aspetti è il commento più 
                      importante, che io conosco, alla Fides et ratio, 
                      perché qui l’Enciclica entra realmente in dialogo col 
                      mondo culturale di oggi». 
                      Il numero di Micromega a cui Ratzinger si riferiva 
                      ospitava anche un suo contributo, che lo stesso Flores gli 
                      aveva richiesto, ottenendo questa risposta: «Sono 
                      senz’altro d’accordo per la pubblicazione su Micromega
                      del mio saggio. Trovo interessante che esso sia 
                      ospitato sulle pagine di una rivista filosofica di stampo 
                      laico, con una prevalenza di contributi di non credenti, 
                      per stimolare il dibattito [...]. La saluto con stima». 
                      Come si può vedere, parole di ordinaria cordialità che 
                      esprimono tutt’altro che chiusura, pur nella 
                      consapevolezza della forte divergenza di idee.  
                      
                      A voler prendere sul serio le parole del Papa stesso e le 
                      motivazioni ufficiali della Santa Sede, si dovrebbe dire, 
                      pertanto, che Benedetto XVI ha preferito rinunciare 
                      all’invito perché non ha ritenuto opportuno creare, con la 
                      sua presenza, disordini e divisioni tra i docenti e gli 
                      studenti dell’Università. Se si viene invitati da una 
                      famiglia che poi si divide a causa dell’invito, allora 
                      forse è meglio aspettare che ritorni un clima più sereno 
                      per incontrarsi in spirito di confronto e di amicizia. 
                      Sarebbe ingenuo pensare che il Papa non sappia che molti 
                      non la pensano come lui. Ma una cosa è intervenire sapendo 
                      che i tuoi interlocutori non condividono le tue idee, 
                      altra cosa è intervenire sapendo che i tuoi interlocutori, 
                      anche se non ti impediscono materialmente di parlare, 
                      non vogliono ascoltarti. Soprassedendo all’invito, 
                      pertanto, il Papa ha mostrato una ragionevole discrezione. 
                      Ed è curioso che gli stessi che accusano di ingerenza il 
                      Papa quando interviene, lo accusino poi di codardia quando 
                      si fa da parte.  
                      
                      Sono in molti, in effetti, ad aver notato che la protesta 
                      anti-Ratzinger da parte di una minoranza di docenti (67 su 
                      un totale di 4500) e di studenti, sia stata motivata da 
                      pregiudizi ideologici. Così, alla notizia della rinuncia 
                      di Benedetto XVI si sono levate le reazioni indignate di 
                      parecchi personaggi politici e di numerosi mezzi di 
                      informazione nazionali. Si è considerato infatti 
                      inammissibile che, in un Paese democratico, venisse 
                      impedito al Papa di esprimere la sua opinione in un 
                      contesto pubblico. A questo coro di reazioni indignate si 
                      è però contrapposta l’idea di chi ha sottolineato che al 
                      Papa non è stato affatto “impedito” di parlare, visto che 
                      è stato lui stesso a rinunciare al proprio intervento. 
                      E anche qualora Benedetto XVI si fosse recato alla 
                      Sapienza, nessuno gli avrebbe fisicamente impedito di 
                      pronunciare il suo discorso. Si sono così accese dispute 
                      su che cosa significhi la libertà di parola in un Paese 
                      laico e democratico, e, soprattutto, in un’Università. 
                      Alcuni, solidarizzando con i 67 docenti e con gli studenti 
                      che avevano raccolto la loro protesta contro la visita del 
                      Papa, hanno concluso che la libertà di espressione non è 
                      un diritto incondizionato, che autorizza chiunque a 
                      parlare ovunque, ma un diritto che deve fare i conti con 
                      l’altrui diritto di contestare e di esprimere un’opinione 
                      contraria. I 67 docenti e coloro che li hanno appoggiati, 
                      pertanto, si sono pienamente inseriti in questa logica, e 
                      accusarli di aver voluto censurare la voce del Papa è un 
                      errore che tradisce scarso senso della laicità. 
                       
