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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 3 - Maggio 2007 
     
 

Cocaina e Cannabis

Apporti scientifici e riflessi antropologici sul consumo delle droghe "leggere"

di Francesco Romano*

 

 

 

Introduzione

Il recente dibattito sulla legalizzazione o meno delle sostanze stupefacenti ha portato alla ribalta della discussione politica ciò che purtroppo – nonostante o forse a causa delle attenzioni altalenanti cui è soggetto da parte della comunità socio-politica – è un fenomeno storicamente ricorrente: l’abuso delle cosiddette droghe leggere. Questo costume - per le generalizzazione a cui assurge in alcuni periodi storici lo si può spiacevolmente definire così - della società occidentale mina le basi della civile convivenza alimentando una spirale di illegalità e di violenza.

Si è pensato, nel presente studio, di ricapitolare i risultati della moderna ricerca scientifica riguardo gli effetti delle sostanze stupefacenti più largamente usate (cocaina e cannabis), considerate droghe leggere, in modo da offrire una valutazione complessiva dei loro effetti[1]. Si è inoltre valutato l’aspetto antropologico del fenomeno-droga, alla luce di una concezione personologica dell’individuo. Questa prospettiva, pensiamo, deve essere tenuta presente da parte di tutti, insieme all’aspetto medico-scientifico, per una valutazione complessiva degli effetti sulla persona; pena lo scadere del dibattito in un bisticcio di voci dissonanti, parziali o male informate.

 

  1. Cocaina

 

1.1 Scoperta e storia[2]

Le prime notizie con rilevanza scientifica sull’abuso della cocaina, risalgono ad un secolo fa. Nel 1859 Albert Niemann, di Gottingen, isolò e titolò cocaina il principale alcaloide delle foglie di coca. Nella successiva metà del secolo una gran quantità di medici e giuristi si interessarono del potere di questo nuovo e potente stimolante del sistema nervoso centrale. Secondo la medicina ufficiale del tempo esso costituì un rimedio a tutti i mali dell’umanità e i medici lo prescrissero contro l’alcolismo, la depressione, la dipendenza da morfina, la tubercolosi, l’impotenza e una gran varietà di altri malanni.

Il successo di una simile panacea è facile da comprendere. Tirando su l’umore, incrementando l’attenzione e diminuendo la fatica, la cocaina costituisce un rimedio sintomatico (non eziologico) per molte malattie croniche e per la depressione che spesso accompagna il lungo decorso di alcuni traumi. Fu solo quando cominciarono a riscontrarsi sovradosaggio, psicosi paranoide ed incapacità di interromperne l’assunzione, che l’entusiasmo per la droga si convertì in delusione ed il suo uso diminuì. Anche se non è mai cessato del tutto.

Avendo tali proprietà è quasi inevitabile che la cocaina goda di periodi di largo consumo. Durante i periodi di disagio sociale quando la droga è facilmente reperibile, c’è forte richiesta di potenti anti-depressivi. Affiorano così le loro conseguenze negative e vengono imposti controlli legali per cui l’uso di queste sostanze regredisce. Quando vengono invece dimenticate le complicanze dovute al loro protratto uso una droga come la cocaina ritorna in auge

 

1.2 Modalità di consumo

La Cocaina è assorbibile dall’organismo attraverso tutte le membrane mucose. L’assunzione attraverso la mucosa nasale è preferita all’assunzione per via orale in quanto permette il superamento di una prima barriera metabolica – con conseguente parziale perdita degli effetti stupefacenti - che è il fegato. Sono usate comunque anche altre mucose, come quella vaginale e rettale. Tra le complicanze dell’assunzione della cocaina sniffing, si annoverano la rinite, qualche volta etmoiditi, erosione della mucosa e, raramente, perforazione del setto nasale cartilagineo. L’effetto dopo iniezione endovenosa si avverte a 15-20 secondi dall’inoculazione. La somministrazione intramuscolare o sottocutanea furono utilizzate per i primi anni ma attualmente non sono più riportate tra le  modalità comuni di assunzione.

.

 

1.3 Il ‘mito’ della cocaina

Perché si comincia ad usare la cocaina? Da recenti sondaggi condotti su giovani, durante il periodo del servizio militare, pubblicato dal  National Focal Point, sul Report annuale sullo status delle droghe in Italia nel 1999, è risultato che riguardo al motivo per cui si comincia a fare uso di sostanze stupefacenti, le due motivazioni prevalenti sono curiosità (più del 40%) e pressione del gruppo (più del 30%)[3].

Riguardo il passato, c’è da dire però che l’insorgere dell’uso della cocaina fu stato accompagnato da due ‘credenze popolari’, che ne favorirono la diffusione facendone quasi un mito. La prima è che essa comparve come status symbol, una droga usata da gente di classe medio-alta, influente e sofisticata. A parità di peso essa non costa più dell’eroina. Tuttavia pochi giorni di consumo possono costare centinaia o migliaia di dollari, a secondo della purezza della sostanza. Pertanto l’uso abituale e ripetuto richiede grandi somme di denaro oppure il consumo di enormi quantità di cocaina.

La seconda ‘credenza’ era che la cocaina fosse una droga sicura (safe drug), ed avesse pochi o nulli effetti collaterali. Questa idea può essere sorta poiché i primi consumatori di cocaina raramente usavano “sniffarla”. Adesso, che sono più frequenti gli studi su campioni riguardo l’uso ripetuto per via nasale (compulsive sniffing), respiratoria (smoke) ed intravenosa, e che la cocaina è assunta in dosi maggiori, sono state osservate molte serie e letali conseguenze della dipendenza da questa sostanza.

 

 

1.4 Effetti letali e non letali

Nel 1987, un comitato di ricercatori impegnati nello studio della dipendenza da sostanze stupefacenti, raccomandò il proseguire degli studi sperimentali in cui la cocaina fosse  somministrata ai soggetti sotto controllo medico, per valutarne gli effetti clinici, sintomatologici e fisiologici[4]. In risposta Nahas (1990) ipotizzò che i rischi conseguenti all’uso sperimentale di cocaina su campioni umani, superassero i benefici che se ne sarebbero potuti trarre, e dimostrò questo, in un esauriente studio[5]. Come si vede, si trattò di una discussione in ambito medico scientifico tra chi vedeva più gli effetti benefici di una tale ricerca e chi invece era più propenso a sottolinearne i danni. Visto che la discussione si svolgeva fuori da un contesto politico ed ideologico, i risultati raggiunti sono altamente attendibili. Questa ricerca – cui rimandiamo per ulteriori approfondimenti scientifici -, consistette pertanto in una interessante rassegna degli studi più seri e specifici degli ultimi anni, sul tema di cui ci stiamo occupando. I risultati in sintesi furono i seguenti:

1.     Sebbene alcuni studi abbiano esagerato nel descrivere gli effetti negativi dell'uso sporadico di cocaina[6], la tossicità di questa droga è documentata sin dagli inizi del secolo scorso[7].

2.     Negli ultimi 10 anni sono stati portati a termine diversi studi su soggetti umani ai quali è stata fornita cocaina in diverse dosi e per diverse vie: orale, intranasale, endovenosa[8]. I risultati hanno confermato le conclusioni degli esperimenti condotti sulle scimmie. Ovvero: la cocaina è assunta dai soggetti spontaneamente e ripetitivamente; induce rapidamente tolleranza; aumenta la pressione sanguigna e il battito cardiaco.

3.     I risultati di questi studi non hanno fornito alcun'altra informazione che non fosse già nota all'osservazione clinica come riportato all'inizio del secolo[9]. Questi includono fibrillazioni e irregolare battito cardiaco prodotto dalla cocaina, così come gli effetti dannosi sulle funzioni cerebrali.

4.     Nella letteratura scientifica americana, dal 1975 al 1987, sono stati documentati 140 decessi correlati all'assunzione "recreational use" di cocaina, e questo non solo in caso di elevata concentrazione plasmatica (da 0.8 a 800 mg/litro). La qual cosa indica che il decesso non è necessariamente prodotto da un elevata dose di droga[10].

5.     S. Peng e al. (1987) hanno sottolineato come il danno prodotto dalla somministrazione sperimentale, sul tessuto vascolare o cerebrale non debba essere sottovalutato[11].

6.     In uno studio recente sono state riscontrate bande necrotiche di tessuto nel 93 % di muscoli cardiaci, apparentemente normali, rimossi da soggetti il cui decesso era correlato all'assunzione di cocaina[12].

Concludendo il suo lavoro, Nahas afferma: "Sulla base delle attuali conoscenze e considerando il grave rischio che comporta la somministrazione di cocaina a soggetti che già la assumono abitualmente, l'autore è del parere che la sperimentazione su esseri umani deve essere sospesa. Al contrario le linee di ricerca devono essere condotte verso studi in vitro e in vivo su animali, così da verificare gli effetti e i meccanismi di tossicità della cocaina sul cervello, sul cuore, sul sistema vascolare e sul fegato"[13].

Riguardo gli effetti, però, ci rimangono da considerare più attentamente anche quelli psicologico-comportamentali prodotti dall’assunzione di cocaina[14].

Il commercio illecito di cocaina è un’impresa ad alto rischio, della quale la violenza è una frequente conseguenza. La depressione che segue l’uso di cocaina (post-cocaine depression) è così intensa da poter portare al suicidio. La depressione è apparentemente dovuta all’esaurimento della dopamina, e all’insensibilità dei recettori dopaminici, conseguenti l’entrata in circolo della cocaina. Inoltre il senso di colpa che può affiorare nel momento in cui si riprende possesso delle proprie facoltà intensifica la spinta suicida (Cohen, 1981). I pensieri paranoici che quasi sempre sviluppano i consumatori abituali di cocaina portano a perdita del senso della realtà (miscalculation of the environment). L’eccessiva diffidenza può portare le persone circostanti a sentirsi offese. I decessi accidentali, durante intossicazione da cocaina, sono spesso causati dagli effetti delle illusioni, dei giudizi errati o delle decisioni affrettate che essa provoca nel soggetto.

