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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 5 - Gennaio 2008 
     
 

 Editoriale

Il Papa e l’Università

Scoprire le ragioni di una vicenda controversa


Il dibattito sulla laicità delle istituzioni e sul ruolo della Chiesa, oltre che sul rapporto tra scienza, ragione e fede, è stato rilanciato in Italia dall’invito che il Rettore dell’Università “La Sapienza” di Roma ha rivolto a Papa Benedetto XVI, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico. Come è noto, il dibattito si è acceso soprattutto quando 67 docenti dell’Ateneo, prevalentemente appartenenti alla Facoltà di Fisica, hanno indirizzato una lettera di protesta al Rettorato dell’Università, auspicando l’annullamento dell’incontro con il Pontefice[1]. Le polemiche che si sono sviluppate in seguito, a cui si è aggiunta anche l’occupazione del Rettorato da parte di alcuni gruppi di studenti, hanno infine convinto Benedetto XVI a rinunciare all’invito. Poiché è stato detto e scritto tanto sull’argomento, spesso sotto la pressione di spinte emotive e poco ragionate e in un clima di aspra contrapposizione ideologica, è opportuno ricostruire attentamente la vicenda, cercando di coglierne l’autentico significato.

Partiamo dalle ragioni che hanno spinto il Papa a rinunciare all’invito. Durante l’Angelus in Piazza san Pietro, Ratzinger si è limitato a dire: «Avevo accolto molto volentieri il cortese invito, ma il clima che si era creato ha reso inopportuna la mia presenza alla cerimonia e ho rinunciato mio malgrado»[2]. Alcuni, come Paolo Flores d’Arcais, direttore della rivista Micromega, hanno commentato l’episodio dicendo che il Papa, essendo abituato ad avere di fronte a sé folle festanti e compiacenti, appena ha sentito odore di contestazione, se ne è rimasto a casa[3]. Un’affermazione del genere non aiuta però a comprendere l’accaduto, limitandosi ad attribuire al Papa un atteggiamento di fuga dal confronto. Dispiace, del resto, che l’insinuazione venga proprio da Flores d’Arcais, al quale Joseph Ratzinger aveva dimostrato apertura e disponibilità, accogliendone l’invito per un dibattito pubblico, svoltosi il 21 settembre del 2000 al teatro Quirino di Roma[4]. Nella lettera a Flores d’Arcais, con cui confermava la sua presenza al dibattito, Ratzinger scriveva: «Nei rari momenti liberi sto leggendo Micromega 2/2000 e trovo estremamente interessante il vasto panorama di posizioni. Sotto molti aspetti è il commento più importante, che io conosco, alla Fides et ratio, perché qui l’Enciclica entra realmente in dialogo col mondo culturale di oggi»[5]. Il numero di Micromega a cui Ratzinger si riferiva ospitava anche un suo contributo, che lo stesso Flores gli aveva richiesto, ottenendo questa risposta: «Sono senz’altro d’accordo per la pubblicazione su Micromega del mio saggio. Trovo interessante che esso sia ospitato sulle pagine di una rivista filosofica di stampo laico, con una prevalenza di contributi di non credenti, per stimolare il dibattito [...]. La saluto con stima»[6]. Come si può vedere, parole di ordinaria cordialità che esprimono tutt’altro che chiusura, pur nella consapevolezza della forte divergenza di idee.

A voler prendere sul serio le parole del Papa stesso e le motivazioni ufficiali della Santa Sede, si dovrebbe dire, pertanto, che Benedetto XVI ha preferito rinunciare all’invito perché non ha ritenuto opportuno creare, con la sua presenza, disordini e divisioni tra i docenti e gli studenti dell’Università. Se si viene invitati da una famiglia che poi si divide a causa dell’invito, allora forse è meglio aspettare che ritorni un clima più sereno per incontrarsi in spirito di confronto e di amicizia[7]. Sarebbe ingenuo pensare che il Papa non sappia che molti non la pensano come lui. Ma una cosa è intervenire sapendo che i tuoi interlocutori non condividono le tue idee, altra cosa è intervenire sapendo che i tuoi interlocutori, anche se non ti impediscono materialmente di parlare, non vogliono ascoltarti. Soprassedendo all’invito, pertanto, il Papa ha mostrato una ragionevole discrezione. Ed è curioso che gli stessi che accusano di ingerenza il Papa quando interviene, lo accusino poi di codardia quando si fa da parte.