                      
                      Alcuni aspetti di questa critica sono convincenti. In 
                      effetti nessuno ha impedito al Papa di parlare, 
                      soprattutto se si pensa che è stato il Papa stesso a 
                      soprassedere. La partita, da questo punto di vista, si 
                      sarebbe risolta in parità: libertà di contestare per i 67 
                      docenti e per gli studenti, libertà di intervenire o di 
                      starsene a casa per Benedetto XVI. Tuttavia, se le cose 
                      fossero davvero così semplici, non si spiegherebbe la dura 
                      polemica a cui abbiamo assistito. Deve esserci dunque 
                      qualcos’altro, che non riguarda solo il modo in cui i 
                      docenti e il Papa si sono avvalsi della loro rispettiva 
                      libertà di movimento, ma che riguarda, soprattutto, le 
                      ragioni dei docenti contestatari, da un lato, e quelle 
                      del Papa, dall’altro lato. Solo esaminando queste ragioni 
                      sarà possibile comprendere il senso della vicenda, per 
                      scoprire, infine, se davvero la partita si è risolta in 
                      parità o se invece qualcuno ne è rimasto in qualche modo 
                      sconfitto.  
                      
                      Come è risaputo, contro la visita del Pontefice erano 
                      state inizialmente avanzate ragioni di tipo formale e 
                      istituzionale. Si era cioè considerato inopportuno che un 
                      capo di Stato, quale è formalmente il Papa, inaugurasse 
                      l’anno accademico di un’Università, per di più laica. In 
                      effetti al Papa era stato chiesto di intervenire 
                      pronunciando una lectio magistralis, la cui 
                      funzione è quella di dare il tono all’intero anno 
                      accademico, e che, per questo, è tradizionalmente 
                      riservata ai docenti dell’Ateneo. Riconoscendo la 
                      pertinenza di queste osservazioni, il Rettore aveva 
                      accolto le proteste, “retrocedendo” l’intervento del Papa 
                      a semplice relazione e affidando la lectio magistralis 
                      a un docente dell’Ateneo. 
                      Ma, a questo punto, la protesta non si è fermata, 
                      rivelando che le ragioni istituzionali non erano le 
                      vere ragioni dell’opposizione alla visita di Benedetto 
                      XVI. E infatti, dopo aver definito «sconcertante» 
                      l’iniziativa di invitare il Papa, i docenti firmatari 
                      della lettera hanno motivato la loro richiesta di 
                      annullare l’invito scrivendo: «il 15 marzo 1990, ancora 
                      cardinale, [...] Joseph Ratzinger ha ripreso 
                      un'affermazione di Feyerabend: “All'epoca di Galileo la 
                      Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso 
                      Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e 
                      giusto”. Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla 
                      ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita 
                      all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci 
                      offendono e ci umiliano. In nome della laicità della 
                      scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro 
                      Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni 
                      ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora 
                      essere annullato». 
                      L’auspicio, insomma, non è stato più motivato 
                      dall’inopportunità che un Pontefice intervenisse 
                      all’Università, ma che vi intervenisse la persona di 
                      Joseph Ratzinger con le sue particolari concezioni 
                      filosofiche. Quella che era inizialmente apparsa come una 
                      polemica istituzionale tra la Chiesa Cattolica, da un 
                      lato, e un’Università laica, dall’altro lato, si è così 
                      trasformata in una disputa intellettuale tra un gruppo di 
                      docenti di Fisica e un teologo.   
                      
