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                       Per 
                      una soluzione dei dilemmi morali della bioetica: “mettersi 
                      d’accordo” o “fare la cosa giusta”? 
                       di
                      Luciano Sesta   
                      1. Il rischio di una dissoluzione della domanda etica in 
                      bioetica 
                         
                          Chiunque oggi voglia occuparsi di bioetica non può non confrontarsi con il problema 
                          del c.d. pluralismo etico. La posizione oggi dominante, 
                          che assume un tale pluralismo come un dato di fatto 
                          irriducibile, è limpidamente rappresentata da Hugo Tristram 
                          Engelhardt nel suo ormai celebre The Foundation of 
                          Bioethics: 
                        
                      poiché 
                      non ci sono argomenti [...] decisivi capaci di provare che 
                      una concreta visione della vita morale è migliore delle 
                      visioni alternative, e poiché non è avvenuta una 
                      conversione di tutti a un unico punto di vista morale, 
                      allora l’autorità morale [...] è l’autorità del consenso. 
                      L’autorità non è né quella del potere coercitivo, né 
                      quella della volontà di Dio, né quella della ragione, ma 
                      semplicemente l’autorità delle persone che decidono di 
                      collaborare. 
                        
                      In una moderna società democratica, in effetti, nessuno può 
                      imporre la sua concezione personale a coloro che non la 
                      condividono. Per risolvere efficacemente i delicati 
                      problemi sollevati dal progresso delle scienze biomediche 
                      non rimane, dunque, che la logica del consenso. Un 
                      consenso che, in ragione della conflittualità reciproca di 
                      alcune convinzioni morali, spesso prende il volto di un 
                      compromesso, ovvero di un accordo in cui ciascuna delle 
                      parti in causa rinuncia a qualcosa per venire incontro 
                      all’altra, garantendo, in tal modo, la possibilità di un 
                      agire condiviso. 
                      
                      L’apparente plausibilità di tale impostazione non deve far 
                      dimenticare che essa tende a cancellare l’interrogativo 
                      morale della bioetica, svuotandola dello spessore 
                      problematico che, pure, si vorrebbe salvaguardare 
                      riconoscendo il pluralismo irriducibile delle nostre 
                      società. La bioetica del compromesso (o bioetica 
                      procedurale del consenso), infatti, non considera più 
                      l’etica come una riflessione su cosa è bene e su cosa è 
                      male, ma come uno strumento di calcolo e di negoziazione 
                      pacifica tra interessi individuali e concezioni private 
                      circa il senso della vita, della salute ecc. Una 
                      negoziazione che non investe solo i problemi pratici 
                      legati all’azione, ma anche le questioni teoriche che vi 
                      stanno alla base. Così, se per esempio “la questione 
                      dell’embrione” consiste nello “stabilire quando comincia 
                      una nuova vita personale”, dalla molteplicità e 
                      inconciliabilità delle risposte e delle conseguenti 
                      indicazioni comportamentali si dovrà concludere che non 
                      rimane altra soluzione che quella di “cercare una civile, 
                      serena e laica mediazione che consenta a tutte le 
                      posizioni di convivere, eliminando – ogni parte con 
                      qualche rinuncia – le più evidenti ragioni di attrito”.
                       