Sono in molti, in effetti, ad aver notato che la protesta anti-Ratzinger da parte di una minoranza di docenti (67 su un totale di 4500) e di studenti, sia stata motivata da pregiudizi ideologici. Così, alla notizia della rinuncia di Benedetto XVI si sono levate le reazioni indignate di parecchi personaggi politici e di numerosi mezzi di informazione nazionali. Si è considerato infatti inammissibile che, in un Paese democratico, venisse impedito al Papa di esprimere la sua opinione in un contesto pubblico. A questo coro di reazioni indignate si è però contrapposta l’idea di chi ha sottolineato che al Papa non è stato affatto “impedito” di parlare, visto che è stato lui stesso a rinunciare al proprio intervento[8]. E anche qualora Benedetto XVI si fosse recato alla Sapienza, nessuno gli avrebbe fisicamente impedito di pronunciare il suo discorso. Si sono così accese dispute su che cosa significhi la libertà di parola in un Paese laico e democratico, e, soprattutto, in un’Università. Alcuni, solidarizzando con i 67 docenti e con gli studenti che avevano raccolto la loro protesta contro la visita del Papa, hanno concluso che la libertà di espressione non è un diritto incondizionato, che autorizza chiunque a parlare ovunque, ma un diritto che deve fare i conti con l’altrui diritto di contestare e di esprimere un’opinione contraria. I 67 docenti e coloro che li hanno appoggiati, pertanto, si sono pienamente inseriti in questa logica, e accusarli di aver voluto censurare la voce del Papa è un errore che tradisce scarso senso della laicità.

Alcuni aspetti di questa critica sono convincenti. In effetti nessuno ha impedito al Papa di parlare, soprattutto se si pensa che è stato il Papa stesso a soprassedere. La partita, da questo punto di vista, si sarebbe risolta in parità: libertà di contestare per i 67 docenti e per gli studenti, libertà di intervenire o di starsene a casa per Benedetto XVI. Tuttavia, se le cose fossero davvero così semplici, non si spiegherebbe la dura polemica a cui abbiamo assistito. Deve esserci dunque qualcos’altro, che non riguarda solo il modo in cui i docenti e il Papa si sono avvalsi della loro rispettiva libertà di movimento, ma che riguarda, soprattutto, le ragioni dei docenti contestatari, da un lato, e quelle del Papa, dall’altro lato. Solo esaminando queste ragioni sarà possibile comprendere il senso della vicenda, per scoprire, infine, se davvero la partita si è risolta in parità o se invece qualcuno ne è rimasto in qualche modo sconfitto.

Come è risaputo, contro la visita del Pontefice erano state inizialmente avanzate ragioni di tipo formale e istituzionale. Si era cioè considerato inopportuno che un capo di Stato, quale è formalmente il Papa, inaugurasse l’anno accademico di un’Università, per di più laica. In effetti al Papa era stato chiesto di intervenire pronunciando una lectio magistralis, la cui funzione è quella di dare il tono all’intero anno accademico, e che, per questo, è tradizionalmente riservata ai docenti dell’Ateneo. Riconoscendo la pertinenza di queste osservazioni, il Rettore aveva accolto le proteste, “retrocedendo” l’intervento del Papa a semplice relazione e affidando la lectio magistralis a un docente dell’Ateneo[9]. Ma, a questo punto, la protesta non si è fermata, rivelando che le ragioni istituzionali non erano le vere ragioni dell’opposizione alla visita di Benedetto XVI. E infatti, dopo aver definito «sconcertante» l’iniziativa di invitare il Papa, i docenti firmatari della lettera hanno motivato la loro richiesta di annullare l’invito scrivendo: «il 15 marzo 1990, ancora cardinale, [...] Joseph Ratzinger ha ripreso un'affermazione di Feyerabend: “All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto”. Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano. In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora essere annullato»[10]. L’auspicio, insomma, non è stato più motivato dall’inopportunità che un Pontefice intervenisse all’Università, ma che vi intervenisse la persona di Joseph Ratzinger con le sue particolari concezioni filosofiche. Quella che era inizialmente apparsa come una polemica istituzionale tra la Chiesa Cattolica, da un lato, e un’Università laica, dall’altro lato, si è così trasformata in una disputa intellettuale tra un gruppo di docenti di Fisica e un teologo. 