                      È d’obbligo, perciò, leggere il brano incriminato, non 
                      solo perché i 67 docenti giudicano il Papa per una frase 
                      che non è sua, lasciando intendere, senza però 
                      documentarlo, che egli la condivida, ma anche perché essi 
                      danno per scontato che il giudizio di Feyerabend sul caso 
                      Galilei non abbia alcun valore. Ora, il testo di Ratzinger 
                      a cui la lettera si riferisce è stato pubblicato in 
                      Germania nel 1991 e in traduzione italiana nel 1992, nel 
                      volume Svolta per l’Europa?
                      Nel paragrafo da cui è tratta la citazione di 
                      Feyerabend, intitolato La crisi della fede nella 
                      scienza, Ratzinger parte da un assunto oggi ampiamente 
                      condiviso, secondo cui, soprattutto di fronte ai rischi 
                      ambientali e nucleari, «la domanda circa i limiti della 
                      scienza e i criteri cui essa deve attenersi si è fatta 
                      inevitabile». 
                      Significativo di questa nuova consapevolezza dei limiti 
                      della scienza e dei suoi tradizionali criteri, aggiunge 
                      Ratzinger, è «il diverso modo con cui si giudica il caso 
                      Galileo». Un caso che, «ancora poco considerato nel XVII 
                      secolo, venne – già nel secolo successivo – elevato a mito 
                      dell’illuminismo. Galileo appare come vittima di 
                      quell’oscurantismo medievale che permane nella Chiesa. 
                      Bene e male sono separati con un taglio netto. Da una 
                      parte troviamo l’Inquisizione: il potere che incarna la 
                      superstizione, l’avversario della libertà e della 
                      conoscenza. Dall’altra la scienza della natura, 
                      rappresentata da Galileo; ecco la forza del progresso e 
                      della liberazione dell’uomo dalle catene dell’ignoranza 
                      che lo mantengono impotente di fronte alla natura. La 
                      stella della Modernità brilla nella notte buia dell’oscuro 
                      Medioevo». 
                      Ciò che incuriosisce, prosegue Ratzinger, è che tra i 
                      primi a mettere in questione tale mito sono stati filosofi 
                      e scienziati marxisti, agnostici e atei, tra i quali Ernst 
                      Bloch, Carl Friedrich von Weizsäcker e Paul Feyerabend.
                       
                      
                      Secondo Bloch, sia il geocentrismo sia l’eliocentrismo 
                      sono fondati su un presupposto che la teoria della 
                      relatività ha ormai cancellato, e cioè l’esistenza di uno 
                      spazio assoluto, vuoto e immobile. Non trovandosi più 
                      dentro uno spazio oggettivo, il movimento dei corpi deve 
                      essere considerato un movimento relativo, la cui 
                      misurazione «dipende dalla scelta del corpo assunto come 
                      punto di riferimento». 
                      Ma questo significa, prosegue Bloch, che «qualora la 
                      complessità dei calcoli risultanti non rendesse 
                      impraticabile l’ipotesi – adesso come allora si potrebbe 
                      supporre la terra fissa e il sole mobile». 
                      Riprendendo una concezione ampiamente accettata della 
                      scienza moderna, Bloch ritiene dunque che la maggiore 
                      validità del sistema eliocentrico rispetto a quello 
                      geocentrico non consiste in una maggiore corrispondenza 
                      alla verità oggettiva, ma soltanto nel fatto che esso ci 
                      offre una maggiore facilità di calcolo. La conclusione di 
                      Bloch è che, una volta data per certa la relatività del 
                      movimento, un antico sistema di riferimento umano e 
                      cristiano, come quello che il cardinale Bellarmino fece 
                      valere contro Galilei, non ha certo alcun diritto di 
                      interferire nei calcoli astronomici ma, al tempo stesso, 
                      tale sistema conserva il diritto di controllare le 
                      applicazioni della scienza, fedele alla propria 
                      preoccupazione di salvaguardare il bene dell’uomo e la sua 
                      dignità.
                       