Gli effetti a lungo termine del fumo della pasta di coca e della cocaina base sono sconosciuti. Riguardo le misure della funzionalità respiratoria, durante un intervallo di non-uso, i fumatori sono risultati avere una minora capacità di eliminazione di CO2 attraverso gli alveoli polmonari rispetto agli individui normali[15].

 

1.5  Dipendenza

Washton (1989) ha riscontrato lo "straordinario effetto additivo della cocaina" e l'intenso desiderio che provoca di ritornare all'uso. Questi sono "così potenti da cancellare anche gli istinti di sopravvivenza"[16]. Risultati provenienti da altri paesi hanno invece concluso che il consumo di cocaina è legato a scarsi problemi di dipendenza[17]. Anche negli stati Uniti ci sono studi in accordo a questi ultimi[18].

Al di là di queste interessanti discrepanze tra ricerche fatte in paesi differenti, è comunque fuor di dubbio (e supportato da altri studi) che una stessa droga può indurre differenti livelli di dipendenza quando somministrata attraverso differenti vie[19].

Nei vecchi studi scientifici, faceva notare S. Cohen (1984), la cocaina non sembrava dare dipendenza fisica. E il risultato era corretto, poiché il modesto quantitativo in uso allora e la frequenza di assunzione da parte del soggetto non avevano paragone con quelle impiegate oggi[20]. Le dosi elevate attualmente abituali e la frequenza con cui è assunta la cocaina oggi inducono tolleranza al farmaco (con evidente necessità di aumentarne la dose per ottenere gli stessi effetti) e sindrome d'astinenza nel momento in cui se ne interrompe bruscamente il consumo. Quest'ultimo consiste in depressione, tendenza a mangiare e dormire di più ed insofferenza. I consumatori sono spinti a tornare all'uso di cocaina perché fortemente attratti dagli effetti (reward) di intenso senso di euforia, ma anche per fuggire l'intenso senso di depressione e il senso di colpa che si fa presente in caso di uso discontinuo di cocaina. Inoltre c'è una incapacità di gustare i piccoli piaceri del vivere perché i centri del sistema nervoso centrale sono stati sovrastimolati e sono temporaneamente refrattari agli stimoli normali. A parte la depressione psichica, la dipendenza fisica non è un fattore determinante per riportare il consumatore all'uso della cocaina[21].

Non sempre le ricerche su animali possono essere applicate all'uomo. Tuttavia gli studi sul comportamento di primati che hanno assunto cocaina, rivela una sorprendente somiglianza con il comportamento osservato su consumatori cronici di cocaina. Quando l'accesso alla droga è illimitato, i primati assumerebbero la droga – ciò avviene, nell'esperimento, pressando una barra – fino alla morte o all'insorgere di convulsioni. Se è fornito un maggior quantitativo di droga i primati sono capaci di premere fino a 12.800 volte per ottenere una singola dose. I primati preferiscono la cocaina endovena piuttosto che le anfetamine, sempre endovena. Essi preferiscono la droga al cibo che hanno a disposizione nella gabbia[22]. Anche se un esemplare femmina è presente, disposto all'accoppiamento, essi non se ne interessano e continuano a premere la barra per avere altra droga. Infine i primati sottoposti alla sperimentazione preferiscono premere la barra che da una lieve scossa elettrica ma una maggior dose di cocaina, piuttosto che una che non dà scossa elettrica ma fornisce un più modesto quantitativo di droga. La cocaina ha il più potente effetto di richiamo di qualunque altra droga conosciuta.

 

1.6 Terapia di recupero

Il consumatore di cocaina che cerca di uscirne è ben consapevole della natura insidiosa, insistente e distruttiva della dipendenza della cocaina. E’ importante fornirgli tutte le necessarie informazioni circa le molteplici e serie conseguenze dell’uso abituale di cocaina in modo da rinforzare la motivazione del paziente ad astenersene. E’ disponibile un sufficiente materiale della sequela del chronic cocainism così da rendere efficace la presentazione delle prospettive conseguenti all’abuso prolungato. Dovrebbe essere soprattutto descritto il paradosso dell’uso di cocaina: ciò che inizia con la ricerca di euforia e benessere termina inevitabilmente in un senso disforico e di depressione.

 

1.7 Sintesi [23]

La Cocaina è un potente euforico che  induce in cambio, anche solo transitoriamente, depressione, timore e senso di malessere. Nuove modalità di assunzione di cocaina, come l'inalazione dei vapori della coca-base, la somministrazione endovena di cocaine hydrochloride , e il fumo di pasta di coca produce una momentanea ebbrezza che lascia rapidamente il posto all'umore precedente o malessere, risultando in un forte desiderio di tornare alla momentanea esperienza estatica; un circolo che porta ad un uso ripetuto.

L’enorme profitto fornito dal traffico illecito di cocaina porta alla corruzione, alla violenza,e, in alcuni paesi, all'instabilità politica. Il costo individuale della cocaina porta alla perdita di colossali patrimoni, lavoro e famiglia. La sicurezza della cocaina è una non più credibile leggenda. Ci sono molte possibilità che la cocaina sia letale. Le elevate dosi che attualmente si usano portano alla dipendenza fisica. Ma questo problema è minore rispetto all'intenso desiderio psichico di tornare all'uso ripetuto della cocaina. Non c'è uno specifico modo di trattare i disagi indotti dall'abuso di cocaina; il piano di trattamento deve commisurarsi alle singole specifiche situazioni.

 

 

2. Cannabis

 

2.1 Storia, diffusione e statistica

La Cannabis rappresenta la droga di più largo uso al mondo, con un rilevante numero di consumatori nella società occidentale. La diffusione geografica comprende praticamente tutti i paesi del mondo. Circa 140 milioni di individui fa uso di cannabis (il 2,5% della popolazione mondiale, paragonata allo 0,3% che consuma cocaina e lo 0,2% oppiacei; vedi TAB 1 e 2). Studi epidemiologici concordano nell'affermare che la maggior parte dei consumatori sono giovani, anche tra i 10 e i venti anni. La porzione di consumatori più consistente ne fa uso saltuario, fino ai 20-30 anni circa. Solo una piccola parte usa la droga quotidianamente per un periodi di anni. Degli studi condotti negli USA e in Australia indicano che circa il 10% di quelli che non hanno mai usato cannabis divengono fumatori giornalieri; circa il 20-30% invece ne usano con frequenza settimanale[24].

 

 

     

Paese e anno di campionamento

% sul tot. di droghe illegali

Cannabis

Amphetamine

Ecstasy

LSD

  Cocaina

Eroina

Australia, 1996
(tra 15-16 anni)

51.3a

47.2

7.9

4.6

11.9b

3.7

4.1

U.S.A., 1996
(tra 10-16 anni)

45.4

39.8

17.7

(4.4)c

5.6

9.4

7.1

2.1

Canada, 1995
(tra 15-17 anni)

30.4

28.8

10.7c

-

10.7c

1.8

10.7c

Unione Europea, 1994/95; media non ponderata

(tra 15-16anni)d

17.5

14.5

3.7

2.4

2.3

1.0

0.7

                 

TAB. 1. Diffusione della cannabis (lifetime prevalence) tra i 15-16 anni di età, paragonata ad altre droghe (in %), nei Paesi dell'UE, Australia, Canada e U.S.A. [25] .

 

TAB. 2 Andamento globale del consumo di Cannabis, Eroina e Cocaina (1987-1997). Si noti l'andamento crescente della Cannabis rispetto all'altalenante consumo di Eroina e Cocaina. Fonte: UNDCP Research Section, “Cannabis as an illicit narcotic crop: a review of the global situation of cannabis consumption, trafficking and production”; in Bulletin on Narcotics (1997).

L’uso terapeutico della cannabis ha una storia che si perde nei secoli. Già fonti degli antichi Egizi, dei Cinesi (2700 a.C) e degli Assiri (800 a.C.) indicano la cannabis come una delle più antiche droghe del mondo. L’introduzione nel mondo occidentale probabilmente si deve ai medici in forza all’esercito inglese in India che ne notarono gli effetti anti-convulsivi, analgesici, ansiolitici[26]. Iniziata quella che può definirsi la fase moderna dell’impiego terapeutico della cannabis, furono notati altri effetti nella terapia delle malattie psichiatriche, come induttore dell’appetito e del sonno, senza presentare particolari effetti secondari. Come molte altre droghe estratte da vegetali anche la cannabis è stata usata per lenire il dolore e la sofferenza dell’uomo per decenni. Alla fine del XIX° secolo nella farmacopea americana la cannabis era indicata come farmaco contro nevralgia, gotta, reumatismi, tetano, colera epidemico, convulsioni, isteria, depressione mentale, delirium tremens, e altre patologie. L’interesse – comprensibile visto l’ampio spettro di patologie contro le quali veniva con successo impiegata -  per l’uso terapeutico della cannbis crollo’ quando nel 1930 essa fu dichiarata illegale dal Marijuana Tax Act. Tale azione fu introdotta dopo la commercializzazione dell’aspirina, dei barbiturici e di altri analgesici sintetici e sedativi che presto resero inutile l’uso medico della cannabis. Tuttavia il crescente uso ricreativo della cannabis negli anni ’60 riportò il dibattito sui risultati medico-scientifici del suo utilizzo. Perché dunque la cannabis attira tanto l’interesse? Perché tante controversie sui risultati terapeutici e sui suoi effetti sulla salue? Lungo questy’analisi cercheremo delle possibili risposte.