È d’obbligo, perciò, leggere il brano incriminato, non solo perché i 67 docenti giudicano il Papa per una frase che non è sua, lasciando intendere, senza però documentarlo, che egli la condivida, ma anche perché essi danno per scontato che il giudizio di Feyerabend sul caso Galilei non abbia alcun valore. Ora, il testo di Ratzinger a cui la lettera si riferisce è stato pubblicato in Germania nel 1991 e in traduzione italiana nel 1992, nel volume Svolta per l’Europa?[11] Nel paragrafo da cui è tratta la citazione di Feyerabend, intitolato La crisi della fede nella scienza, Ratzinger parte da un assunto oggi ampiamente condiviso, secondo cui, soprattutto di fronte ai rischi ambientali e nucleari, «la domanda circa i limiti della scienza e i criteri cui essa deve attenersi si è fatta inevitabile»[12]. Significativo di questa nuova consapevolezza dei limiti della scienza e dei suoi tradizionali criteri, aggiunge Ratzinger, è «il diverso modo con cui si giudica il caso Galileo». Un caso che, «ancora poco considerato nel XVII secolo, venne – già nel secolo successivo – elevato a mito dell’illuminismo. Galileo appare come vittima di quell’oscurantismo medievale che permane nella Chiesa. Bene e male sono separati con un taglio netto. Da una parte troviamo l’Inquisizione: il potere che incarna la superstizione, l’avversario della libertà e della conoscenza. Dall’altra la scienza della natura, rappresentata da Galileo; ecco la forza del progresso e della liberazione dell’uomo dalle catene dell’ignoranza che lo mantengono impotente di fronte alla natura. La stella della Modernità brilla nella notte buia dell’oscuro Medioevo»[13]. Ciò che incuriosisce, prosegue Ratzinger, è che tra i primi a mettere in questione tale mito sono stati filosofi e scienziati marxisti, agnostici e atei, tra i quali Ernst Bloch, Carl Friedrich von Weizsäcker e Paul Feyerabend.

Secondo Bloch, sia il geocentrismo sia l’eliocentrismo sono fondati su un presupposto che la teoria della relatività ha ormai cancellato, e cioè l’esistenza di uno spazio assoluto, vuoto e immobile. Non trovandosi più dentro uno spazio oggettivo, il movimento dei corpi deve essere considerato un movimento relativo, la cui misurazione «dipende dalla scelta del corpo assunto come punto di riferimento»[14]. Ma questo significa, prosegue Bloch, che «qualora la complessità dei calcoli risultanti non rendesse impraticabile l’ipotesi – adesso come allora si potrebbe supporre la terra fissa e il sole mobile»[15]. Riprendendo una concezione ampiamente accettata della scienza moderna, Bloch ritiene dunque che la maggiore validità del sistema eliocentrico rispetto a quello geocentrico non consiste in una maggiore corrispondenza alla verità oggettiva, ma soltanto nel fatto che esso ci offre una maggiore facilità di calcolo. La conclusione di Bloch è che, una volta data per certa la relatività del movimento, un antico sistema di riferimento umano e cristiano, come quello che il cardinale Bellarmino fece valere contro Galilei, non ha certo alcun diritto di interferire nei calcoli astronomici ma, al tempo stesso, tale sistema conserva il diritto di controllare le applicazioni della scienza, fedele alla propria preoccupazione di salvaguardare il bene dell’uomo e la sua dignità[16].