                      
                      Ratzinger non lo scrive, ma si potrebbe aggiungere, a 
                      commento di quest’ultima citazione di Bloch, che se per 
                      noi oggi controllare le applicazioni della scienza per il 
                      bene dell’umanità significa far fronte all’effetto serra o 
                      al riscaldamento globale, al tempo di Galilei significava 
                      valutare le conseguenze che l’ipotesi eliocentrica avrebbe 
                      avuto sulla credibilità delle Scritture. In un contesto di 
                      crisi e di tensioni difficili da governare, anche a causa 
                      del diffondersi del protestantesimo, per la società 
                      cristiana accettare l’ipotesi eliocentrica significava 
                      abbandonare una verità fino allora ampiamente accettata 
                      anche per fede. Lo si sarebbe potuto fare, pertanto, solo 
                      se lo scienziato pisano avesse portato prove evidenti 
                      della sua teoria. Per questo l’Inquisizione gli chiese di 
                      qualificare la sua teoria «ex suppositione», 
                      come ipotesi, in attesa che il tempo e le ricerche dello 
                      stesso Galilei portassero la prova definitiva. 
                      Ma Galilei non volle accettare la proposta, convinto di 
                      aver già trovato nel movimento delle maree la prova 
                      decisiva, che invece oggi sappiamo essere falsa. Insomma,
                      mutatis mutandis, Bellarmino fece valere, contro le 
                      ipotesi eliocentriche di Galilei, qualcosa di analogo a 
                      quello che oggi i movimenti ambientalisti fanno valere 
                      contro le teorie che negano il riscaldamento globale per 
                      giustificare l’emissione dei gas. Come qualche anno dopo 
                      il processo si scoprì che Bellarmino aveva torto, allo 
                      stesso modo tra qualche anno potremmo scoprire che 
                      l’ipotesi del global warming è falsa. Tuttavia, 
                      fino a quando questo non viene dimostrato, è comprensibile 
                      e ragionevole, da parte dei movimenti ambientalisti, dare 
                      maggiore importanza alla salute dell’ambiente piuttosto 
                      che a una teoria scientifica non ancora dimostrata. E, se 
                      questa venisse successivamente dimostrata, non sarebbe 
                      corretto, facendosi forti di un giudizio che viene dato 
                      con il senno di poi, considerare l’ambientalismo come 
                      un’ideologia oscurantista o antiscientifica.  
                      
                      Ma torniamo al testo di Ratzinger. Dopo aver presentato la 
                      posizione di Bloch, viene introdotta finalmente la 
                      citazione incriminata di Feyerabend con le seguenti 
                      parole: «molto più drastico appare invece il giudizio 
                      sintetico del filosofo agnostico-scettico P. Feyerabend. 
                      Egli scrive: “La Chiesa all’epoca di Galileo si attenne 
                      alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in 
                      considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della 
                      dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu 
                      ragionevole e giusta, e solo per motivi di opportunità 
                      politica se ne può legittimare la revisione”». 
                      Viene aggiunto anche un pensiero di von Weizsäcker, che, 
                      facendo «un passo avanti» dal punto di vista delle 
                      conseguenze etiche e sociali della svolta galileiana, vede 
                      un via diretta che conduce da Galilei alla bomba atomica. 
                      Fin qui la descrizione di un dibattito sui rapporti tra 
                      scienza e fede alla luce delle nuove interpretazioni 
                      filosofiche del caso Galilei. Ed ecco, finalmente, il 
                      commento di Ratzinger alle citazioni di Bloch, Feyerabend 
                      e von Weizsäcker: «Sarebbe assurdo costruire sulla base di 
                      queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede 
                      non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della 
                      razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e 
                      dalla sua iscrizione in una ragionevolezza più grande».
                       
                      
                      Come si può vedere, ma come in realtà sanno bene tutti 
                      quelli che conoscono il pensiero teologico e filosofico 
                      del Pontefice, qui Ratzinger rifiuta apertamente 
                      l’estremismo di Feyerabend, utilizzandolo solo per 
                      segnalare, insieme al pensiero di altri autori, il venir 
                      meno della fiducia incondizionata nei poteri delle scienze 
                      positive. 
                      Nessun disprezzo, dunque, né della scienza né della 
                      ragione. Anzi, c’è qui la difesa della scienza e della 
                      ragione da un’improponibile sacralizzazione, che 
                      distruggerebbe entrambe trasformando la prima in un arido 
                      scientismo e la seconda in un chiuso razionalismo. Se 
                      dunque Ratzinger non ha mai condiviso la citazione di 
                      Feyerabend che gli è stata rimproverata, perché i 67 
                      docenti hanno chiesto di annullare comunque l’invito? 
                      L’unica risposta possibile ci sembra la seguente: lo hanno 
                      fatto perché hanno considerato talmente intollerabile 
                      lo stesso giudizio di Feyerabend sul caso Galilei da 
                      ritenere «sconcertante» la possibilità di invitare in 
                      un’Università uno studioso che, pur non condividendo 
                      questo giudizio, ha osato però citarlo.     
                      