 

2.2 Cannabis: la droga

Cannabis è il nome generico per una serie di preparati derivati dalla pianta Cannabis sativa L., che contiene più di 60 sostanze tipo-cannabinoidi. La ricerca chimica di laboratorio ha individuato e isolato nel 1964 il principio attivo con la maggiore potenzialità psicoattiva: è il cannabinoide trans-i9-tetraidrocannabinolo (THC)[27]. La concentrazione di THC varia tra i 3 più comuni tipi di cannabis:

 

a)      marijuana: preparata essiccando la fioritura raccolta dalla parte alta della pianta. Queste sono le parti con la maggiore concentrazione di THC, che va diminuendo man mano che si scende lungo lo stelo. La concentrazione di THC in foglie di marijuana di questo tipo raggiunge dal 0,5-5%, mentre la varietà Sinsemilla tra il 7 e il 14%.

b)     hashish che consiste in resina di cannabis e fiori essiccati e compressi. La concentrazione di THC quì varia dal 2-8%.

c)      hash oil; è un materiale altamente concentrato prodotto astraendo il THC dall’hashish (o dalla marijuana) attraverso un solvente organico. La concentrazione del THC in questo olio è di solito tra il 15-50%.

Il modo di impiego più diffuso è quello di arrotolare manualmente la marijuana in sottili foglietti e fumarla. Spesso è inserito il tabacco che facilita la combustione. L’Hashish può essere mischiato al tabacco e fumato in pipa o in sigaretta. L’olio di hashish può essere versato in poche gocce sul tabacco di una normale sigaretta, aggiunto ad una miscela per pipa o vaporizzato e inalato. Qualunque sia il metodo usato il consumatore di solito respira profondamente e trattiene la sostanza in modo da massimizzare l’assorbimento di THC.

Una sigaretta-tipo può contenere tra 0.5 e 1.0 g di cannabis, che a sua volta può variare nel contenuto di THC tra i 5 e i 150 mg (tra l’1-15%). L’effettiva dose di THC utilizzata è pertanto stimata tra il 20-70% (Hawks, 1982), il resto si perde nella combustione o nel fumo non inalato[28]. La bioviabilità del THC (percentuale di THC che raggiunge il circolo ematico) dalle sigarette di marijuana in individui di specie umana è stato stimato intorno al 5-24% (Ohlsson e al. 1980)[29]. Viste tutte queste variabili, si intuisce come l’effettiva dose di THC assorbita dall’organismo di volta in volta non sia facilmente quantizzabile.

Riguardo le dosi impiegate si nota che una modesta quantità di cannabis (2-3 mg di THC) è sufficiente per produrre un effetto sensibilmente elevato in un fumatore non abituale ed una singola sigaretta può servire per due o tre individui. Abitualmente i fumatori abituali consumano  cinque o più sigarette al giorno mentre in Jamaica possono arrivare a consumare 420 mg al giorno. Può essere indicativo sapere che le ricerche cliniche per verificare gli effetti della cannabis sulla salute usano dosi in capsule di 10 (bassa), 20 (media) e 25 (alta) mg di THC.

Ci sono diversi aspetti della farmacocinetica del THC che hanno grande importanza sugli effetti della cannabis (produzione di metaboliti attivi, tempo e modo di deposito nei tessuti adiposi, raggiungimento del picco ematico ed equilibrio con la concentrazione nel tessuto cerebrale) che vanno considerati attentamente ma purtroppo sono frequentemente disconosciuti[30].

 

2.3 Difficoltà metodologiche nell’individuarne gli effetti sulla salute

Determinare gli effetti secondari di una sostanza chimica particolare su una popolazione così diversa per ampiezza e tipologia è spesso difficile a meno che essi non emergano in modo chiaro ed evidente. Pertanto non sorprende il fatto che si continui ad opinare sugli effetti della cannabis riguardo la salute. Ci sono stati numerosi studi sull’argomento[31]: alcuni hanno concluso che la cannabis è relativamente innocua[32], mentre altri hanno concluso che essa è decisamente pericolosa e dannosa[33].

Ci sono diversi fattori che contribuiscono alla sotto o sopravalutazione dei diversi effetti dell’uso di cannabis. Come accennato sopra la cannabis è usata fondamentalmente da una fascia di individui giovani, la cui salute è abitualmente migliore che quella della media della popolazione. Inoltre molti consumatori fanno un uso saltuario di cannabis, questo probabilmente mitiga in parte gli effetti sulla salute. C’è poi una certa tendenza a trattare  i consumatori di cannabis come un campione omogeneo, senza riferimento ai gruppi ad alto rischio come gli adolescenti o soggetti con pregresse turbe psichiche. Naturalmente, le estrapolazioni dei risultati su soggetti ad alto rischio riportate su tutta la popolazione possono indurre una sopravalutazione degli effetti della sostanza sulla salute. Pertanto è categorico che, prima di tirare le conclusioni riguardo l’effetto di qualsiasi sostanza, siano state considerati fattori quali lo stato di salute del soggetto, la frequenza di uso e i rischi associati.

Nelle righe seguenti terremo in conto i parametri usati da Martin e Hall (1997) e ritenuti standard affidabili dalla comunità scientifica internazionale nel momento in cui si prende in considerazione qualsiasi studio scientifico. La conclusione scientifica che la cannabis arrechi danni alla salute ha pertanto come presupposto:

a)     che ci sia una relazione dimostrata tra l’uso di cannabis e la patologia in questione.

b)     che la sola probabilità, che ci sia questa relazione, non sia presa in considerazione come prova.

c)      che l’uso di cannabis preceda la patologia.

d)     che siano escluse altre possibili cause di quella specifica patologia.

 

Questi presupposti sono assicurati – in tutti gli studi che presentiamo in queste pagine -  da specifici metodi statistici usati di volta in volta durante le ricerche, che escludono la presenza di errori (studi caso-controllo, doppio-cieco, coorte ed esperimenti)[34].

 

 

2.4 Effetti immediati della cannabis

L’individuo sotto effetto della cannabis presenta i seguenti sintomi: alterato stato di coscienza accompagnato da lieve euforia e senso di rilassatezza; alterazioni della percezione, come  distorsione del tempo, ma anche alterazione della percezione sensoriale di stimoli normali, come mangiare, vedere dei film e ascoltare della musica[35]. Quando l’uso avviene in un contesto conviviale, tra i suoi effetti possono notarsi riso contagioso, e loquacità. Ci sono anche dei pronunciati effetti sulla capacità cognitiva, come l’indebolimento della memoria breve e la dissociazione dei pensieri che porta il  soggetto a lasciarsi trasportare da  sogni ad occhi aperti e fantasie. Sono compromesse in vario grado anche le reazioni e le funzioni motorie così che l’attività normale di vario tipo risulta frequentemente alterata.

Gli effetti psicologici più fastidiosi sono soliti essere ansia, attacchi di panico, paura di perdere il controllo e malessere derivato da stato d’animo depresso[36]. Meno frequentemente insorgono sintomi psicotici, come allucinazioni, ma solo ad alti dosaggi. Questi effetti sono solitamente riportati da consumatori alle prime armi che non conoscono gli effetti della droga, o da pazienti cui è stata somministrata THC per fini terapeutici. Consumatori più sperimentati possono avvertire sintomi di questo tipo in seguito a sovradosaggio da THC. Questi effetti possono essere evitati con una apposita preparazione psicologica del paziente che tenda a spiegargli prima il possibile insorgere di questa possibile sintomatologia[37].

L’inalazione o la somministrazione di THC ha una serie di effetti farmacologici anche sull’apparato cardiovascolare. Il più tipico è l’aumento del battito cardiaco del 20-50% rispetto alla norma[38]. Questa tachicardia può insorgere tra i primi minuti fino ad un quarto d’ora dopo la somministrazione e può durare tra 1-3 ore. Le variazioni della pressione dipendono dalla posizione del corpo. Nei consumatori giovani gli effetti cardiovascolari sono più limitati  a causa dell’adattamento agli effetti del THC e del fatto che abitualmente godono di salute migliore.

Riguardo il potenziale letale, non si trovano nella letteratura mondiale, casi confermati di decesso in seguito ad assunzione di cannabis. Gli studi sperimentali su animali indicano che la dose letale di THC è estremamente elevata rispetto ad altri preparati medico-farmacologici o ad altre droghe. Questo distingue la cannabis dalla altre droghe di uso comune, che solitamente hanno tutte una capacità di provocare la morte ad alte dosi. Purtroppo questo fatto ha portato a parlare della cannabis come di una safe-drug, che quindi potesse essere usata senza timore di effetti secondari. Attualmente, i problemi correlati all’uso di cannabis, possono essere attribuiti al suo rendere difficile una normale vita produttiva piuttosto che alla sua potenziale letalità.

Da questi e altri studi si possono sintetizzare così gli effetti immediati dell’uso di cannabis[39]: ansia, depressione, panico e paranoia, specialmente nei consumatori iniziali; indebolimento della capacità cognitiva, specialmente attenzione e memoria; difetti psicomotori e possibile aumento del rischio di incidenti nel caso in cui il soggetto sotto effetto della cannabis si accinga a guidare un veicolo a motore; incremento del rischio di scatenare sintomi psicotici in coloro i  quali mostrino nell’anamnesi familiare precedenti di malattie nervose.

