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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Anno I - Num. 2 - Gennaio 2007 
     
 

 Editoriale

Quando il senso della giustizia salva la ragione

 

È stato giustamente detto che la bioetica, benché sia di moda, non è una moda (A. Pessina). In effetti, i più recenti eventi di cronaca hanno dimostrato la bruciante attualità delle tematiche della vita e della morte pur non potendo esprimere, nella puntualità della notizia mediatica, il loro spessore problematico. Da qui la necessità di riflettere su tali tematiche al di là dell’immediatezza con la quale esse vengono consumate dal lettore dei quotidiani e dallo spettatore dei telegiornali, quasi sempre costretti ad assistere a una carrellata di opinioni che, a causa della rapidità con cui vengono diffuse, sembrano dipendere più dall’impostazione politica di chi le esprime che da un tentativo di cogliere l’autentico significato dell’accaduto. Di fronte a eventi come il caso Piergiorgio Welby e il caso Saddam Hussein, per citare i più vistosi, succede pertanto che ci si schieri “a favore” o “contro” senza che il proprio personale giudizio abbia avuto il tempo di maturare nei tempi e nei modi richiesti dalla complessità delle questioni coinvolte.

Come già Angelo Cafaro e Fulvio Di Blasi scrivevano nel primo Editoriale della nostra rivista (cfr. Archivio numero 0), la bioetica si presenta come un tentativo di superare le reazioni puramente emotive, alla ricerca di un giudizio che possa maturare da un’attenta e sincera analisi delle questioni che anche l’attualità mette in gioco. Questo non significa, si badi, che le reazioni immediate in presenza di certi eventi – come per esempio quella di generalizzata indignazione che ha preso la maggior parte di noi di fronte al video dell’esecuzione di Saddam Hussein – non possano avere una loro intrinseca razionalità. Chi non è capace di indignarsi spontaneamente di fronte a certe azioni che violano la dignità della persona umana e ha magari bisogno di “riflettere” prima di decidere se indignarsi o meno, probabilmente è una persona meno razionale, dal punto di vista morale, di una persona che invece, di fronte alle stesse azioni, si indigna istantaneamente senza bisogno di riflettere. Un giudizio morale a cui si giunge mediante una reazione emotiva può essere più razionale di un giudizio morale a cui si giunge dopo un’accurata riflessione. Ma, appunto, per scoprire una tale razionalità non basta reagire emotivamente ma è necessario riflettere.

La bioetica, dunque, vive anche dei nostri sentimenti morali, in uno sforzo di purificazione da tutto ciò che di irrazionale essi rischiano sempre di contenere. Proprio i casi Welby e Saddam sono stati esemplari al riguardo. In alcuni settori della vita politica e culturale – non solo del nostro Paese – è emersa infatti una concezione dei diritti umani che sembra basarsi esclusivamente su reazioni emotive, suscitate e alimentate dal potente impatto delle immagini. Come è noto, dopo l’esecuzione in Iraq dell’ex dittatore, il governo italiano, ammesso temporaneamente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, si è fatto interprete del sentimento di rifiuto della pena di morte proponendo una moratoria internazionale delle esecuzioni capitali. Molti dei sostenitori di questa moratoria hanno anche promosso, in Italia, una campagna perché venisse riconosciuto il “diritto di morire” a pazienti in condizioni di salute ritenute indegne di essere vissute, oltre a essersi battuti, nell’estate dello scorso anno, perché venisse revocata la partecipazione dell’Italia a quella “minoranza di blocco” in sede di Unione Europea che, rifiutandosi di finanziare la ricerca sulle cellule staminali embrionali, avrebbe impedito l’eliminazione di migliaia di embrioni umani. Poiché in questo caso una stessa linea di pensiero ha affermato il diritto alla vita del dittatore, il diritto alla morte del malato e il dovere di morire a beneficio della scienza per gli embrioni umani, in molti hanno fatto notare l’insostenibile contraddizione di una cultura che mentre difende la vita di criminali come Saddam Hussein promuove lo sterminio di esseri umani innocenti come i malati e gli embrioni.

Evidenziare questa contraddizione, a ben vedere, non costituisce un argomento decisivo contro questo tipo di prospettiva. Chi ritiene che gli embrioni umani e Welby debbano morire mentre Saddam Hussein debba vivere non vede in ciò alcuna contraddizione poiché l’assunto da cui parte è quello – notoriamente teorizzato dalla bioetica procedurale di matrice anglo-americana – secondo cui «il male, nell’omicidio, non consiste nell’uccidere qualcuno, ma nel farlo senza il suo permesso» (H. T. Engelhardt). Se il principio è questo, non c’è alcuna contraddizione nel difendere il criminale che non vuole morire e nell’auspicare la morte dell’innocente che non vuole più vivere, così come è moralmente lecito, anzi, doveroso, tentare di trovare terapie efficaci anche se ciò provoca la morte di embrioni umani. Questi ultimi infatti, si afferma, non potendo esprimere il loro consenso mancano del requisito minimo indispensabile per poter essere riconosciuti soggetti degni di considerazione morale. La contraddizione di cui si diceva, pertanto, è solo un effetto di superficie che presuppone ben più profonde concezioni della persona e della giustizia sulle quali è dovere della bioetica puntare l’attenzione.