                      Torneremo sulla strana idea di Università che soggiace a 
                      una simile conclusione. Per ora basti notare che, a meno 
                      che l’interlocutore non voglia teorizzare la plausibilità 
                      della pedofilia o dell’antisemitismo, è difficile 
                      accettare che possa essere censurato culturalmente solo 
                      perché la pensa in un certo modo sul caso Galilei. 
                      Soprattutto se questa censura viene fatta usando, come 
                      criterio, una versione caricaturale e storicamente 
                      inadeguata del caso Galilei. Che una tale versione sia 
                      ormai divenuta una sorta di dogma nelle scuole e nelle 
                      università, del resto, è stato rivelato da una recente 
                      inchiesta del Consiglio d’Europa tra gli studenti di 
                      scienze di tutti i Paesi della Comunità. 
                      Quasi il 30% degli studenti era convinto che Galilei fosse 
                      stato arso vivo sul rogo. La quasi totalità, il 97%, era 
                      comunque convinta che fosse stato sottoposto a tortura. 
                      Come è noto, invece, Galilei non fece un solo giorno di 
                      carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. 
                      Convocato a Roma per il processo, si sistemò, a spese 
                      della Santa Sede, in un alloggio di cinque stanze con 
                      vista sui giardini vaticani e con cameriere personale. 
                      Dopo la sentenza alloggiò nella villa dei Medici al Pincio 
                      per poi trasferirsi come ospite nel palazzo 
                      dell’Arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici che 
                      lo stimavano e lo incoraggiarono nella sua impresa, e ai 
                      quali Galilei, non a caso, aveva dedicato le sue opere. 
                      Infine, il “condannato” si sistemò nella sua confortevole 
                      villa di Arcetri, proseguendo le sue ricerche, che nessuno 
                      gli impedì mai di portare avanti, né prima, né durante, né 
                      dopo il processo. 
                      
                      Insomma, il caso Galilei andrebbe rivisto alla luce di una 
                      valutazione più sobria ed equilibrata, maggiormente 
                      informata e, soprattutto, che tenga conto del contesto 
                      storico. Naturalmente gli ecclesiastici del XVII secolo 
                      mostravano un certo ritardo culturale nella comprensione 
                      dei rapporti tra scienza e fede, un’eccessiva 
                      preoccupazione di tipo giuridico, un’incapacità di 
                      affrontare l’esegesi biblica con criteri più aperti, ecc. 
                      Ma sarebbe assurdo rimproverare la Chiesa del tempo di non 
                      aver utilizzato, nell’affrontare la vicenda, criteri di 
                      lettura che cominciarono a svilupparsi solo alla fine del 
                      XIX secolo e che, tra l’altro, sono ancora oggetto di 
                      dibattito. 
                      Si badi, questo dovrebbe valere non solo quando 
                      giudichiamo l’operato della Chiesa, ma anche quando 
                      giudichiamo quello di Galilei. Rimproverare il cardinale 
                      Bellarmino di non aver utilizzato gli odierni criteri di 
                      esegesi biblica o di non aver rispettato l’autonomia della 
                      scienza è sbagliato quanto lo è rimproverare Galilei di 
                      non aver applicato alla propria teoria il fallibilismo 
                      popperiano o di essere stato il responsabile della 
                      costruzione della bomba atomica. Da questo punto di vista, 
                      dando per scontati i limiti della Chiesa ma non quelli di 
                      Galilei, i 67 firmatari della lettera anti-Ratzinger si 
                      trovano, per ironia della sorte, d’accordo proprio con 
                      Feyerabend e con von Weizsäcker: chi giudica una vicenda 
                      del XVII secolo con criteri desunti dal XX secolo, 
                      infatti, può certamente considerare la Chiesa come 
                      un’istituzione oscurantista e nemica della scienza, con 
                      l’inconveniente, però, di dover accettare come legittima, 
                      al tempo stesso, l’affermazione che Galilei sia stato non 
                      solo il padre del disastro ecologico e della bomba atomica 
                      ma anche uno scienziato un po’ sprovveduto, perché ignaro 
                      del carattere ipotetico e fallibile delle teorie 
                      scientifiche.      
                      