                      Il volto 
                      amichevole e accomodante della soluzione appena menzionata 
                      – molto diffusa sia a livello di senso comune sia a 
                      livello di dibattito etico-politico – spesso distoglie da 
                      un’analisi critica del suo presupposto di fondo. Un tale 
                      presupposto, tipico, più che del pluralismo, del c. d. 
                      “relativismo etico”, 
                      consiste nell’idea che tutte le opinioni sul problema 
                      discusso, purché formulate in modo consapevole e libero, 
                      siano moralmente equivalenti e che nessuna, dunque, possa 
                      essere detta migliore o più convincente di altre. Solo 
                      sulla base di questo presupposto, in effetti, l’unico modo 
                      sensato di risolvere una controversia morale è quello di 
                      instaurare un dialogo alla ricerca di una soluzione 
                      condivisa, che consiste nel raggiungimento di un punto di 
                      equilibrio super partes, in cui nessuna opinione 
                      prevale sulle altre. La domanda, così, oggi non è, per es., 
                      “è bene o male utilizzare embrioni umani per avere figli o 
                      per la sperimentazione scientifica?”, come se potesse 
                      darsi una risposta oggettivamente valida che metta tutti 
                      d’accordo, ma: “come facciamo a rendere compatibili le 
                      diverse convinzioni morali sull’utilizzo degli embrioni?”. 
                      Ciò che conta non è più la ricerca del significato 
                      morale dell’utilizzo di embrioni umani, ma il rispetto 
                      dell’opinione, qualunque essa sia, che in una comunità ci 
                      si è formati sull’utilizzo degli embrioni umani. 
                      Ora, per 
                      quanto non si possa né si debba sottovalutare la 
                      complessità del pluralismo e i problemi concreti che esso 
                      pone quando si affrontano questioni delicate come quelle 
                      della bioetica, la tesi che intendiamo proporre è che un 
                      problema morale può dirsi risolto non quando ci si 
                      mette d’accordo nonostante la diversità delle 
                      opinioni, ma quando si riesce a individuare (e a fare) 
                      la cosa giusta. 
                      E infatti, se la ricerca di punti in comune e  di 
                      soluzioni condivise può risultare doverosa e auspicabile 
                      in campo politico e legislativo, non sempre corrisponde a 
                      un buon metodo in bioetica. Ci sono casi, infatti, in cui 
                      la riflessione etica – sia dell’uomo comune sia dello 
                      specialista – conduce al riconoscimento di beni umani il 
                      cui valore, per definizione, è sottratto a ogni forma di 
                      negoziazione e compromesso.  
                        
                        
                      2. Il relativismo difficile 
                        
                      Lo spirito che anima il relativismo liberale che sta alla 
                      base di ampie correnti in bioetica è, a prima vista, 
                      quello della tolleranza. Ciò che davvero conta, nel 
                      relativismo, non è stabilire, per esempio, se la 
                      fecondazione in vitro sia una risposta umanamente 
                      adeguata al desiderio di un figlio o l’eutanasia sia una 
                      soluzione al problema della sofferenza, ma che nessuna 
                      opinione sulla fecondazione in vitro e 
                      sull’eutanasia si affermi a spese di un’altra, 
                      rispettando, così, la libertà di tutti e di ciascuno. Ora, 
                      però, a uno sguardo più attento questo lodevole progetto 
                      finisce per innescare un cortocircuito che ne rappresenta 
                      non tanto la strutturale incoerenza teorica, quanto, 
                      piuttosto, l’improponibilità pratica. Per una singolare 
                      eterogenesi dei fini, affermando di non voler imporre 
                      l’aborto o l’eutanasia a chi non li condivide, i 
                      relativisti impongono il loro punto di vista. E 
                      infatti, chiedendo per esempio di non preoccuparsi di come 
                      gli altri trattano gli embrioni umani e i malati senza 
                      prospettive di guarigione, i relativisti attribuiscono ai 
                      loro interlocutori l’esatto contrario di ciò che essi 
                      sostengono, e cioè un disinteresse per la sorte della vita 
                      umana. I sostenitori della tesi relativistico-liberale non 
                      si avvedono di una verità elementare: chi vuole proteggere 
                      la vita umana dall’omicidio non può in alcun modo 
                      ritenersi soddisfatto da una soluzione che mentre non gli 
                      impone di uccidere autorizza però gli altri a farlo.
                       