Ratzinger non lo scrive, ma si potrebbe aggiungere, a commento di quest’ultima citazione di Bloch, che se per noi oggi controllare le applicazioni della scienza per il bene dell’umanità significa far fronte all’effetto serra o al riscaldamento globale, al tempo di Galilei significava valutare le conseguenze che l’ipotesi eliocentrica avrebbe avuto sulla credibilità delle Scritture. In un contesto di crisi e di tensioni difficili da governare, anche a causa del diffondersi del protestantesimo, per la società cristiana accettare l’ipotesi eliocentrica significava abbandonare una verità fino allora ampiamente accettata anche per fede. Lo si sarebbe potuto fare, pertanto, solo se lo scienziato pisano avesse portato prove evidenti della sua teoria. Per questo l’Inquisizione gli chiese di qualificare la sua teoria «ex suppositione», come ipotesi, in attesa che il tempo e le ricerche dello stesso Galilei portassero la prova definitiva[17]. Ma Galilei non volle accettare la proposta, convinto di aver già trovato nel movimento delle maree la prova decisiva, che invece oggi sappiamo essere falsa. Insomma, mutatis mutandis, Bellarmino fece valere, contro le ipotesi eliocentriche di Galilei, qualcosa di analogo a quello che oggi i movimenti ambientalisti fanno valere contro le teorie che negano il riscaldamento globale per giustificare l’emissione dei gas. Come qualche anno dopo il processo si scoprì che Bellarmino aveva torto, allo stesso modo tra qualche anno potremmo scoprire che l’ipotesi del global warming è falsa. Tuttavia, fino a quando questo non viene dimostrato, è comprensibile e ragionevole, da parte dei movimenti ambientalisti, dare maggiore importanza alla salute dell’ambiente piuttosto che a una teoria scientifica non ancora dimostrata. E, se questa venisse successivamente dimostrata, non sarebbe corretto, facendosi forti di un giudizio che viene dato con il senno di poi, considerare l’ambientalismo come un’ideologia oscurantista o antiscientifica.

Ma torniamo al testo di Ratzinger. Dopo aver presentato la posizione di Bloch, viene introdotta finalmente la citazione incriminata di Feyerabend con le seguenti parole: «molto più drastico appare invece il giudizio sintetico del filosofo agnostico-scettico P. Feyerabend. Egli scrive: “La Chiesa all’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu ragionevole e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione”»[18]. Viene aggiunto anche un pensiero di von Weizsäcker, che, facendo «un passo avanti» dal punto di vista delle conseguenze etiche e sociali della svolta galileiana, vede un via diretta che conduce da Galilei alla bomba atomica[19]. Fin qui la descrizione di un dibattito sui rapporti tra scienza e fede alla luce delle nuove interpretazioni filosofiche del caso Galilei. Ed ecco, finalmente, il commento di Ratzinger alle citazioni di Bloch, Feyerabend e von Weizsäcker: «Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua iscrizione in una ragionevolezza più grande»[20].

Come si può vedere, ma come in realtà sanno bene tutti quelli che conoscono il pensiero teologico e filosofico del Pontefice, qui Ratzinger rifiuta apertamente l’estremismo di Feyerabend, utilizzandolo solo per segnalare, insieme al pensiero di altri autori, il venir meno della fiducia incondizionata nei poteri delle scienze positive[21]. Nessun disprezzo, dunque, né della scienza né della ragione. Anzi, c’è qui la difesa della scienza e della ragione da un’improponibile sacralizzazione, che distruggerebbe entrambe trasformando la prima in un arido scientismo e la seconda in un chiuso razionalismo. Se dunque Ratzinger non ha mai condiviso la citazione di Feyerabend che gli è stata rimproverata, perché i 67 docenti hanno chiesto di annullare comunque l’invito? L’unica risposta possibile ci sembra la seguente: lo hanno fatto perché hanno considerato talmente intollerabile lo stesso giudizio di Feyerabend sul caso Galilei da ritenere «sconcertante» la possibilità di invitare in un’Università uno studioso che, pur non condividendo questo giudizio, ha osato però citarlo.    

Torneremo sulla strana idea di Università che soggiace a una simile conclusione. Per ora basti notare che, a meno che l’interlocutore non voglia teorizzare la plausibilità della pedofilia o dell’antisemitismo, è difficile accettare che possa essere censurato culturalmente solo perché la pensa in un certo modo sul caso Galilei. Soprattutto se questa censura viene fatta usando, come criterio, una versione caricaturale e storicamente inadeguata del caso Galilei. Che una tale versione sia ormai divenuta una sorta di dogma nelle scuole e nelle università, del resto, è stato rivelato da una recente inchiesta del Consiglio d’Europa tra gli studenti di scienze di tutti i Paesi della Comunità[22]. Quasi il 30% degli studenti era convinto che Galilei fosse stato arso vivo sul rogo. La quasi totalità, il 97%, era comunque convinta che fosse stato sottoposto a tortura. Come è noto, invece, Galilei non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Convocato a Roma per il processo, si sistemò, a spese della Santa Sede, in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e con cameriere personale. Dopo la sentenza alloggiò nella villa dei Medici al Pincio per poi trasferirsi come ospite nel palazzo dell’Arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici che lo stimavano e lo incoraggiarono nella sua impresa, e ai quali Galilei, non a caso, aveva dedicato le sue opere. Infine, il “condannato” si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, proseguendo le sue ricerche, che nessuno gli impedì mai di portare avanti, né prima, né durante, né dopo il processo.