                      In realtà, come ha mostrato proprio Ratzinger nel testo 
                      incriminato dai 67 docenti, il caso Galilei, come tutte le 
                      vicende storiche che hanno determinato svolte importanti, 
                      è un caso complesso, che non si lascia facilmente 
                      strumentalizzare né da chi si schiera con la Chiesa né da 
                      chi si schiera con Galilei. Fede e scienza, insomma, sono 
                      meno distanti e nemiche di quanto non lo siano coloro che, 
                      unilateralmente, prendono posizione o per l’una o per 
                      l’altra. Lascia perplessi, perciò, che i firmatari della 
                      lettera contrari alla visita di Ratzinger si siano 
                      auto-definiti “scienziati fedeli alla ragione” e abbiano 
                      auspicato l’annullamento dell’incontro “in nome della 
                      laicità e della cultura”. In effetti, per essere 
                      scienziati fedeli alla ragione che agiscono in nome della 
                      laicità e della cultura non è necessario sposare solo 
                      una delle tante interpretazioni del caso Galilei, 
                      dichiarandosi addirittura “offesi e umiliati” di fronte a 
                      chi dovesse citare altre interpretazioni. Uno scienziato 
                      fedele alla ragione non è così poco libero di fronte a 
                      idee che ritiene sbagliate, da doversi sentire offeso e 
                      umiliato per la loro diffusione. Si sentirà, casomai, 
                      ulteriormente responsabilizzato. Così, se proprio non 
                      condivide il giudizio di Feyerabend sul caso Galilei, egli 
                      si armerà di strumenti critici e storiografici per cercare 
                      di dimostrare che tale giudizio è sbagliato. E potrà anche 
                      scrivere una lettera aperta alle autorità accademiche che 
                      hanno invitato studiosi che citano Feyerabend, per 
                      instaurare un confronto critico che le convinca di aver 
                      preso un abbaglio. Quello che in ogni caso uno scienziato 
                      fedele alla ragione si guarderà bene dal fare, è chiedere 
                      che gli studiosi che citano Feyerabend non intervengano 
                      all’Università.  
                      