                      
                      Continuare a invocare la libertà di scelta e il pluralismo 
                      delle opinioni di fronte a coloro che chiedono il rispetto 
                      della dignità umana di embrioni e malati non funziona più, 
                      a questo punto, come un argomento decisivo. Coloro che 
                      nella prima modernità lottavano per i diritti degli indios 
                      non pensavano che dovessero rispettare gli indios solo 
                      coloro che li ritenevano persone umane. Piuttosto, chi 
                      riteneva che anche gli indios fossero persone umane, 
                      chiedeva per essi diritti umani, indipendentemente da 
                      coloro che la pensavano diversamente. Che in una società 
                      nessuno possa imporre un pensiero e un comportamento a chi 
                      non lo condivide è innegabile, ma ciò non vale nel caso in 
                      cui si tratti di tutelare la vita e i diritti della 
                      persona – o anche degli animali 
                      – nei confronti di coloro che non li vedono e li 
                      calpestano. Anche chi ritiene che i bambini non ancora 
                      nati non siano persone, se è davvero in buona fede, deve 
                      concedere che chiunque li ritenga persone deve trarre da 
                      questa convinzione le conseguenze necessarie e, dunque, 
                      lottare per la tutela dei loro diritti. 
                      Chi non lo concede e di fronte alla richiesta di 
                      rispettare la vita dell’embrione umano dice: “questo è il 
                      tuo punto di vista privato, non puoi imporlo a chi non lo 
                      condivide”, dovrebbe interrogarsi, in modo spregiudicato, 
                      sulle conseguenze di questa sua affermazione. Infatti, se 
                      egli stesso si trovasse in una situazione in cui fosse 
                      convinto del carattere pienamente umano, per esempio, 
                      degli ebrei o di chiunque altro fosse discriminato, non 
                      tenterebbe di difenderli né avrebbe rimorsi di coscienza 
                      se non lo facesse. A chi lo dovesse accusare di omissione 
                      di soccorso egli potrebbe pur sempre rispondere di non 
                      essere autorizzato a costringere altri al rispetto di vite 
                      umane che essi non ritengono meritevoli di tutela. 
                      Una conseguenza così imbarazzante è un buon motivo, 
                      crediamo, per cominciare a dubitare delle capacità del 
                      relativismo etico di esprimere il valore che, pure, esso 
                      si vanta di promuovere: la libertà di tutti e di ciascuno.
                       
                        
                        
                      3. “Mettersi d’accordo” in etica:  tra cattivo compromesso 
                      e mito della neutralità 
                        
                      L’idea secondo cui un problema etico può dirsi risolto quando 
                      si riesce ad aggregare il maggior numero di consenzienti 
                      non scaturisce, come si è accennato, dalla ricerca di che 
                      cosa è bene fare, ma dal tentativo di equilibrare tendenze 
                      e bisogni socialmente diffusi. Questo modo di impostare i 
                      problemi etici ha preso avvio ufficiale, in bioetica, nel 
                      celebre Rapporto Warnock della Commissione 
                      governativa britannica, steso ai fini di una 
                      regolamentazione del trattamento da riservare agli 
                      embrioni umani nel campo delle biotecnologie. Assumendo le 
                      tendenze socialmente esistenti come un dato di fatto 
                      incontestabile, il documento Warnock ha preso atto 
                      che l’affermazione di una “protezione assoluta” 
                      dell’embrione avrebbe impedito una serie di pratiche ormai 
                      in corso – come  l’aborto e la fecondazione in vitro 
                      – e ha dunque optato per una “tutela differenziata”, 
                      stabilendo ufficialmente un limite di 14 giorni, prima del 
                      quale è consentito utilizzare gli embrioni umani come 
                      materiale biologico. La cosa sorprendente, e che 
                      costituisce il merito di trasparenza del documento, è che 
                      tale limite di 14 giorni, prima del quale non si parla di 
                      embrione ma di “pre-embrione”, non è frutto di una 
                      descrizione scientifica – poiché si riconosce che dal 
                      concepimento in poi “non vi è un momento più importante di 
                      un altro; sono tutti momenti di un processo ininterrotto” 
                      – ma di un “compromesso arbitrario” finalizzato ad 
                      “alleviare le preoccupazioni dell’opinione pubblica” (in 
                      order to allay public anxiety). 
                      Si preferisce così lavorare su un’ipotesi consapevolmente 
                      basata su una finzione, ma condivisa, piuttosto che 
                      affrontare i problemi e i contrasti che deriverebbero dal 
                      chiaro riconoscimento della verità.
                       