 

 

2.5 Effetti dell’uso continuato di cannabis sulla salute

Il THC produce alterazioni al metabolismo cellulare e alla sintesi del DNA in vitro[40], mentre il fumo di cannabis ha dimostrato avere effetti mutagenici in vitro ed in vivo con un probabile potenziale cancerogeno[41]. Queste ricerche indicano la probabilità, nei fumatori sul lungo periodo, di sviluppo carcinomi soprattutto nelle zone esposte al passaggio del fumo di cannabis; ovvero l’apparato oro-faringeo, le vie aeree superiori, i bronchi e i polmoni. E’ anche dimostrato che i cannbinoidi debilitino la risposta immunitaria umorale e cellulomediata nei ratti[42], diminuendo le difese contro batteri e virus. Piuttosto evidenti sono anche gli effetti di indebolimento dei cannabinoidi nei confronti del tropismo dei macrofagi a livello alveolare, prima linea di difesa dell’organismo a livello dei polmoni[43]. La rilevanza di tali studi negli umani è incerta; infatti alle cavie sono state somministrati quantitativi molto elevati di THC, pertanto il problema, nell’estrapolare tali dati sull’uomo è complicato dalla possibilità che alle stesse dosi si possa sviluppare tolleranza e questo infici la riproduttività degli effetti[44].

I risultati sperimentali su soggetti umani è controversa., ciò è dovuto agli effetti verificatisi in un modesto numero dei primi studi condotti ma non verificati da ulteriori ricerche[45]. Al giorno d’oggi non abbiamo l’evidenza certa che l’uso di cannabis predisponga l’uomo a danni come riduzione di numero o difetto di funzionamento dei T o B linfociti e dei macrofagi. Non pare neanche che induca un decremento del livello di emoglobina. Inoltre, due studi prospettici sulla immunodeficienza in pazienti omosessuali, virus HIV-positivi, hanno dimostrato che l’uso di cannabis non era correlato con aumento del rischio di manifestazione conclamata dell’AIDS[46].

Più difficile è escludere che il fumo protratto e continuato di cannabis produca pochi problemi al sistema immunitario. Questi effetti sul sistema immunitario indurrebbero un lieve aumento delle comuni infezioni batteriche e virali, come è stato riscontrato tra i fumatori cronici di cannabis[47]. Il rislutato necessita di ulteriori studi, anche perché, il risultato per cui i cannabinoidi produrrebbero effetti limitanti il sistema immunitario, getterebbe discredito sul valore terapeutico del THC in pazienti immunocompromessi, quali quelli sottoposti a chemioterapia o affetti da AIDS.

Il fumo cronico di cannabis diminuisce la funzionalità respiratorie probabilmente causa sintomi simil-bronchitici. Tashkin et al. (1987) condussero uno studio  mettendo a confronto i seguenti gruppi: non-fumatori, fumatori di tabacco, fumatori di marijuana, fumatori di tabacco più marijuana, e un gruppo di controllo. Questo studio non ha evidenziato differenze nella prevalenza di sintomatologia bronchitica tra il gruppo di fumatori di tabacco e quelli di marijuana[48]. Tutti i soggetti fumatori mostravano anormalità istopatologiche più severe rispetto ai non-fumatori[49]. Molte du queste anormalità erano prevalenti nei fumatori di marijuana e più marcate in quelli che fumavano marijuana più tabacco. L’impatto sulla funzionalità respiratoria, invece, non è chiaro e ci sono risultati contrastanti[50].

Riguardo gli effetti sul sistema riproduttivo, alte dosi di THC somministrate ad animali, riducono la secrezione di testosterone, la mobilità, la viabilità e la produzione di sperma negli animali maschi e provocano l’irregolarità del ciclo ovulatorio nelle femmine[51]. E’ dubbio l’effetto sugli umani vista la esigua quantità di studi condotti su questo aspetto[52]. La cannabis usata durante la gravidanza invece probabilmente rallenta lo sviluppo del feto portando ad una riduzione del peso alla nascita, possibile abbreviamento della gestazione e – come per il fumo di tabacco – ipossia fetale. Anche qui comunque si avverte la carenza di ulteriori studi – sono scarsi quelli riportati al giorno d’oggi in letteratura - sull’argomento[53].

Vari studi riguardo gli effetti psicologici dell’uso prolungato e frequente di  cannabis, hanno sostenuto che esso influisca sulla motivazione degli adulti e sul comportamento degli adolescenti, producendo una così detta sindrome demotivante. In realtà non c’è evidenza sperimentale di una tale affermazione; a volte tali studi erano disegnati male e non mettevano in evidenza le caratteristiche socio-demografiche del campione ed altri fattori importanti[54].

C’è invece una certa evidenza della comparsa di questa sindrome tra gli adolescenti. La cannabis pare aumentare il rischio di rallentamento nell’apprendimento alla scuola secondaria superiore e sembra favorire l’instabilità delle prime esperienze professionali nei giovani[55]. Si è visto però, in successive ricerche, che l’apparente solidità di una tale correlazione è stata esagerata, poiché si è visto che quegli adolescenti che facevano uso di cannabis erano quelli che erano maggiormente demotivati nello studio ed avevano scarse ambizioni accademiche già prima di usare la cannabis, rispetto ai loro compagni che non la usavano[56].

Correlazione stretta vi è tra l’uso di cannabis e difficoltà nel formare un nucleo familiare, salute mentale e coinvolgimento in crimini legati alla tossicodipendenza[57]. In ogni caso, in studi longitudinali più precisi questa correlazione è stata mitigata dopo controllo statistico sull’associazione tra uso di cannabis e pregressi fattori che favorivano gli effetti sopraesposti.

Molti studi concordano nell’affermare che la cannabis induce adolescenti e adulti che ne fanno uso a passare a droghe più forti, come stimolanti ed oppiacei[58]. Questo si è reso evidente soprattutto intorno agli anni ’70 negli USA. Il motivo di questo rapporto causa-effetto rimane oscuro. Ci sono due ipotesi plausibili,  che non è detto che si escludano a vicenda: a) c’è una selezione attraverso l’uso di cannabis di adolescenti che hanno propensione alle droghe pesanti b) una volta iniziato l’uso di cannabis cambiano le relazioni sociali del soggetto che comincia a frequentare altri consumatori di droghe[59].  Rappresenta senz’altro una sfida per la ricerca indagare sulle basi biologiche per cui l’uso di cannabinoidi induca il passaggio all’utilizzo di altre droghe.

C’è evidenza sperimentale sul fatto che gli animali sviluppano tolleranza agli effetti di THC[60]. Si è visto anche come i consumatori abituali di cannabis sviluppino tolleranza agli effetti cardiovascolari e vadano in crisi d’astinenza quando l’uso della droga è interrotto[61]. C’è anche un riscontro cinico al fatto che i consumatori abituali di cannabis sviluppino una sindrome di dipendenza. C’è una sindrome di dipendenza da cannabismo analoga a quella che manifestano i soggetti alcolizzati[62]. Il rischio di contrarre dipendenza da cannabis è probabilmente più vicino a quello per l’alcool che al rischio di contrarre dipendenza per la nicotina e gli oppioidi[63]. Soggetti che fanno uso di cannabis quotidianamente per un periodo da alcune settimane ad alcuni mesi hanno una forte probabilità di diventare dipendenti dall’uso[64].

Gli effetti sulle capacità conoscitive in consumatori abituali non sono severe, né devastanti[65]. Per esempio non risulta che essa provochi compromissione della facoltà conoscitiva come negli alcolizzati; se così fosse, delle ricerche lo avrebbero provato[66]. C’è tuttavia evidenza clinica che l’uso prolungato di cannabis possa indurre deterioramento delle alte funzioni cognitive come la memoria, l’attenzione e l’organizzazione o l’integrazione di informazioni complesse[67]. Si nota anche come il danno sia proporzionale al periodo in cui si protrae l’uso[68]. Rimane da capire quanto siano compromettenti questi effetti sulla vita di ogni giorno e se siano reversibili dopo un lungo periodo di astinenza dal consumo di cannabis.

Fu avanzata, nel 1971 in seguito ad un modesto studio, l’ipotesi che il prolungato uso di cannabis provochi dei danni al cervello. Lo studio era però poco attendibile e usava vecchi protocolli di ricerca[69]. Il risultato, secondo cui l’uso di cannabis provocasse allargamento dei ventricoli cerebrali, fu superficialmente pubblicizzato dei media ed ebbe una certa risonanza. Altri studi più affidabili, e condotti secondo criteri certi, non individuarono danni al cervello nei consumatori cronici di cannabis[70]. Questi risultati escludono la compromissione della facoltà conoscitiva in quanto provocata dal danno strutturale al cervello nei consumatori di cannabis.

C’è una certa evidenza che dosi notevoli di THC producano psicosi caratterizzate da sintomi come confusione, amnesia, allucinazioni, ansia e ipomania[71]. Valide ricerche epidemiologiche hanno inoltre concluso che c’è una stretta correlazione tra l’uso di cannabis e la schizofrenia. Lo studio prospettico di Anrdeasson et al. (1987) ha mostrato una correlazione legata al dosaggio di cannabis usato fino ai 18 anni e l’insorgenza di sindrome schizofrenica nei successivi 15 anni[72]. Questo risultato indicherebbe che l’uso abituale di  cannabis scateni l’insorgere di schizofrenia in individui vulnerabili; altri sono più scettici al riguardo. Si fa notare che nell’unico studio prospettico impiegato – quello di Andreasson et al. -, l’uso di cannabis non fu documentato al momento della diagnosi, c’è una possibilità che la cannabis fosse confusa con l’uso di anfetamine o farmaci vari e pertanto c’è il dubbio che si confondano la schizofrenia con  altri disturbi psicotici indotti da cannabis o altre droghe[73]. Pertanto anche se c’è una certa causalità, l’importanza dal punto di vista della salute pubblica non deve essere esagerata. Lo studio di Andreasson et al. mostra che meno del 10% dei casi di schizofrenia possono essere attribuiti all’uso abituale di cannabis[74]. Sulla base di presupposti biologici è probabile che la canna bis esacerbi i sintomi della schizofrenia e scateni disordini schizzofrenici. Comunque il calare dell’incidenza tra i casi trattati e seguiti a distanza di anni mostra poco verosimile l’ipotesi per cui la cannabis porti alla schizofrenia soggetti che comunque non l’avrebbero contratta[75].