Insomma, il caso Galilei andrebbe rivisto alla luce di una valutazione più sobria ed equilibrata, maggiormente informata e, soprattutto, che tenga conto del contesto storico. Naturalmente gli ecclesiastici del XVII secolo mostravano un certo ritardo culturale nella comprensione dei rapporti tra scienza e fede, un’eccessiva preoccupazione di tipo giuridico, un’incapacità di affrontare l’esegesi biblica con criteri più aperti, ecc. Ma sarebbe assurdo rimproverare la Chiesa del tempo di non aver utilizzato, nell’affrontare la vicenda, criteri di lettura che cominciarono a svilupparsi solo alla fine del XIX secolo e che, tra l’altro, sono ancora oggetto di dibattito[23]. Si badi, questo dovrebbe valere non solo quando giudichiamo l’operato della Chiesa, ma anche quando giudichiamo quello di Galilei. Rimproverare il cardinale Bellarmino di non aver utilizzato gli odierni criteri di esegesi biblica o di non aver rispettato l’autonomia della scienza è sbagliato quanto lo è rimproverare Galilei di non aver applicato alla propria teoria il fallibilismo popperiano o di essere stato il responsabile della costruzione della bomba atomica. Da questo punto di vista, dando per scontati i limiti della Chiesa ma non quelli di Galilei, i 67 firmatari della lettera anti-Ratzinger si trovano, per ironia della sorte, d’accordo proprio con Feyerabend e con von Weizsäcker: chi giudica una vicenda del XVII secolo con criteri desunti dal XX secolo, infatti, può certamente considerare la Chiesa come un’istituzione oscurantista e nemica della scienza, con l’inconveniente, però, di dover accettare come legittima, al tempo stesso, l’affermazione che Galilei sia stato non solo il padre del disastro ecologico e della bomba atomica ma anche uno scienziato un po’ sprovveduto, perché ignaro del carattere ipotetico e fallibile delle teorie scientifiche.     

In realtà, come ha mostrato proprio Ratzinger nel testo incriminato dai 67 docenti, il caso Galilei, come tutte le vicende storiche che hanno determinato svolte importanti, è un caso complesso, che non si lascia facilmente strumentalizzare né da chi si schiera con la Chiesa né da chi si schiera con Galilei. Fede e scienza, insomma, sono meno distanti e nemiche di quanto non lo siano coloro che, unilateralmente, prendono posizione o per l’una o per l’altra. Lascia perplessi, perciò, che i firmatari della lettera contrari alla visita di Ratzinger si siano auto-definiti “scienziati fedeli alla ragione” e abbiano auspicato l’annullamento dell’incontro “in nome della laicità e della cultura”. In effetti, per essere scienziati fedeli alla ragione che agiscono in nome della laicità e della cultura non è necessario sposare solo una delle tante interpretazioni del caso Galilei, dichiarandosi addirittura “offesi e umiliati” di fronte a chi dovesse citare altre interpretazioni. Uno scienziato fedele alla ragione non è così poco libero di fronte a idee che ritiene sbagliate, da doversi sentire offeso e umiliato per la loro diffusione. Si sentirà, casomai, ulteriormente responsabilizzato. Così, se proprio non condivide il giudizio di Feyerabend sul caso Galilei, egli si armerà di strumenti critici e storiografici per cercare di dimostrare che tale giudizio è sbagliato. E potrà anche scrivere una lettera aperta alle autorità accademiche che hanno invitato studiosi che citano Feyerabend, per instaurare un confronto critico che le convinca di aver preso un abbaglio. Quello che in ogni caso uno scienziato fedele alla ragione si guarderà bene dal fare, è chiedere che gli studiosi che citano Feyerabend non intervengano all’Università.