                      Il caso 
                      Warnock mostra che quando si cerca di risolvere un 
                      delicato problema morale con gli strumenti politici del 
                      consenso, si crea un’apparente condivisione che è in 
                      realtà solo un cattivo compromesso. Certo, si potrebbe 
                      obiettare che non c’è altra strada, in una società 
                      pluralistica, che quella del compromesso. Il compromesso 
                      sarebbe l’unico strumento di cui il diritto dispone per 
                      regolamentare efficacemente la vita sociale, rinunciando a 
                      imporre una concezione morale determinata – che renderebbe 
                      “fuori legge” coloro che non la condividono – e lasciando 
                      che ognuno gestisca in piena autonomia il proprio piano di 
                      vita. Tuttavia, l’apparente neutralità di questa 
                      soluzione, presuppone l’“aver già operato una 
                      gerarchizzazione dei valori in gioco, assumendo il valore 
                      morale della libertà individuale come prioritario rispetto 
                      ad altri valori eventualmente concorrenziali”. 
                      In Italia, per esempio, si 
                      critica aspramente la normativa sulla fecondazione 
                      artificiale (legge 40/2004), accusandola di aver 
                      canonizzato una particolare visione morale a spese di 
                      tutte le altre. Chi muove questa critica non considera 
                      l’ipotesi che una normativa avrebbe anche potuto vietare, 
                      in linea di principio, qualsiasi pratica di fecondazione 
                      artificiale e che l’esistenza stessa di una legge come 
                      quella italiana implica, di fatto, il riconoscimento della 
                      liceità morale di tale pratica. Così, quando alcuni 
                      affermano “che la legislazione sulla procreazione 
                      assistita […] non deve essere il risultato del prevalere 
                      di maggioranze politiche ‘trasversali’ che convergono 
                      nella volontà di affermare – qualunque essa sia – una 
                      certa visione morale particolare”, 
                      sembrano non accorgersi che il punto di partenza del loro 
                      ragionamento, e cioè l’esistenza stessa di una legge che
                      non vieta la fecondazione artificiale, rappresenta 
                      già l’imposizione di una “visione morale particolare”. 
                      In effetti, con la legge italiana il punto di vista morale 
                      che giudica lecita la fecondazione artificiale prevale 
                      sul punto di vista morale che, al contrario, la ritiene 
                      illecita.  
                      Come si 
                      può vedere, anche coloro che sostengono una posizione di 
                      neutralità pluralista, secondo cui una legge dello stato 
                      dovrebbe essere imparziale, affermano un determinato punto 
                      di vista morale che non è certo imparziale. Ma se è così, 
                      allora forse sarebbe più opportuno dichiarare apertamente 
                      il proprio punto di vista sottoponendolo al confronto con 
                      quello altrui, invece di imporlo surrettiziamente sotto le 
                      false spoglie della neutralità.  
                        