 

2.6 Sintesi degli effetti della cannabis

I principali effetti fisiologici e psicologici dell’uso prolungato, quotidiano e per molti anni, della cannabis rimangono incerti. Gli effetti contrari più importanti, verificati sperimentalmente, sono disturbi respiratori, dipendenza dalla cannabis e lieve rallentamento di alcune funzioni cognitive. I disturbi respiratori sono associati alla modalità di assunzione attraverso il fumo. Ci sono conferme del fatto che la cannabis induca mutazioni istopatologiche che possono dare origine a tumori maligni. La dipendenza dalla droga si caratterizza per l’incapacità di interromperne l’assunzione. Il rallentamento delle funzioni cognitive riguarda la memoria e l’attenzione; esso persiste fino a quando si protrae l’uso della cannabis e può – o meno, regredire alla sua interruzione.

Altri effetti vanno confermati da studi ed ulteriori ricerche: un maggiore rischio di sviluppare carcinomi del tratto digestivo superiore, (cavo orale, faringe, esofago); elevato rischio di leucemia tra gli individui esposti in utero; un calo delle performance lavorative caratterizzato da bassa capacità di apprendimento negli adulti e ritardo nell’apprendimento nei giovani; difetti alla nascita di bambini le cui madri fanno uso di cannabis durante la gravidanza.

Nella tipologia di soggetti che possono andare incontro a danni in seguito ad uso protratto di cannabis, vi sono dei  ‘gruppi a rischio’. Essi sono tre: adolescenti, donne in gravidanza e persone con disturbi pre-esistenti. Gli adolescenti sono quelli con scarso rendimento scolastico il cui rendimento può essere ulteriormente compromesso dall’uso di prolungato e abituale di cannabis Coloro i quali  cominciano ad usarne tra i 12-18 anni, è probabile che diventino consumatori cronici di cannabis o passino a droghe più pesanti. Le donne in stato di gravidanza hanno più probabilità di dare alla luce bambini con difetti alla nascita o sottopeso o abbreviare il periodo della gravidanza con parti prematuri. Infine le persone con preesistenti patologie hanno, con una certa probabilità, un rischio maggiore di esacerbare o manifestare la patologia in questione, se sono fumatori abituali di cannabis. Queste patologie latenti, o che possono aggravarsi se già presenti, sono: disturbi respiratori, asma, bronchiti ed enfisema; individui con schizofrenia e individui con dipendenza all’alcool o altre droghe; questi sono probabilmente maggiormente a rischio di sviluppare dipendenza alla cannabis.

 

 

2.7 Potenziale terapeutico della cannabis

Il dibattito sulla cannabis è divenuto così politicizzato che è difficile parlare con oggettività anche degli studi e delle ipotesi sui suoi effetti terapeutici. Infatti è conosciuto – e come detto sopra, fino al 1930, anche legalmente riconosciuto - che la cannabis sia stata impiegata contro vari disturbi patologici, quali il contenimento del dolore, l’alleviamento della pressione endoculare, nausea e vomito. Dato il fatto, però,  che queste applicazioni e i relativi effetti benefici, non siano stati supportati da rigorosi studi scientifici, attualmente l’uso di cannabis a scopo terapeutico continua ad attrarre e risvegliare interesse,  nonostante sia sostenuto da studi di individui che si sono piuttosto auto-medicati con la cannabis[76]. D’altro canto, molti studi scientifici sono fatti usando THC e suoi derivati e questi dati sono poi stati spesso usati per sostenere l’adeguatezza dell’uso  terapeutico della cannabis. Ma è fuori luogo riportare gli effetti clinici della somministrazione di THC a quelli dell’uso della cannabis, a motivo della grande differenza che intercorre tra il fumare cannabis e ingerire semplici composti sintetici.

 

La sola lunga storia dell’uso di cannabis in tempi passati, non autorizza a trarne conseguenze dal punto di vista dell’opportunità dell’uso clinico che attualmente se ne vorrebbe fare. Chiaramente desta entusiasmo nei medici la possibilità di curare tante malattie con il semplice uso della cannabis[77]. Ma la sola idea di somministrare qualsiasi sostanza sotto forma di foglie da fumare ad un individuo, è l’antitesi della moderna medicoterapia.

Altre questioni riguardano i principi attivi derivati dal THC che si devono impiegare per le singole patologie. Il problema del dosaggio poi è legato alla grande varietà di concentrazione di THC che, come vedevamo all’inizio, troviamo nelle diverse parti della pianta Cannabis sativa L..  Inoltre il fumo della cannabis porta con sé i problemi legati alla cronicizzazione dell’uso di tale sostanza, come visto sopra. Allora, fondamentalmente, qualora  se ne reputi opportuno l’uso clinico,  bisogna sottoporre la somministrazione di THC agli stessi standard e allo stesse modalità di qualsiasi altro farmaco. Essenzialmente sono richiesti: a) l’evidenza che il farmaco sia efficace; b) che esso abbia un margine accettabile di sicurezza; c) che sia somministrabile in modo appropriato. L’impossibilità di riscontrare uno di questi fattori diminuisce il valore terapeutico della cannabis. Ci sono circostanze che giustificano l’uso di cannabis? E’ senz’altro un’indicazione il fatto che il paziente sia refrattario ad altre terapie. La severità della patologia è un ulteriore fattore cruciale per deciderne l’impiego.

Se dovessimo fare una sintesi degli effetti terapeutici della cannabis, diremmo che c’è parecchio interesse nella cura della sindrome cachettica da AIDS, terapia del dolore, effetti antiemetici, controllo della  pressione endoculare, glaucoma, disturbi motori. L’uso della cannabis desta reazioni controverse legate alla sua stessa natura: quella di una sostanza psicoattiva che deve essere assunta a lungo e produce determinati effetti collaterali L’argomento dovrebbe, a detta di studiosi esperti, senz’altro rimanere all’interno del dibattito medico scientifico fin quando non siano stati condotti degli studi clinici, a lungo termine e verificati severamente, sull’impiego clinico della cannabis[78]. Naturalmente c’è la possibilità che un preparato differente di cannabis possa essere più accettabile per l’uso terapeutico. I ricercatori hanno attualmente a disposizione delle sigarette standardizzate che eliminano l’incertezza sulla concentrazione del THC e quindi forniscono un parametro fisso, elemento essenziale per verificare gli effetti di una sostanza durante un esperimento. Ancor più importante è la disponibilità di THC sintetico in capsule che costituisce una valida alternativa alla cannabis da fumare. Ci sono stati numerosi studi sull’impiego del THC e dei suoi derivati nel trattamento di una notevole varietà di patologie. Coloro i quali, però, sostengono l’uso terapeutico del fumo di cannabis rispondono affermando che il THC è somministrato con maggiore efficacia attraverso il fumo, che la cannabis è meno costosa del THC, e che essa è praticamente priva di effetti dannosi.

Con Martin e Hall, riteniamo che “altre sfide aspettino i medici che vogliano valutare il potenziale di un farmaco psicoattivo che può anche avere un efficacia relativa e deve essere fumato[79]”. E’ ovvio che la comunità scientifica cerchi l’uso medico della cannabis che dia più tranquillità di impiego. Quanto detto sopra non significa che occorra aspettare un mandato legislativo per portare avanti le ricerche o per sottoporre già adesso ad un trattamento rigorosamente controllato i pazienti con sindrome da AIDS (o dolore cronico) con la cannabis in forma di sigarette. Quello che è doveroso è che questo non travalichi l’ambito della sperimentazione, offuscando le ricerche, che avranno ancora bisogno di numerose conferme,  per spiegare l’azione dei cannabinoidi sul sistema biologico e per produrre efficaci farmaci sintetici per uso medico. Senza questo tipo di conoscenze, frutto di seri studi in doppio-cieco, con rigorosi protocolli, e statistiche a lungo termine,  non emergerà mai alcuna indicazione scientificamente razionale sull’impiego della cannabis.

 

 

3. Considerazioni antropologiche sull’uso di sostanze stupefacenti

 

Il riferimento medico-scientifico è importante quando si parla di sostanze stupefacenti. Conoscerne gli effetti, la diffusione, i rischi, aiuta già molto a farsi un’idea al riguardo della legittimità del loro impiego e della loro liberalizzazione. Però non basta. Di fatto, a quanto abbiamo esposto in §1 e §2, potrebbe rispondere quella voce anonima che si ascoltò durante  il concerto di Woodstock del 1969, quando mezzo milione di ragazzi invasero una tranquilla comunità nella parte settentrionale dello Stato di New York, dando vita al più grande raduno giovanile della storia del rock. Dagli altoparlanti, infatti, venivano diffusi messaggi del tipo: “L’LSD che circola per il campo non è di buona qualità. Comunque, fate come vi pare. La salute è la vostra. Noi vi abbiamo avvertito”[80].

D’altro canto vorremmo entrare a fondo nell’analisi antropologica del fenomeno droga, il che, oltre a fornirci qualche possibile via d’uscita dall’impasse generale sul tema,  può darci occasione di tornare ai fondamenti stessi dell’agire e dell’esistere personale. In questa fase seguiremo il metodo di indagine sintetizzato così da Giovanni Paolo II:

 

"La prima parola sull'uomo è offerta dalla scienza - la fenomenologia antropologica precede l'antropologia filosofica - come concreto punto di partenza, ma l'ultima parola resta riservata alla metafisica, la quale, mentre riceve dalle discipline scientifiche un più depurato dato di base, offre ad esse un inquadramento sintetico ed integrativo, aprendole alla prospettiva dei valori e dei fini. Le scienze umane sono quindi indispensabili per una metafisica aggiornata, ma esse sono assolutamente inabili a rispondere alla questione posta all'uomo dalla singolare esperienza costitutiva del suo essere, quella cioè del contrasto insuperabile tra la finitezza-contingenza e l'illimitata trascendenza" (Giovanni Paolo II, Insegnamenti, [1979], pp. 541-545).