                      Per tornare a quanto si è detto all’inizio, ciò che è in 
                      gioco, qui, non è dunque la libertà di espressione ma 
                      proprio la fedeltà alla ragione. Certamente sia i docenti 
                      contestatari sia Benedetto XVI sono stati liberi di 
                      muoversi come meglio credevano. E tuttavia, quando, in un 
                      contesto accademico, dei docenti universitari utilizzano 
                      la propria libertà di parola non per contestare il punto 
                      di vista dell’altro ma per chiedere che venga annullata 
                      la stessa possibilità che l’altro esprima il suo punto 
                      di vista, allora siamo caduti al di fuori dell’Università, 
                      anche se, formalmente, la libertà di espressione 
                      dell’altro non è stata violata. In un contesto accademico, 
                      infatti, perché la libertà dell’altro sia rispettata non 
                      basta lasciare l’altro libero di esprimersi ma è 
                      necessario garantirgli istituzionalmente la 
                      possibilità di farlo. Questo, naturalmente, non significa 
                      che i 67 docenti fossero obbligati ad ascoltare il 
                      Papa. Anche loro, come il Papa, erano liberi di starsene a 
                      casa o di presenziare al suo intervento tappandosi le 
                      orecchie o fischiandolo. Garantire all’altro la 
                      possibilità di esprimersi non significa essere obbligati 
                      ad ascoltarlo, né, a rigore, essere obbligati a 
                      riconoscere che il suo punto di vista è razionalmente 
                      giustificato. Più semplicemente, significa riconoscere che
                      nel mondo della ricerca il proprio punto di vista non 
                      può escludere, a priori, il confronto critico con 
                      qualsiasi altro punto di vista. Per questo, come ha 
                      scritto giustamente Alasdair MacIntyre, il docente 
                      universitario «dovrebbe ricoprire un ruolo non tanto di 
                      difensore di una specifica posizione intellettuale, quanto 
                      piuttosto quello di chi si impegna a sostenere e a 
                      ordinare i conflitti in corso, a fornire e a corroborare i 
                      mezzi istituzionalizzati che permettono di esprimerli, a 
                      trattare le modalità di incontro tra gli avversari, a 
                      garantire che le espressioni della parte rivale non 
                      vengano soffocate». 
                      Questo non significa, però, che ciascun intellettuale 
                      debba limitarsi a fare l’arbitro neutrale dei conflitti, 
                      come se godesse, rispetto ad essi, di una visione super 
                      partes. Deve invece partecipare egli stesso ai 
                      conflitti e «sorreggere l’università non come il teatro di 
                      un’oggettività neutrale, dal momento che ciascuna 
                      prospettiva in causa tenterebbe di imporre il proprio 
                      giudizio di parte sulla natura e sulla funzione 
                      dell’oggettività – ma piuttosto come teatro di conflitti 
                      in cui venga riconosciuto anche il dissenso morale e 
                      teologico più radicale». 
                      Purtroppo, invece, i 67 docenti hanno scambiato il loro 
                      «giudizio di parte» sulla natura e sulla funzione 
                      dell’oggettività con l’oggettività stessa, come risulta 
                      chiaramente dal passaggio in cui essi, in nome di 
                      un’Università «aperta a ogni credo e a ogni ideologia», 
                      auspicano l’annullamento dell’incontro con il 
                      rappresentante di un credo, quello cattolico. Secondo 
                      costoro, dunque, l’Università dovrebbe essere aperta a 
                      tutti, ma non al Papa. Come se il pluralismo non fosse la 
                      libera presenza di tutte le voci ma l’eliminazione delle 
                      voci considerate incompatibili con la propria 
                      particolare idea di pluralismo. Eppure, quando 
                      l’Università La Sapienza, nel giugno 2006, ha siglato un 
                      accordo di collaborazione con l’Università islamica di Al 
                      Azhar, alla presenza dello sheik e teologo sunnita Mohamed 
                      Sayed Tantawi, che nei suoi scritti ha giustificato i 
                      kamikaze palestinesi e la condanna a morte per i musulmani 
                      che si convertono al cristianesimo, i 67 docenti non hanno 
                      scritto alcuna lettera di protesta. 
                      È lecito domandarsi: perché Tantawi sì e Benedetto XVI no? 
                      Quando si invoca l’apertura a ogni credo per 
                      giustificare l’esclusione di un credo bisogna 
                      almeno esibire un argomento ad hoc, che 
                      giustifichi l’eccezione. L’accusa di aver citato 
                      Feyerabend, lo abbiamo visto, non è un argomento 
                      sufficiente. O, meglio, non è un argomento. Viene in mente 
                      un passo dei Topici di Aristotele: «Porre 
                      impedimento al discorso senza rivolgere una obiezione, o 
                      reale o che sembra tale, è segno di cattiva abitudine». 
                      