È proprio quando si comincia a riflettere su tali concezioni della persona e della giustizia che emerge quel peculiare intreccio di convinzioni morali e reazioni emotive che rischia di fare delle prime un mero rispecchiamento passivo delle seconde. Il principio, apparentemente inattaccabile, secondo cui non si può uccidere chi non vuole morire e non si può costringere a vivere chi vuole morire conduce ad affermare l’immoralità della pena capitale e la legittimità dell’eutanasia e della distruzione degli embrioni umani solo a condizione di non applicare un’adeguata riflessione razionale alle nostre reazioni emotive più immediate. Se ci fermiamo a queste ultime, infatti, le percezioni che abbiamo di fronte a una provetta svuotata su un lavandino e al cappio che si stringe intorno al collo di un feroce dittatore non corrispondono all’uccisione di un innocente, da un lato, e di un criminale, dall’altro, ma all’idea di un gesto moralmente irrilevante nel primo caso e dell’uccisione di una persona umana nel secondo. Allo stesso modo, la proposta di accettare l’eutanasia associata alla vista di una persona sofferente può impedire di riflettere sulle alternative possibili. A questo punto la domanda decisiva, che chiama in causa la peculiarità della riflessione bioetica distinguendola dal dibattito mediatico e politico, è questa: il fatto che la pietà e la compassione siano sentimenti umanamente autentici li rende, per ciò stesso, consiglieri infallibili circa ciò che è giusto fare?

Spesso l’affermazione di alcuni diritti, ovvero di esigenze la cui soddisfazione si presenta come un atto dovuto secondo giustizia, viene dedotta troppo frettolosamente dalle nostre reazioni emotive. Non dovremmo mai essere così sicuri che dal nostro sentimento di compassione si possa dedurre ipso facto l’esistenza del “diritto a morire” di colui che soffre. Che cosa dobbiamo davvero a un malato che soffre, che cosa esprime meglio la nostra pietà, la morte (un iniezione di cloruro di potassio) o, piuttosto, un’assistenza medica efficace unita a una solidarietà adeguata alla sua condizione e alle sue sofferenze? Allo stesso modo, non possiamo essere così sicuri che il sentimento di indifferenza nei confronti di invisibili embrioni umani rinchiusi in un congelatore implichi l’inesistenza della loro identità personale. Il nostro senso di giustizia e il nostro uso della ragione non possono fermarsi solo a ciò che proviamo solo perché lo vediamo. Dovrebbe far pensare, da questo punto di vista, il fatto che la mobilitazione umanitaria che c’è stata per Saddam Hussein non ci sia stata invece per le sue vittime e per tutti i condannati per delitti comuni che ogni giorno vengono giustiziati in altri Paesi. Naturalmente ciò non è accaduto perché gli oppositori della pena capitale non riconoscessero anche alle vittime del raìs un diritto alla vita, ma a causa della mancanza di visibilità mediatica di queste ultime, che non hanno potuto contare, per così dire, sul nostro sentimento di pietà. Di questo è bene essere consapevoli, non tanto per rinunciare alla propria battaglia contro la pena capitale, quanto, piuttosto, per evitare la brutta impressione che questa battaglia non sia guidata dal senso della giustizia ma da un’incerta e contraddittoria vox populi i cui contenuti sono decisi, di volta in volta, dal potere mediatico.

Tutto considerato, la prospettiva che promuove la dignità e i diritti della persona umana dal concepimento alla morte naturale sembra la meno sospetta e la più ragionevole, poiché non è costretta a escludere nessuno dalla condizione di soggetto titolare di diritti inalienabili, facendosi così portavoce di un autentico senso della giustizia. Un senso della giustizia che salva la ragione dal rischio di appiattirsi sui nostri sentimenti di pietà, escludendo ingiustamente tutti coloro che non sono nelle condizioni di suscitarli. La prima forma di giustizia in effetti è riconoscere l’uguale dignità di ogni persona umana: anche di quelle che, non cadendo sotto il nostro sguardo o sotto i riflettori dei media, non suscitano emozioni e compassione. Uno dei grandi maestri della bioetica che in Italia ama definirsi “laica”, Uberto Scarpelli, aveva intuito che in bioetica non bastano né i sentimenti né il ragionamento logico ma è necessario un particolare esprit de finesse, che sia capace, aggiungiamo noi, di discernere ciò che è giusto, vero e buono, nelle complesse sfumature di un mondo fatto di immagini e di sentimenti a volte confusi. Forse è proprio per la mancanza di questo esprit de finesse che oggi trasformiamo i nostri sentimenti in mensura rerum, facendone il fondamento di una giustizia che, dimenticando la dignità e i diritti di tutti coloro che non ci coinvolgono emotivamente, rischia di coincidere con l’ingiustizia.

 

 

Il presente numero di “Questioni di bioetica” ospita i contributi di tre dei nove nuovi membri del comitato scientifico della rivista. Giuseppe Savagnone delinea con sintetica efficacia alcuni presupposti ricorrenti nelle dispute di bioetica, evidenziando la necessità di ripensarli alla luce di una maggiore attenzione a dimensioni spesso trascurate nel dibattito, come la riscoperta del valore della ragione in morale, il ruolo non puramente procedurale delle leggi e la dimensione intersoggettiva e non individualistica della libertà. Vittorio Possenti affronta invece il complesso tema dell’identità della natura umana di fronte alle nuove possibilità della genetica. In dialogo, tra gli altri, con Jürgen Habermas e Francis Fukuyama, Possenti, dopo aver fornito ampie motivazioni etiche e antropologiche, conclude che la natura umana non solo non può essere di fatto cambiata ma che, anche se lo si potesse, non sarebbe moralmente lecito farlo. Salvino Leone, infine, riattraversa il complesso percorso epistemologico della bioetica, da un lato riconoscendo l’ampiezza dei confini di una disciplina che coinvolge un intero universo culturale e non soltanto un intreccio di discipline, e dall’altro mettendo in guardia da tentazioni riduzionistiche come il moralismo, il relativismo, il proibizionismo e il confessionalismo. Seguono, come sempre, una sezione dedicata a Recensioni e notizie, la Rassegna stampa e le Novità bibliografiche.

 

 

Luciano Sesta

 
     
     
 
 
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