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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 1 - Settembre 2006 
     
 

 Editoriale

La morte dell'uomo

 

A differenza di quanto pensano in molti – soprattutto quelli la cui passione per il cinema oscura ormai quasi del tutto l’interesse e la capacità di lettura – nel mondo fantastico creato da J. R. R. Tolkien, gli uomini sono superiori in dignità agli elfi. Di primo acchito, ciò potrebbe apparire singolare anche a chi abbia letto sul serio (e non solo visto sul grande schermo) il capolavoro di Tolkien – Il Signore degli Anelli – e che si è abituato ad ammirare elfi dotati di qualità e poteri straordinari, che dominano le forze della natura e vivono, avvolti da un’aurea bellezza, per centinaia di anni; potenzialmente per sempre, «a meno che siano uccisi o si struggano di dolore».[1]

 

Quest’ultimo caso, di morte per dolore (morale), è immagine sublime di una situazione reale della vita: vale a dire, della disperazione e assoluta mancanza di significato che purtroppo, a volte, è possibile sperimentare. Un profondo dolore che causi sconforto e scoraggiamento può fare apparire la vita inutile, non più degna di essere vissuta, e può portare alcuni ad odiarla e a desiderare che si spenga al più presto. Nel mondo fantastico di Tolkien, è questo stesso dolore a far si che lo spirito sfiduciato dell’elfo si distacchi infine dal corpo e se ne vada in esilio nelle Aule di Mandos. Questo dolore degli elfi è come una richiesta di aiuto e di significato che non riceve risposta, e che si autodistrugge abbandonando la vita.

 

A differenza degli elfi, e a meno di altre patologie, gli uomini invecchiano e muoiono in maniera fisiologica in un arco di vita che, agli occhi di chi vive per sempre, non dura che un attimo. Gli elfi osservano gli uomini con compassione e curiosità,[2] perfino con disprezzo, perché sono come fuochi d’artificio, che raggiungono anche grandi altezze, compiendo gesta mirabili e degne dei più alti onori, ma solo per brillare pochi istanti e scomparire, poco dopo, nelle ceneri della morte. La vita umana, agli elfi, appare incomprensibile e strana: uno scherzo della natura. Un breve soffio vitale il cui destino è la morte: la mancanza di senso.

 

Eppure, ci sono passi cruciali della cosmogonia di Tolkien in cui la morte è celebrata come il dono più grande fatto da Dio (Iluvatar) agli uomini.[3] Dio volle «che i cuori degli uomini indagassero di là dal mondo, e in questo mai trovassero pace».[4] Essi sono «ospiti», «stranieri», la loro dimora non sta qui, e più si attaccano alle cose e ai piaceri di quaggiù più Dio ne abbrevia l’arco vitale per cercare di riportarne le menti e i cuori al proprio disegno.[5] Gli elfi invece appartengono alla terra; essi «sono legati a questo mondo per mai lasciarlo finché esso duri, essendo che la sua vita è la loro»;[6] e anche se muoiono, «col tempo possono tornare». Gli uomini, invece, «muoiono per davvero e abbandonano il mondo»; e dove vanno nessuno lo sa, neppure i più grandi tra gli angeli;[7] e il dono della morte, «col passare del tempo, perfino le Potenze invidieranno».[8] In un certo senso, gli elfi sono così potenti, e in simbiosi con le cascate, gli alberi e gli elementi, perché rappresentano la Terra, e sulla Terra si esaurisce il loro destino; gli uomini, al contrario, sono ad essa estranei, non connaturali, vi si trovano solo di passaggio, e, per questo, la capiscono e la dominano meno.

 

Tolkien era un genio cattolico. Ma l’idea che l’uomo abbia in sé qualcosa di sacro e di divino, e che la vita su questa terra – con le sue gioie, i suoi dolori e le sue sofferenze – abbia significato e sia figura e possibilità di un’esistenza più alta di cui la morte è insieme porta, prova finale e mistero… quest’idea è già ben presente nel pensiero pagano dell’antica Grecia. Per Aristotele, il fine ultimo delle cose è partecipare all’eterno e al divino.[9] Per il suo maestro Platone, la vita su questa terra è purificazione che prepara alla vera vita dell’anima dopo la morte. Platone arriva a descrivere l’intero sforzo umano di penetrare e di conoscere la verità – la filosofia – come un progressivo e ascetico distaccarsi dalle cose di quaggiù e una partecipazione alla vita che verrà. «Tutti quelli che si occupano correttamente di filosofia», pertanto, «di niente altro si prendono cura se non di morire e di essere morti».[10] Anche chi non si trovi molto a suo agio col forte dualismo platonico di anima e corpo, non potrà non avvertire il fascino di quest’intuizione sulla dignità e sacralità dell’essere umano. E non potrà non notare com’essa si accompagni a una visione del significato della vita presente e dei suoi dolori in cui non è mai lecito provocare la morte, anche quando questa sia altrimenti desiderabile. Il suicidio, per Platone, è un atto intrinsecamente cattivo.[11]

 

È solo di individui e società ormai irretiti dal nichilismo e dal materialismo pensare che cagionare la morte di sé o di qualcun altro possa essere un atto di carità. Quando si ritiene che la vita e le sofferenze umane non abbiano alcun senso, uccidere chi è disperato e sconfortato può apparire come l’unica soluzione ragionevole. Ma in questo modo si suggella l’inutilità e la vacuità della vita e di chi l’abbandona; e invece di dare significato, conforto e coraggio, li si toglie definitivamente. Anche se (Dio non voglia) non ci fosse niente dopo la morte, bisognerebbe agire come se ci fosse e come se tutte le situazioni della vita godessero sempre di pieno significato. Soprattutto chi è responsabile di altri deve ostinatamente continuare a credere nell’uomo fino alla fine, e non può permettersi di lanciare messaggi pubblici di vanità e nichilismo, o la sua stessa azione in difesa e promozione dei valori umani perderebbe di efficacia e di credibilità.

 

Il dubbio sul suicidio e sull’eutanasia è il dubbio sul senso stesso dell’essere umano e della sua dignità. Per questo motivo, una comunità politica sana non può ammetterlo, come non può ammettere il dubbio che, in fondo, qualunque crimine e patimento non abbiano importanza poiché gli uomini sono solo contingenti grumi di atomi che stanno per un po’ insieme e poi si separano.

 

La rassegna stampa di questo numero di Questioni di Bioetica evidenzia le ambiguità del riferimento all’eutanasia, nel dibattito di questi giorni, con rispetto all’accanimento terapeutico e al testamento biologico, che sono cose diverse. Ma ambiguità o no, un dibattito è purtroppo stato acceso da persone insicure e poco responsabili, e speriamo che si chiuda presto in favore dell’uomo e del suo valore.

 

 

Fulvio Di Blasi

 

 


 


[1] J. R. R. Tolkien, Il Silmarillion, Rusconi, Milano, 1978, p. 44.

[2] Ibid., p. 183.

[3] Cfr., per esempio, ibid., pp. 43-4, 232,  332-3.

[4] Ibid., p. 43.

[5] Cfr., ibid., pp. 333 ss.

[6] Ibid. p. 332.

[7] Ibid., pp. 43, 333.

[8] Ibid., p. 44.

[9] Aristotele, De Anima, 415a14, trad. G. Movia, Rusconi, Milano, 1996.

[10] Platone, Fedone, 64b, trad. P. Fabrini, BUR, Milano, 1996.

[11] Ibid., 61d-62c.

 
 
     
 
 
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