Per tornare a quanto si è detto all’inizio, ciò che è in gioco, qui, non è dunque la libertà di espressione ma proprio la fedeltà alla ragione. Certamente sia i docenti contestatari sia Benedetto XVI sono stati liberi di muoversi come meglio credevano. E tuttavia, quando, in un contesto accademico, dei docenti universitari utilizzano la propria libertà di parola non per contestare il punto di vista dell’altro ma per chiedere che venga annullata la stessa possibilità che l’altro esprima il suo punto di vista, allora siamo caduti al di fuori dell’Università, anche se, formalmente, la libertà di espressione dell’altro non è stata violata. In un contesto accademico, infatti, perché la libertà dell’altro sia rispettata non basta lasciare l’altro libero di esprimersi ma è necessario garantirgli istituzionalmente la possibilità di farlo. Questo, naturalmente, non significa che i 67 docenti fossero obbligati ad ascoltare il Papa. Anche loro, come il Papa, erano liberi di starsene a casa o di presenziare al suo intervento tappandosi le orecchie o fischiandolo. Garantire all’altro la possibilità di esprimersi non significa essere obbligati ad ascoltarlo, né, a rigore, essere obbligati a riconoscere che il suo punto di vista è razionalmente giustificato. Più semplicemente, significa riconoscere che nel mondo della ricerca il proprio punto di vista non può escludere, a priori, il confronto critico con qualsiasi altro punto di vista. Per questo, come ha scritto giustamente Alasdair MacIntyre, il docente universitario «dovrebbe ricoprire un ruolo non tanto di difensore di una specifica posizione intellettuale, quanto piuttosto quello di chi si impegna a sostenere e a ordinare i conflitti in corso, a fornire e a corroborare i mezzi istituzionalizzati che permettono di esprimerli, a trattare le modalità di incontro tra gli avversari, a garantire che le espressioni della parte rivale non vengano soffocate»[24]. Questo non significa, però, che ciascun intellettuale debba limitarsi a fare l’arbitro neutrale dei conflitti, come se godesse, rispetto ad essi, di una visione super partes. Deve invece partecipare egli stesso ai conflitti e «sorreggere l’università non come il teatro di un’oggettività neutrale, dal momento che ciascuna prospettiva in causa tenterebbe di imporre il proprio giudizio di parte sulla natura e sulla funzione dell’oggettività – ma piuttosto come teatro di conflitti in cui venga riconosciuto anche il dissenso morale e teologico più radicale»[25]. Purtroppo, invece, i 67 docenti hanno scambiato il loro «giudizio di parte» sulla natura e sulla funzione dell’oggettività con l’oggettività stessa, come risulta chiaramente dal passaggio in cui essi, in nome di un’Università «aperta a ogni credo e a ogni ideologia», auspicano l’annullamento dell’incontro con il rappresentante di un credo, quello cattolico. Secondo costoro, dunque, l’Università dovrebbe essere aperta a tutti, ma non al Papa. Come se il pluralismo non fosse la libera presenza di tutte le voci ma l’eliminazione delle voci considerate incompatibili con la propria particolare idea di pluralismo. Eppure, quando l’Università La Sapienza, nel giugno 2006, ha siglato un accordo di collaborazione con l’Università islamica di Al Azhar, alla presenza dello sheik e teologo sunnita Mohamed Sayed Tantawi, che nei suoi scritti ha giustificato i kamikaze palestinesi e la condanna a morte per i musulmani che si convertono al cristianesimo, i 67 docenti non hanno scritto alcuna lettera di protesta[26]. È lecito domandarsi: perché Tantawi sì e Benedetto XVI no? Quando si invoca l’apertura a ogni credo per giustificare l’esclusione di un credo bisogna almeno esibire un argomento ad hoc, che giustifichi l’eccezione. L’accusa di aver citato Feyerabend, lo abbiamo visto, non è un argomento sufficiente. O, meglio, non è un argomento. Viene in mente un passo dei Topici di Aristotele: «Porre impedimento al discorso senza rivolgere una obiezione, o reale o che sembra tale, è segno di cattiva abitudine»[27].

Sorge, a questo punto, il sospetto che in tutta questa vicenda la citazione di Feyerabend sia servita solo a mascherare una serie di radicati pregiudizi, tipici di una certa cultura accademica ancora legata al positivismo ottocentesco, come il pregiudizio secondo cui in una democrazia la voce della fede debba essere esclusa da ogni spazio pubblico, o il pregiudizio, legato al primo, che considera la fede in Gesù Cristo come un sentimento privato e irrazionale, laddove la razionalità sarebbe monopolio esclusivo delle scienze positive. Ma è davvero così? Certamente non sempre la rilevanza pubblica della fede ha dato frutti positivi nella storia, ma sarebbe ingiusto e falso ignorare gli innumerevoli e decisivi frutti positivi che essa ha offerto, e continua a offrire oggi, nel campo della cultura, della formazione, dell’assistenza sociale e ospedaliera. E se la fede nell’intelligibilità della creazione non avesse avuto una sua razionalità, da essa non sarebbe potuta nascere, come storicamente è nata, la scienza moderna. Senza considerare, infine, che il vecchio scientismo risuscitato da alcuni intellettuali in occasione di questa vicenda sembra ignorare le scottanti problematiche di bioetica e i vistosi limiti della scienza quando la si trasforma nell’unica forma di razionalità possibile. Come ha scritto Ludwig Wittgenstein, infatti, «Noi sentiamo che, anche se tutte le possibili domande della scienza trovassero una risposta, i nostri problemi vitali non sarebbero neppure sfiorati».[28] 