                        
                      4. La buona unilateralità: “fare la cosa giusta” 
                       
                        
                      Abbiamo finora cercato di evidenziare alcuni limiti di quella 
                      che abbiamo definito l’impostazione relativistico-liberale 
                      (o contrattualista e procedurale) spesso adottata in 
                      bioetica. Dovrebbe emergere, da questi limiti, che 
                      l’esigenza di rispetto e di condivisione che relativismo e 
                      contrattualismo intendono promuovere non può spingersi 
                      fino al paradosso di sacrificare valori morali innegabili 
                      anche se non da tutti condivisi. Del resto, il 
                      pluralismo morale non è così estremo come spesso si dice. 
                      Ogni società, infatti, riconosce l’esistenza di un bene 
                      comune, anche se esso non è empiricamente condiviso da 
                      tutti i suoi singoli membri. Lo si può mostrare facilmente 
                      con un esempio. Se una società si trovasse a dover 
                      fronteggiare il problema del furto non ricorrerebbe a un 
                      confronto critico su cosa i cittadini pensano della 
                      proprietà privata e della sua eventuale violazione. Lo 
                      stato non attenderebbe, prima di rendere giuridicamente 
                      vincolanti delle soluzioni, che si raggiunga un 
                      compromesso sulla questione. E questo sebbene non tutti i 
                      cittadini la pensino allo stesso modo, per esempio, sulla 
                      legittimità di qualcosa come la proprietà privata. E in 
                      effetti l’accordo – o anche solo il compromesso  – su una 
                      questione moralmente rilevante non è conditio sine qua 
                      non di una legislazione in materia che voglia dirsi 
                      adeguata. Il compito del diritto, e ancor di più 
                      dell’etica, non è la soluzione condivisa dei 
                      conflitti ma la giusta soluzione dei conflitti. 
                      E su quale sia la soluzione giusta può continuare a 
                      esserci conflitto, senza che tale soluzione smetta di 
                      essere giusta. La ricerca di norme condivise che 
                      garantiscano la convivenza sociale è certamente 
                      auspicabile e spesso necessaria, ma non è sufficiente. 
                      C’è, infatti, anche la giustizia morale, la quale, come è 
                      stato acutamente osservato, “non è negoziabile e non è il 
                      risultato di una negoziazione, perché è l’esperienza di un 
                      dovere indiscutibile, quello che spinge Antigone a dar 
                      sepoltura a suo fratello. E ha un valore simbolico il 
                      fatto che Antigone si spinga fuori della città: 
                      l’obbedienza morale può portare fuori dal patto politico 
                      (e dunque può mettere in pericolo la pace)”. 
                      La soluzione di un conflitto etico non si realizza allora 
                      quando si sia riusciti a far coesistere punti di vista 
                      soggettivi moralmente equivalenti, ma quando, una volta 
                      che si sia riusciti a identificare la cosa giusta (o 
                      sbagliata), si agisca coerentemente. 
                      Che il criterio normativo non sia il libero accordo ma la 
                      “cosa giusta” è dimostrato, del resto, dal fatto che non 
                      tutte le scelte, per il fatto di essere compiute 
                      liberamente, si equivalgono. Non hanno tutte lo stesso 
                      valore. La scelta di chi adotta un bambino in gravi 
                      difficoltà non ha, oggettivamente, lo stesso valore della 
                      scelta di chi, per ottenere un figlio biologico, accetta 
                      il sacrificio di quattro embrioni umani previsto da un 
                      ciclo di fecondazione in vitro. Ci sono scelte 
                      migliori di altre e, in alcuni casi, ci sono scelte 
                      semplicemente cattive, che non possono essere in 
                      alcun modo giustificate.  
                      Se 
                      davvero è così, allora una scelta è moralmente risolutiva 
                      non quando accontenta tutti o non scontenta nessuno, ma 
                      quando è una scelta buona, quando, cioè, può essere 
                      ragionevolmente condivisa da chiunque, anche se di 
                      fatto non lo è. Così, per esempio, se sulla 
                      vivisezione degli animali ci sono tesi diverse, noi non 
                      deduciamo che ognuno può, secondo coscienza, rispettare 
                      gli animali e, se la sua coscienza non glielo vieta, 
                      praticare disinvoltamente la vivisezione. Piuttosto 
                      chiediamo, e a buon diritto, che lo stato protegga gli 
                      animali dalla sofferenza inutile e invitiamo chi non è 
                      d’accordo ad adeguarsi ragionevolmente. 
                      Allo stesso modo, anche qualora in uno stato la 
                      maggioranza non avesse la sensibilità necessaria per 
                      riconoscere il valore di un monumento, la minoranza che 
                      invece lo apprezza può ragionevolmente chiedere 
                      che, per esempio, tale opera non venga distrutta solo 
                      perché la maggioranza ritiene che al suo posto vada 
                      costruito un campo sportivo. Perché dal bilanciamento tra 
                      l’interesse della minoranza e quello della maggioranza 
                      possa scaturire una decisione comune, anche se non tutti 
                      sono d’accordo, deve poterci essere una disponibilità di 
                      tutti gli interlocutori a riconoscere una gerarchia 
                      oggettiva tra i valori in gioco. E, nell’esempio fatto, è 
                      innegabile che dovrebbe prevalere l’interesse della 
                      minoranza, così come, tra i pochi che sono in grado di 
                      rendersi conto del valore della fisica quantistica e i 
                      molti che magari vorrebbero riciclare la carta delle 