                                                                                                                                                                                  Insegnamenti

Siamo abituati a richiami, pubblicità-progresso, cartelli di “pericolo”, rush di controlli da parte dell’autorità a tal punto da arrivare a convincerci che questo sia tutto. Tutto ciò che si può onestamente fare. E’ vero che questo ha la sua importanza: la coscienza personale dell’individuo è fatta in modo tale da orientarsi in base agli stimoli che riceve. L’esempio degli altri, l’educazione familiare, la pressione dell’ambiente, condizionano ogni uomo. Questa potenzialità, questa plasticità, è nella natura stessa dell’essere umano, deriva direttamente dalla sua natura socievole ed è, con buona pace di Rousseau, un’importante chance per lo sviluppo armonico della personalità ed il raggiungimento del fine naturale (cui ogni uomo aspira ed in vista del quale sceglie tutti gli altri beni) che è la felicità[81].

Questo dato, costante negli studi di antropologia filosofica da vari millenni, forse dovrebbe essere tenuto più in considerazione da coloro i quali si orientano – sempre con il fine di limitarne il danno e la diffusione – verso la legalizzazione della droga. D’altronde basta dare un’occhiata al degrado di quartieri-ghetto costituitisi in molte città del centro-nord Europa, come per esempio Amsterdam, per constatarne gli effetti. L’esistenza di leggi positive in materia tanto importante per la salute, l’ordine pubblico e la stessa stabilità di un intero paese[82], aiuta l’individuo ad orientarsi con maggior decisione nel senso del bene morale, spinto dalla responsabilità e dall’urgenza di dover contribuire insieme ad altri al raggiungimento del bene comune.

 

“Un uomo buono è un uomo la cui coscienza traduce il «non mi è lecito farlo» in un «non mi è possibile farlo». Il legislatore dell’antica Roma ha formulato quest’idea, con la chiarezza che gli è propria, nei seguenti termini: «Ciò che va contro il rispetto dell’uomo, in breve contro i buoni costumi deve essere considerato come se fosse impossibile»”[83].

 

Però, dicevamo, se questo è importante (la presa di posizione chiara dell’autorità costituita) è pure vero che nulla può sostituire la coscienza del singolo, che dovrebbe avere, nella nostra società occidentale, tutti gli elementi per valutare la liceità o meno di certi atteggiamenti. “Il filosofo precristiano Seneca scriveva: «Abita in noi uno spirito sacro che osserva e vigila sulle nostre buone e cattive azioni»”[84]. “I sofisti – fa notare ancora Spaemann - che erano i professori di scienza della politica di quel tempo [Atene V sec a.C.], insegnavano che la giustizia sta appunto nel fatto che il forte fa ciò che gli torna utile. Platone replicò a questa affermazione: «È giusto ciò che è utile al forte oppure ciò che questi pensa che gli sia utile?». E chiese ulteriormente: che cosa è davvero utile all’uomo? Per saperlo, bisogna sapere che cos’è l’uomo”[85].

E’ a questo sapere cosa è l’uomo che dobbiamo puntare, se davvero cerchiamo soluzioni non effimere, ma efficaci perché connaturali a questa persona e non imposte da fuori; l’ente uomo mal sopporta forzature esterne ed interpretazioni parziali della sua natura: la storia ce lo dimostra. Pertanto, riportando in un primo momento all’attenzione di chi legge alcuni fondamenti di antropologia filosofica (discorso della ragione sull’uomo che prescinde da altre fonti, come i dati rivelati, la filosofia della religione, etc.) vorremmo successivamente analizzare, a partire dal tema delle droghe leggere, alcuni nodi che stanno al cuore del disagio esistenziale dell’uomo contemporaneo.

 

3.1 Richiami generali sulla struttura della persona umana

 

3.1.1 Gradi di vita: vegetativa, sensitiva, intellettiva[86].

Anche se tutti gli esseri vivi condividono determinate caratteristiche (movimento, nutrizione, unità), non tutti sono uguali, ovvero, non tutti vivono nello stesso modo. Ci sono in essi dei gradi, una scala successiva di perfezioni nelle loro forme di vita: ciò è oggetto di studio dettagliato da parte della zoologia. Questa scala può dividersi secondo  gradi di immanenza. Ma cos’è l’immanenza? Diremmo che quanta maggiore è la capacità di un essere vivo di conservare dentro di sé un’operazione, più alto è il suo livello di immanenza. Mangiare un frutto, rimuginare o pensare ad una persona cara, sono tre gradi differenti di immanenza, di una perfezione ogni volta maggiore.

Ciononostante, non solo l’immanenza, ma anche le altre caratteristiche della vita, si danno negli esseri vivi superiori in grado più perfetto che negli inferiori. Nei superiori c’è più movimento, più immanenza e possiamo più propriamente parlare di autorealizzazione che negli inferiori. Questa gerarchia nella scala della vita può dividersi in tre gradi, che descriveremo sommariamente di seguito, enumerando alcune differenza importanti tra di essi:

1) Il primo grado è la vita vegetativa, propria delle piante e di tutti gli animali superiori ad esse. Ha tre funzioni principali: la nutrizione, la crescita e la riproduzione [87] .Nella prima l’inorganico esteriore passa a formare parte dell’unità dell’essere vivo. La nutrizione è subordinata alla crescita, identificata sopra con l’autorealizzazione. La riproduzione consiste nella capacità di dare origine ad una replica di sé stesso: un altro essere vivo della propria specie. Gli esseri che non si riproducono sessualmente si dissolvono nei loro generati. Invece, quelli che lo fanno sessualmente hanno un sottosistema corporale specializzato per questa funzione, che gli permette di continuare ad esistere dopo essersi riprodotti, con il quale si rendono indipendenti da questa funzione: “nella scala della vita la rilevanza dell’individuo e la sua dipendenza dalla specie è sempre maggiore fino a giungere all’uomo, nel quale la rilevanza dell’autorealizzazione individuale eccede pienamente quella della specie” [88] .

2) Il secondo grado è quello della vita sensitiva, che distingue gli animali dalle piante. La vita sensitiva consiste soprattutto nell’avere un sistema percettivo che aiuta a compiere le funzioni vegetative mediante la captazione di quattro tipi di stimoli: il presente, il distante, il passato e il futuro. In quanto vengono captati questi stimoli producono un tipo o l’altro di risposta. La captazione si realizza mediante la conoscenza sensibile o sistema percettivo [89] . Lo stimolo esterno captato attraverso la vita sensitiva produce una risposta: l’istinto, che è “la tendenza o riferimento dell’organismo biologico ai suoi obiettivi più basici mediato dalla conoscenza [90] ; per esempio la fame o la pulsione sessuale. Si può dire che mediante l’istinto l’animale a) capta o conosce b) obiettivi non modificabili, geneticamente o programmati, con i quali soddisfa le sue necessità vegetative. Tramite la vita sensitiva, l’animale controlla in certo modo le operazioni che portano al suo fine istintivo. Tuttavia il circuito stimolo-risposta in lui non può essere interrotto ma soltanto conosciuto e, in certa misura, regolato.

 

 

La conoscenza sensibile nell’animale interviene nel comportamento, ma non ne è all’origine: c’è un certo automatismo. I fini istintivi, lo ripetiamo, all’animale vengono dati; essi  non sono fini individuali, ma specifici ovvero propri della specie e identici a quelli di qualsiasi altro individuo. L’individuo animale non li sceglie: li riceve geneticamente e non può non dirigersi verso di essi. Una volta conosciuto lo stimolo, nell’animale, la risposta si scatena necessariamente.

 

Riassumendo pertanto le tre caratteristiche essenziali della vita sensitiva, tali come le troviamo negli animali, possiamo così elencarle:

·        Il carattere non modificabile., o “automatico” del circuito stimolo-risposta;

·        L’intervento della sensibilità nello scaturire della condotta;

·        la realizzazione di fino esclusivamente specifici, ossia propri della specie.

 

Un’ultima riflessione che deriva da quanto sopra è la seguente. Se abbiamo detto che negli animali i fini della loro specie, non modificabili e propri del loro istinto, sono sempre già dati, risulterà allora che i mezzi si conoscono solo in presenza dei fini e subordinati ad essi. Gli animali non hanno la capacità di separare i mezzi dai fini. Se i fine a cui tende non è istintivamente percepito, l’animale, per così dire, non si “preoccupa” dei mezzi.

3) Il terzo grado di vita è la vita intellettiva, propria dell’uomo. Qui avviene qualcosa di singolare; si interrompe la necessità o automatismo del circuito stimolo risposta:

 

"Al di sopra degli animali, vi sono gli esseri che si muovono in ordine ad un fine che loro stessi si danno, cosa impossibile da fare se non per mezzo della ragione e dell'intelletto, ai quali corrisponde conoscere la relazione che c'è tra il fine e ciò che conduce ad ottenerlo, e subordinare questo a quello. Pertanto il modo più perfetto di vivere è quello degli esseri dotati di intelletto, che sono a loro volta quelli che con maggior perfezione muovono sé stessi[91]".