Ma forse dietro la richiesta di annullare l’incontro con il Papa agiscono meccanismi culturali più profondi, che hanno creato una sorta di incomunicabilità tra una visione in cui la ragione si apre fiduciosa al mistero e una ragione che invece si chiude nel recinto, rassicurante, di ciò che si può sempre prevedere e controllare. Nel discorso che avrebbe dovuto pronunciare nell’Ateneo romano, dopo essersi domandato: «Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università?», Benedetto XVI ha aggiunto: «Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio»[29]. Per una cultura che ha cancellato l’idea che esista una verità irriducibile ai parametri della scienza e che ha sostituito la ricerca del bene con la ricerca dell’utile, rinunciando, infine, a misurarsi con il problema di Dio, questo, in effetti, è un messaggio scomodo. Talmente scomodo, che sarebbe meglio non sentirlo pronunciare.

 

 

Luciano Sesta

 

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In questo nuovo numero della nostra rivista pubblichiamo gli interventi che Marianna Gensabella Furnari e Demetrio Neri, entrambi membri del Comitato Nazionale di Bioetica, hanno presentato all’incontro su Eutanasia e accanimento terapeutico. Aspetti clinici e bioetici, tenutosi a Palermo il 27 ottobre per il Ciclo di Incontri di Bioetica organizzato dall’Associazione Thomas International. A seguire, un articolo di Maria Rita Fedele sul problema della differenza sessuale e le consuete rubriche. Come si accorgeranno i nostri lettori, “Questioni di bioetica” comincia a ospitare contributi di studiosi che non condividono la nostra posizione di fondo, che è quella personalista e giusnaturalista. Siamo convinti, infatti, che solo nel confronto autentico e sincero delle rispettive posizioni sia possibile non solo evitare schematiche contrapposizioni ma anche, e soprattutto, maturare un giudizio critico e ben fondato sui problemi della bioetica. Ci piace anche promuovere, in questo modo, l’idea che la verità si faccia strada da sé, consentendo a chi la ricerca senza pregiudizi e in buona fede il “lusso” di potersi confrontare con chiunque, in qualunque modo la pensi.   

 


 


[1] Il testo della lettera, che abbiamo ripreso da http://www.ilsole24ore.com, può essere letto quasi ovunque su Internet. Va precisato che la lettera dei 67 docenti riprende una precedente lettera aperta, indirizzata sempre al Rettore della Sapienza, scritta dal professor Marcello Cini e apparsa sul “Manifesto” del 14 novembre 2007, dal titolo Se la Sapienza chiama il Papa e lascia a casa Mussi.

[2] BENEDETTO XVI, Angelus, domenica 20 gennaio 2008, http://www.vatican.va/

[3] P. FLORES D’ARCAIS, Lettera aperta al presidente Napolitano, “Liberazione” 20 gennaio 2008.

[4] Il dibattito tra Flores d’Arcais e Ratzinger è stato poi pubblicato in un volumetto dal titolo Dio esiste? Un confronto su verità, fede, ateismo, Il fondaco di Micromega, supplemento a “Micromega” 2/2005.

[5] “Nota editoriale”, in Dio esiste? cit., p. 1.  

[6] J. RATZINGER, La verità cattolica, “Micromega” 2/2000, pp. 41-64, cit. p. 64.

[7] Cfr. Lettera del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone al Magnifico Rettore dell’Università degli Studi  di Roma “La Sapienza” su http://www.vatican.va/

[8] P. FLORES D’ARCAIS, Lettera aperta al presidente Napolitano, cit. e A. ORSI – L. DELOGU, Appello di solidarietà con i colleghi (e gli studenti) della “Sapienza” di Roma, http://www.historiamagistra.com

[9] Fa comunque impressione che spesso le Università invitino personaggi di dubbio spessore morale e culturale mentre quando si riesce ad avere una figura autorevole come il Papa e come il professor Ratzinger si cerchi il pelo nell’uovo. 