                      pubblicazioni custodite nel Max Planck Institut, 
                      dovrebbe prevalere l’interesse della minoranza. Che 
                      rimangano malcontenti e conflitti sulla cosa non significa 
                      che il problema non sia stato oggettivamente 
                      risolto secondo giustizia. 
                      Coloro 
                      che rimangono insoddisfatti di fronte a questa conclusione 
                      continuano a invocare il consenso e l’accordo come l’unica 
                      garanzia di giustizia, chiedendo che ciascuno rinunci a 
                      proporre il suo punto di vista come qualcosa di 
                      comune che anche gli altri dovrebbero accettare. 
                      Esemplare, in Italia, la tesi di uno studioso di 
                      impostazione utilitarista come Eugenio Lecaldano, che 
                      tende a identificare il rispetto della persona con il 
                      rispetto indifferenziato delle sue opinioni morali: “Gli 
                      esseri umani hanno opinioni e convinzioni del tutto 
                      autonome: gravi sofferenze si originano quando tali 
                      convinzioni non sono rispettate. La persona che va 
                      tutelata nelle situazioni della bioetica va quindi intesa 
                      principalmente come quell’individuo del quale rispettare 
                      fino in fondo, se non sono lesive degli interessi altrui, 
                      le convinzioni sul nascere, il curarsi e il morire”. 
                      Il punto di partenza di questa posizione è che le nostre 
                      convinzioni morali siano puramente private, e che dunque 
                      possano rapportarsi solo  o in termini di non belligeranza 
                      e di indifferenza reciproca, o in termini di conflitto. 
                      Ora, però, quando si identifica il rispetto della persona 
                      con il rispetto di una sua opinione, e quando tale 
                      rispetto prescinde dal contenuto dell’opinione, ciascuno 
                      finirà per rispettare non tanto l’opinione dell’altro ma 
                      il fatto stesso che l’altro abbia un’opinione, 
                      qualunque essa sia. Ma chi partecipa a un confronto 
                      morale chiede che sia rispettato il valore di cui la sua 
                      opinione è un’espressione, e non il fatto, ovvio, che egli 
                      abbia un’opinione. Chiede, in altre parole, il rispetto 
                      del contenuto specifico della sua opinione, del valore 
                      che, tramite la sua opinione, è proposto all’apprezzamento 
                      altrui. Che sia effettivamente così, e che dunque 
                      l’opinione personale e il rispetto reciproco delle 
                      opinioni non sia il criterio di riferimento ultimo di un 
                      confronto morale, è dimostrato dall’esistenza di casi in 
                      cui il valore in gioco è tale, che trovare un compromesso 
                      tra le opinioni di chi se lo contende equivale a 
                      distruggerlo. L’episodio biblico del giudizio di Salomone 
                      lo dimostra in modo suggestivo. 
                      Due donne discutono davanti al re Salomone se il bambino 
                      sopravvissuto sia il figlio dell’una o quello dell’altra. 
                      Instaurando un vero e proprio dibattito bioetico ante 
                      litteram, ciascuna delle due si ostina a ripetere che 
                      il bambino è il proprio figlio e che l’altra mente. Non 
                      potendo stabilire come stiano effettivamente le cose, dal 
                      momento che entrambe le contendenti propongono 
                      energicamente la loro opinione come quella vera, Salomone 
                      ordina di tagliare in due il neonato e di darne una metà a 
                      ciascuna delle donne. Di fronte a questa sentenza, come si 
                      legge nella Bibbia, “La madre del bimbo si rivolse al re, 
                      poiché le sue viscere si erano commosse per il suo figlio, 
                      e disse: ‘Signore, date a lei il bambino vivo; non 
                      uccidetelo!’. L’altra disse: ‘Non sia né mio né tuo; 
                      dividetelo in due!”. Presa la parola, il re disse: ‘Date 
                      alla prima il bambino vivo; non uccidetelo. Quella è sua 
                      madre” (1 Re 3, 26-27). La vera madre del bambino è colei 
                      che di fronte all’alternativa di vedersi riconosciuta la 
                      propria opinione solo a prezzo della morte del figlio 
                      preferisce rinunciare alla propria opinione. Questa 
                      rinuncia, infatti, diventa qui l’unico modo per affermare 
                      ciò che la sua opinione fin dall’inizio esprimeva, e cioè 
                      l’amore per il bambino e non la difesa di una qualche 
                      convinzione soggettiva. L’altra donna, invece, 
                      dichiarandosi disposta ad accettare che il neonato venga 
                      diviso in due, dimostra di tenere più di ogni altra cosa 
                      al riconoscimento della propria opinione, dal momento che 
                      dividere il bambino è l’unico modo perché entrambe le 
                      opinioni contrastanti vengano rispettate, benché nella 
                      forma di un compromesso che di fatto scontenta entrambe. 
                      Come si 
                      può notare, ci sono casi in cui i beni in gioco nelle 
                      dispute morali in generale, e bioetiche in particolare, 
                      non tollerano forme di negoziazione tra opinioni, 
                      richiedendo, più semplicemente, che tali beni vengano 
                      riconosciuti e rispettati. Un tale riconoscimento e un 
                      tale rispetto implicano senz’altro la convalida di una 
                      particolare opinione (nel caso del giudizio di 
                      Salomone l’opinione della vera madre) che si afferma a 
                      spese di altre opinioni. Ma questo, come abbiamo cercato 
                      di mostrare, non è un argomento contro l’idea che nelle 
                      dispute di bioetica l’importante non è “mettersi 
                      d’accordo” ma “fare la cosa giusta”.    
                        