                      Sorge, a questo punto, il sospetto che in tutta questa 
                      vicenda la citazione di Feyerabend sia servita solo a 
                      mascherare una serie di radicati pregiudizi, tipici di una 
                      certa cultura accademica ancora legata al positivismo 
                      ottocentesco, come il pregiudizio secondo cui in una 
                      democrazia la voce della fede debba essere esclusa da ogni 
                      spazio pubblico, o il pregiudizio, legato al primo, che 
                      considera la fede in Gesù Cristo come un sentimento 
                      privato e irrazionale, laddove la razionalità sarebbe 
                      monopolio esclusivo delle scienze positive. Ma è davvero 
                      così? Certamente non sempre la rilevanza pubblica della 
                      fede ha dato frutti positivi nella storia, ma sarebbe 
                      ingiusto e falso ignorare gli innumerevoli e decisivi 
                      frutti positivi che essa ha offerto, e continua a offrire 
                      oggi, nel campo della cultura, della formazione, 
                      dell’assistenza sociale e ospedaliera. E se la fede 
                      nell’intelligibilità della creazione non avesse avuto una 
                      sua razionalità, da essa non sarebbe potuta nascere, come 
                      storicamente è nata, la scienza moderna. Senza 
                      considerare, infine, che il vecchio scientismo risuscitato 
                      da alcuni intellettuali in occasione di questa vicenda 
                      sembra ignorare le scottanti problematiche di bioetica e i 
                      vistosi limiti della scienza quando la si trasforma 
                      nell’unica forma di razionalità possibile. Come ha scritto 
                      Ludwig Wittgenstein, infatti, «Noi sentiamo che, anche se 
                      tutte le possibili domande della scienza trovassero una 
                      risposta, i nostri problemi vitali non sarebbero neppure 
                      sfiorati». 
                       
                      
                      Ma forse dietro la richiesta di annullare l’incontro con 
                      il Papa agiscono meccanismi culturali più profondi, che 
                      hanno creato una sorta di incomunicabilità tra una visione 
                      in cui la ragione si apre fiduciosa al mistero e una 
                      ragione che invece si chiude nel recinto, rassicurante, di 
                      ciò che si può sempre prevedere e controllare. Nel 
                      discorso che avrebbe dovuto pronunciare nell’Ateneo 
                      romano, dopo essersi domandato: «Che cosa ha da fare o da 
                      dire il Papa nell’università?», Benedetto XVI ha aggiunto: 
                      «Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo 
                      autoritario la fede, che può essere solo donata in 
                      libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella 
                      Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo 
                      ministero pastorale è suo compito mantenere desta la 
                      sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la 
                      ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di 
                      Dio». 
                      Per una cultura che ha cancellato l’idea che esista una 
                      verità irriducibile ai parametri della scienza e che ha 
                      sostituito la ricerca del bene con la ricerca dell’utile, 
                      rinunciando, infine, a misurarsi con il problema di Dio, 
                      questo, in effetti, è un messaggio scomodo. Talmente 
                      scomodo, che sarebbe meglio non sentirlo pronunciare. 
                      
                        
                      
                         
                           
                          Luciano Sesta 
                      
                      
                         
                            
                          *   *   *   *   * 
                      
                      
                        
                      
                      In questo nuovo numero della nostra rivista pubblichiamo 
                      gli interventi che Marianna Gensabella Furnari e Demetrio 
                      Neri, entrambi membri del Comitato Nazionale di Bioetica, 
                      hanno presentato all’incontro su Eutanasia e 
                      accanimento terapeutico. Aspetti clinici e bioetici, 
                      tenutosi a Palermo il 27 ottobre per il Ciclo di Incontri 
                      di Bioetica organizzato dall’Associazione Thomas 
                      International. A seguire, un articolo di Maria Rita Fedele 
                      sul problema della differenza sessuale e le consuete 
                      rubriche. Come si accorgeranno i nostri lettori, 
                      “Questioni di bioetica” comincia a ospitare contributi di 
                      studiosi che non condividono la nostra posizione di fondo, 
                      che è quella personalista e giusnaturalista. Siamo 
                      convinti, infatti, che solo nel confronto autentico e 
                      sincero delle rispettive posizioni sia possibile non solo 
                      evitare schematiche contrapposizioni ma anche, e 
                      soprattutto, maturare un giudizio critico e ben fondato 
                      sui problemi della bioetica. Ci piace anche promuovere, in 
                      questo modo, l’idea che la verità si faccia strada da sé, 
                      consentendo a chi la ricerca senza pregiudizi e in buona 
                      fede il “lusso” di potersi confrontare con chiunque, in 
                      qualunque modo la pensi.    
                      
                        
                        
                        
 
 
                             
                             
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                             
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                          
                          
                           
                          A. TORRESANI, 
                          art. cit., p. 210. 
                           
                           
                           
                           
                           
                             |  |