 

Le caratteristiche proprie e differenziali di questo grado superiore di vita sono le seguenti:

a) L'uomo sceglie intellettualmente i suoi fini, anche se non tutti, poiché conserva quelli specifici-vegetativi, propri della specie e pertanto di tutti gli individui di essa. Oltre a questi fini specifici, l’uomo da a se tesso altri fini che sono esclusivamente individuali, cioè che altri individui della sua specie non hanno, anche se tutti gli uomini condividono un fine comune ed ultimo: la felicità[92].

b) Nell’uomo,  i mezzi che conducono ad un fine non sono dati,  nemmeno quelli riferiti ai fini vegetativi,  ma bisogna procurarseli (i mezzi scelti per ottenere qualcosa non sempre sono adeguati; in tal caso se ne possono usare altri). C’è pertanto separazione tra mezzi e fini: una volta che i fini sono stati fissati o vengono dati dalla vita vegetativa, bisogna scegliere o inventare anche i mezzi, ovvero il modo di raggiungerli.

La sommaria classificazione sopra esposta dei gradi di vita è molto importante, per questo deve essere ampliata per essere meglio compresa. Pertanto adesso ci concentreremo sulla vita sensitiva così come si da nell’uomo, e dedicheremo il capitolo seguente, alle caratteristiche della vita intellettiva. Dalla comprensione di entrambe otterremo una visione basilare e fondamentale della psicologia umana.

 

3.1.2 Il principio intellettivo della condotta umana

Abbiamo detto che nell’uomo, dotato di vita intellettiva, non tutti gli obiettivi delle sue attività ed il modo di portarli a termine, vengono forniti dalla programmazione filogenetica. Questi sono a carico della scelta e l’apprendimento individuali. Pertanto, dato che l’uomo sceglie e cerca i fini, e prova dei mezzi per questi fini, poiché si propone obiettivi propri e non solo della specie, l’istinto viene in buona parte completato o rimpiazzato dall’apprendimento. Nell’uomo l’apprendimento è molto più importante dell’istinto. La scelta dei fini e dei mezzi e la loro messa in opera, sono in buna parte appresi, imparati. L’uomo, a differenza degli animali, deve imparare quasi tutto quello che fa: camminare, mangiare, parlare, leggere, insomma: vivere.

All’uomo non basta nascere, crescere, riprodursi e morire per raggiungere l’autorealizzazione propria (cosa invece che succede ad una patata o ad un passero). La sua vita non è automatica, né ha solo fini vegetativi, specifici. Ciò che è proprio dell’uomo è la capacità di dare a sé stesso dei fini e di scegliere i mezzi per raggiungerli.  Questo è la libertà: l’uomo è padrone dei suoi fini, perché ha la capacità di perfezionare se stesso raggiungendoli. In quanto egli  è padrone di se è persona[93] (3.2). Questo può anche esprimersi in altro modo:

1)                  Nell’uomo la conoscenza (quella intellettuale, più in concreto) dà inizio al comportamento, ovvero, il comportamento umano autentico è innescato dalla conoscenza intellettuale. Perché? Perché se abbiamo detto che l’uomo sceglie i suoi fini ed i mezzi che ad essi conducono, questa scelta si materializza tramite questa conoscenza: per esempio, cominciare a suonare il sax tenore è una decisione “inventata” , per così dire, dall’intelletto.

2)                  Nell’uomo si rompe il circuito stimolo-risposta e rimane aperto. Questo vuol dire che la biologia umana è “interrotta” dalla vita intellettiva, dall’agire dell’intelletto; potremmo dire che nell’uomo il pensare è tanto radicale e naturale quanto la biologia nell’essere irrazionale, e pertanto questa non precede quello:

 

 

 

Se sono in una città dove l’acqua del rubinetto non è potabile ed ho una gran sete, posso prendere la decisione di non bere, o di bere e correre il rischio di prendere una tossinfezione gastro-intestinale. Il fatto biologico di avere fame non mi dice nulla riguardo al fatto se io debba mangiare un piatto o un altro: per farlo devo decidere tra hamburger, pollo con patatine o qualsiasi altra cosa. Questo vuol dire che nell’uomo  l’appagamento  dell’istinto esige l’intervento della ragione, che può decidere di bere o non bere, mangiare o non mangiare, mangiare una cosa o l’altra. “La natura biologica umana non è praticabile al margine della ragione nemmeno sul piano della mera sopravvivenza biologica”[94]. L’uomo, si è già detto, ha bisogno di imparare a vivere. E per farlo deve ragionare.

3) Quanto sopra ha un evidente corollario: l’uomo se non controlla i suoi istinti tramite la ragione, non li controlla in nessun modo. Gli uccelli migratori hanno un meccanismo biologico che li porta a volare come, verso dove e quanto devono: non hanno bisogno di impararli. L’uomo, invece, deve imparare a moderare con la ragione la forza dei suoi istinti se  non vuole fare danno a se stesso o ad altri, come avviene, per esempio, con l’istinto aggressivo. Se l’uomo non si comporta secondo ragione, i suoi istinti mancano di misura e diventano smisurati, cosa che non avviene agli animali, perché in essi il controllo è incosciente e automatico. Solo l’uomo può trucidare o compiere stragi, per esempio; l’animale uccide o si difende o caccia, etc. ma una volta raggiunto l’obiettivo desiste: è l’istinto che gli dice che la misura è colma. L’uomo se non è ragionevole, è peggiore degli animali, in quanto la forza dei suoi istinti allora cresce in lui  in modo eccessivo, perché non vi è nessuna legge che li moderi. Negli animali, invece, questa legge è istintiva: si da allo stesso modo in tutti gli individui della stessa specie. Questa è una delle conseguenze della libertà.

 

3.1.3  Plasticità delle tendenze umane

Riunendo insieme le osservazioni fin qui fatte, possiamo tracciare uno schema semplificato della percezione umana (parte superiore) e della percezione animale (parte inferiore), ed anche indicare con maggiore precisione le differenze che ciò implica per le inclinazioni umane rispetto a quelle animali. Poiché è differente il modo di percepire nell’uno e nell’altro, è anche differente il modo di tendere (vedi Fig. 2)

Il circuito stimolo-risposta nel caso dell’uomo è differente rispetto a quello animale. Queste sono le quattro grandi differenze:

1) L’uomo può percepire il reale in sé, senza che intervenga necessariamente un interesse fisico, senza stabilire una relazione tra l’oggetto percepito e la propria situazione corporea. L’animale, invece, riporta gli oggetti solo alle sue necessità fisiche, e li percepisce nella misura di tali necessità e appetiti. L’uomo, d’altra parte, non ha una percezione ristretta come quella dell’animale: questo ha alcuni recettori limitati e alcune risposte limitate e adeguate ai recettori, e percepisce l’oggetto solo in quanto conveniente o non conveniente per sé. È specifico dell’uomo, in primo luogo, avere la capacità di percepire le cose senza porle necessariamente in relazione con la sua situazione fisica: in lui il circuito stimolo-risposta è aperto, come abbiamo già detto.

2) Nell’uomo i mezzi necessari per soddisfare i fini biologici non sono predeterminati: tale soddisfazione richiede l’intervento dell’intelligenza che sceglie il modo di raggiungere quei fini istintivi. Le inclinazioni umane naturali non impongono forme determinate di comportamento; per esempio: la cultura gastronomica è differente in ogni popolo, però soddisfa la stessa necessità fisica. È esclusivamente umano in secondo luogo, lo scegliere il modo di soddisfare le proprie necessità istintive.

3) Però, d’altra parte, l’uomo è capace di proporsi nuovi obiettivi, e alcuni di essi non soddisfano necessità vitali né fisiche, ma solo culturali. È esclusivamente umano, in terzo luogo, aggiungere alle proprie inclinazioni vitali finalità più alte, di tipo tecnico, culturale, religioso, ecc. .

4) Le tendenze sono inclinazioni al bene. Le finalità non istintive, verso le quali l’uomo può dirigersi, possono diventare anch’esse un oggetto di tendenza mediante un’inclinazione appresa per ripetizione di atti, chiamata abito. L’abito sarebbe quindi un’inclinazione, non naturale ma acquisita, per realizzare certe azioni. Si è già detto che nell’uomo l’apprendimento (e ora aggiungiamo: e gli abiti da esso derivati) rimpiazza in buona parte all’istinto. Gli abiti possono essere buoni o cattivi, favorevoli o pregiudiziali per la crescita dell’uomo. Esempi di abiti pregiudiziali sono appunto l’uso di droghe o l’alcolismo, abiti (quando non portano al bene ma ne allontanano l’uomo, si direbbero più propriamente vizi) che cercano il piacere dell’eccitazione o dell’evasione che questa euforia provoca. In questo caso si tratta di un abito pregiudiziale che riguarda il modo di soddisfare una necessità del bere che non è esattamente biologica. Per tanto, in quarto luogo, è specifico dell’uomo acquisire abiti mediante un apprendimento che rimpiazza l’istinto.

Dai punti precedenti deriva una conclusione importante: nell’uomo è decisivo l’apprendimento e l’abito che ne deriva, anche a livello sensibile; l’istinto biologico è appena abbozzato, incipiente e limitato. Essere vivo non basta, è necessario imparare a vivere: la qualità della vita dipende dal livello di apprendimento. La spontaneità biologica nell’uomo è insufficiente, molto debole, approda a ben poco, esige un pronto e deciso intervento degli abiti.

Oggigiorno non si accetta facilmente quest’ultima conclusione: si pensa che l’importante è che la forza vitale si manifesti spontaneamente, come se la pura biologia fosse un livello umano in se stesso sufficiente: tuttavia, non c’è biologia umana senza apprendimento, senza abiti e senza cultura[95]. Considerare l’uomo come pura biologia, come puro vivere, è semplicemente un errore, significa non considerare nemmeno la biologia umana, poiché questa ha bisogno dell’apprendimento, della tecnica e della cultura, senza cui l’uomo non è nemmeno biologicamente realizzato. Per comprendere quest’ultima considerazione sarebbe necessario – ma non è fattibile all’interno dei limiti  del nostro lavoro -  parlare dell’educazione e dell’aiuto che l’uomo riceve dall’ambiente familiare e sociale per poter terminare tale apprendimento, per sopravvivere e per essere produttivo.