[10] Testo della lettera dei 67 docenti della Sapienza indirizzata al Rettore Ruggero Guarini, http://www.ilsole24ore.com

[11] J. RATZINGER, Wendezeit für Europa? Diagnosen und Prognosen zur Lage von Kirche und Welt, Einsiedeln Johannes Verlag, Freiburg i. Br. 1991; tr. it. Svolta per l’Europa. Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, a cura di C. Fedeli, San Paolo, Cinisello Balsamo 1992, pp. 65-89.

[12] Ivi, p. 76.

[13] Ivi, p. 77.

[14] E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt/Main 1959, p. 920, cit. in J. RATZINGER, Svolta per l’Europa?

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Sul processo a Galilei, oltre a P. PAGNINI, Il processo e il Dialogo di Galileo Galilei, in G. GALILEI, Opere, 5 voll., Sansoni, Firenze 1964, vol. II, si veda anche l’eccellente studio di A. TORRESANI, Il “Dialogo sopra i due massimi sistemi” e il dramma di Galileo, “Cultura & Libri” 4 (1984), pp. 197-213.

[18] J. RATZINGER, Svolta per l’Europa? cit., p. 78. La citazione di Feyerabend è ripresa dal celebre saggio Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 1979.

[19] J. RATZINGER, Svolta per l’Europa? cit., p. 78. 

[20] Ivi, pp. 78-79.

[21] Anzi, come ha scritto Giorgio Israel, il testo incriminato del Papa «può ben essere considerato, per chi lo legga con un minimo di attenzione, come una difesa della razionalità galileiana contro lo scetticismo e il relativismo della cultura postmoderna. Del resto chi conosca un minimo i recenti interventi del Papa sull’argomento sa bene come egli consideri con "ammirazione" la celebre affermazione di Galileo che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico.
Come è potuto accadere che dei docenti universitari siano incorsi in un simile infortunio? Un docente dovrebbe considerare come una sconfitta professionale l'aver trasmesso un simile modello di lettura disattenta, superficiale e omissiva che conduce a un vero e proprio travisamento. Ma temo che qui il rigore intellettuale interessi poco e che l'intenzione sia quella di menar fendenti ad ogni costo. Né c’entra la laicità, categoria estranea ai comportamenti di alcuni dei firmatari, che non hanno mai speso una sola parola contro l'integralismo islamico o contro la negazione della Shoah» (G. I
SRAEL, Quando il Papa difese Galileo, “L’Osservatore Romano” 16 gennaio 2008).

[22] Cfr. V. MESSORI, Galileo Galilei, in ID., Pensare la storia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1992, pp. 384 ss.

[23] A. TORRESANI, art. cit., p. 210.

[24] A. MACINTYRE, Enciclopedia, genealogia e tradizione. Tre versioni rivali di ricerca morale, Milano, Massimo 1993, p. 321.

[25] Ibidem.

[26] Cfr. R. FARINA, L'ignoranza domina tra i presunti scienziati, “Libero” 13 gennaio 2008. Non a caso, nella lettera aperta del professor Cini, che i 67 docenti dichiarano di condividere appieno, si trova una malcelata presa di posizione in favore dei musulmani contro le presunte offese che Ratzinger avrebbe loro inferto con il suo discorso all’Università di Ratisbona, nel settembre del 2006. L’affermazione del Papa, ripresa da Manuele II, secondo cui «Non agire “con il logos” è contrario alla natura di Dio», viene giudicata dal professor Cini «pericolosa, dal punto di vista politico e culturale». Come si può vedere, quando si è troppo preoccupati di mantenere il monopolio scientifico della razionalità contro la fede si arriva a considerare «pericoloso» invitare i credenti di ogni religione ad agire con il logos, finendo per accettare che la propria Università collabori con credenti, come Tantawi, che agiscono “senza logos”.

[27] ARISTOTELE, Topici, VIII, 160 b 36.

[28] L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1995, 6. 52, p. 81.

[29] BENEDETTO XVI, Allocuzione per l’incontro con l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” 16.01.08, su http://www.vatican.va/

 
     
     
 
 
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