                        
                        
                        
 
 
                          
                          
                           
                          È noto come la bioetica sia nata storicamente dalla 
                          preoccupazione per le sorti dell’ecosistema. Quando 
                          nel 1971 l’oncologo statunitense van Rensselaer Potter 
                          conia il termine “bioetica”, pensa al rapporto tra 
                          l’agire umano e l’equilibrio della biosfera nei 
                          termini di un’incidenza dannosa del primo sul secondo. 
                          La bioetica nasce così come “scienza della 
                          sopravvivenza” (science of survival), 
                          tendenzialmente estesa a tutte le specie viventi, non 
                          soltanto a quella umana, e con l’obiettivo di 
                          contenere l’impatto negativo del progresso tecnologico 
                          sulla “qualità della vita” dell’ecosistema. Cfr. V. R. 
                          POTTER, Bioethics. 
                          The 
                          Science of Survival, 
                          in “Perspectives in Biology and Medicine”, 14/1970, 
                          pp.127-153. 
                          Sempre negli anni ’70, negli Stati Uniti, la bioetica 
                          trova un’applicazione più specifica nel campo della 
                          biomedicina. Il tipo di bioetica oggi prevalente, che 
                          catalizza fortemente l’attenzione di studiosi, 
                          politici e legislatori, è proprio quello “clinico”, il 
                          quale assume medicina e biologia come scienze di base 
                          e il paradigma della “qualità della vita” come 
                          concezione antropologica ed etica. Cfr. D. ROY, 
                          Orientamenti e tendenze della bioetica nel ventennio 
                          1970-1990, 
                          in C. VIAFORA (a cura di), Vent’anni di Bioetica, 
                          Fondazione Lanza, Libreria Gregoriana Editrice, 
                          Padova-Roma 1990, pp. 95-122.  
                         
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                          
                          
                           
                          Cfr. R. SPAEMANN, Glück und Wohlwollen: Versuch 
                          über Ethik, Klett-Cotta, Stuttgart 1989; tr. it.
                          Felicità 
                          e benevolenza, 
                          Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 182. 
                           
                           
                           
                           
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