 

3.2 Considerazioni sull’uso di sostanze stupefacenti nell’attuale momento storico

“E chiese ulteriormente: che cosa è davvero utile all’uomo? Per saperlo, bisogna sapere che cos’è l’uomo”. Sull’onda della domanda di Platone abbiamo indagato a volo d’uccello gli elementi fondamentali che l’osservazione e la ragione ci hanno indicato come i quark dell’agire umano, i mattoni dell’agire libero e responsabile dell’uomo. I presupposti per il raggiungimento del fine naturale: la felicità. Proviamo adesso ad applicare queste nozioni alla dinamica droga-persona e ad analizzare da questo punto di vista – quello antropologico, non quello ideologico, politico o sociologico – la dinamica di tale relazione.

 Per evitare analisi affrettate, e soluzioni, pertanto, dannose, vale la pena tornare sul dato secondo il quale la maggior parte dei giovani inizi il consumo di droga spinta da curiosità e pressione dell’ambiente e non da particolari situazioni limite (povertà, malattia, prostrazione psicologica o disagio esistenziale conclamato). Sostenere, viceversa,  questa seconda ipotesi equivarrebbe a dichiarare un terzo dei giovani occidentali debosciati, instabili, corrotti e saprofiti del sistema sociale già in partenza. Dai dati emersi nella prima parte dello studio riguardanti la diffusione e l’epidemiologia del consumo di droghe leggere[96], le cose stanno proprio al contrario. E’ la droga che riduce i giovani, (potenzialmente felici e realizzati), in  stato di instabilità, corruzione morale, alienazione. Sarebbe il caso di cominciarci a chiedere come mai questo avviene, sotto gli occhi di genitori, amici e formatori,  prima di ripartire, lancia in resta, con la prossima campagna di liberalizzazione o di pubblicità- progresso.

 

3.2.1 Droga, evasione e storia

Sono parecchi ultimamente, i testi pubblicati, i brani musicali, i prodotti della cinematografia che mettono in risalto la capacità che ha l’uomo di vivere fuori o dentro la propria storia personale[97]. Viviamo in un contesto sociale che ci spinge a vivere a “segmenti”, come se quello che faremo domani non avesse nessun legame con ciò che abbiamo fatto oggi; è la sublimazione della libertà intesa come illimitata possibilità di scegliere (utopia lo è per l’uomo; realtà attuale, soltanto in Dio). Quando l’individuo vede che non è così, allora si droga. Si droga per evitare la necessaria consequenzialità dei suoi atti, si droga con la cannabis, se ha i soldi con la cocaina, ma anche in mille altri modi “legali”.

E’ bene pertanto ricordare che è scomodo giocare a fare Dio [98] , quando non lo si è; che la felicità è a portata di mano per ogni uomo, ma a condizione che il suo progetto vitale si sviluppi in condizioni ben precise dal punto di vista storico-esistenziale:

 

“La vita individuale consiste in una sequenza di stati nel tempo. Perché la vita possa riuscire, questi stati non debbono rimanere staccati l’uno dall’altro come negli schizofrenici. Felicità significa armonia, amicizia con sé stesso, e questo presuppone che mi debba essere possibile volere con continuità. Devo poter cominciare oggi qualcosa sapendo che, se non sopravviene nessun imprevisto, domani lo continuerò. E deve essere ancora accettabile per me oggi quello che io stesso ho ritenuto buono. Laddove i nostri stati e i nostri comportamenti sono soltanto funzione di casuali stimoli esterni o di stati d’animo interiori, laddove essi non si fondano sulla considerazione di un ordine obiettivo di valori, ci manca il terreno sul quale noi possiamo raggiungere l’unità, l’accordo con noi stessi. In questo caso però non ci sarà neppure accordo con gli altri[99]”.

 

Sempre in quest’ambito, fa sentire il suo influsso attualmente il venir meno della stabilità nei  rapporti interpersonali familiari. Ricordavamo che l’inizio dell’esperienza del consumo di cannabis, la più diffusa delle droghe tra i giovani, non avviene quando il soggetto è “incontrollato”, dopo i 18 anni o quando vive già fuori di casa. L’inizio è quasi sempre tra i 14 e i 16 anni[100]: età, quindi,  in cui il giovane vive in famiglia e frequenta una scuola. Ci si chiede: ma i genitori, tanto attenti a vagliare usi e costumi degli amici dei figli, come fanno a non accorgersi quelli dei propri pargoli? La droga denuncia pertanto, spesso, la deriva dei rapporti interpersonali all’interno della famiglia. Per evitare ciò, basterebbe che i genitori dedicassero più tempo (quantitativamente e qualitativamente) ai propri figli suscitandone la fiducia e il dialogo. L’ideale sarebbe sentire che “con papà si può parlare di tutto”; allora attraverso circostanze anche delicate, proprie o degli amici, il ragazzo andrebbe incontro ad una profonda maturazione della propria personalità, esperienza e vita.

“A differenza degli animali – aggiunge Spaemann -  gli uomini trasformano sempre anche con il loro agire le condizioni entro cui esso si svolge. È quello che chiamiamo storia. Ma non possono farlo se prima non accettano un quadro dato per il loro agire. Chi non può o non vuole farlo è rimasto ad uno stato infantile. Tra le condizioni date non vi è soltanto il dato esterno del nostro agire, ma anche il nostro essere fatti in un certo modo, la nostra natura, la nostra biografia. Non soltanto la realtà al di fuori di noi è quella che è, ma anche noi stessi siamo in una certa misura quello che siamo senza poterlo cambiare. Certo non presenta una buona scusa chi, avendo fatto del male ad un altro, semplicemente constata: «Sono fatto così». Infatti il modo in cui siamo fatti non è un fattore fisso che determina il nostro agire, ma viene al contrario sempre anche formato dal nostro agire. (...) È importante pensarci perché la vita retta esige tra l’altro la chiara consapevolezza che con tutto quello che facciamo — ogni parola, ogni gesto, ogni lettura, ogni trasmissione televisiva, ogni omissione — facciamo qualcosa di irrevocabile nella formazione di noi stessi. Il significato dell’accaduto può cambiare, possiamo intraprendere una nuova strada, ma niente è più come prima. Il nostro stesso agire assume per noi con il passare del tempo la figura del destino. Chi non lo vuole non può agire. Ma questo non gli è neppure di nessun aiuto, perché anche l’omissione diventerebbe per lui destino”[101].   

Obiettivo di tale maturazione, poi, dovrà essere sempre la coerenza, l’accordo con sé stessi, la tanta agognata autenticità. Ma l’autenticità dice fedeltà ad un origine; pertanto la paternità – fonte dui questa origine -  è fondamentale per il consolidarsi dell’identità e dell’autenticità del singolo e non deve mai venir meno. Allora per il giovane la vita sarà come per i trapezisti: quando sotto c’è la rete – paternità, autenticità, certezza delle proprie origini, sostegno incondizionato al livello dell’essere, non dell’avere o del riuscire – allora si “osa”, ci si lancia nell’avventurosa realizzazione di esercizi mozzafiato provati più volte. E’ l’individuo che riesce ad ascoltare la voce della propria natura, finalmente chiara e squillante: sii te stesso! Genitori capaci di rendere possibili tali esistenze sono promotori di personalità talmente creative da produrre risposte inedite con le proprie vite. Tali figli onoreranno perennemente e ricorderanno indelebilmente tali figure.

Ma se la rete non c’è… tutto è pericolo, insicurezza, frustrazione. L’’esercizio’ lo si conosce, lo si è visto fare, lo si è provato tante volte; ma adesso dall’alto si pensa solo ai rischi, alla figuraccia, alla “pelle”. ‘Trapezzisti’ così pullulano nei licei e nelle università della società occidentale: i “maestri” potrebbero aiutarli; ma non se ne accorgono o giocano a scaricabarile?

 

3.2.2 Droga, felicità e  paura della sofferenza

Un’altra considerazione che aiuterebbe forse i potenziali consumatori di droghe leggere, è che il fallito non è colui che soffre. A volte l’idea del fallito, del vinto, (o il timore di chi-star-per-diventarlo) può sospingere verso illusori orizzonti di autorealizzazione personale. Dapprima si perde la sincerità con gli altri, si tende a mimetizzarsi non volendo far conoscere i propri limiti o insuccessi (quelli che tutti hanno e imparano a conoscere: a scuola, in ambito affettivo, nel confronto con gli altri, nello svolgimento di un compito o una professione, etc.). Poi si tende a non essere più sinceri neanche con sé stessi. Allora si cerca l’evasione, ai aggira l’ostacolo della sofferenza. Non è solo edonismo, frivolezza o superficialità. In ogni caso, qualunque cosa sia, siamo d’accordo, è frutto di una valutazione errata. Questa valutazione però, parte da un presupposto logico, anzi antropologico: la ricerca di senso. Il senso della vita, oltre una certa età, comincia a delinearsi come insopprimibile orizzonte dell’esistere. E’ imperativo il comando che la persona sente “dentro” e che lo spinge a trovare il senso della vita. Ma siccome – sta qui il problema – non si pensa che senso e sofferenza possano andare insieme, quando si trova il secondo è come se si ricevesse l’attestato ufficiale di aver perso il primo; e allora ci si può anche drogare.

Si evade, si tenta di aggirare la sofferenza, non ci si pensa. Ritorniamo all’idea già espressa: è una incoercibile necessità quella che spinge a trovare il senso; questo però è compagno inseparabile dell’amore che lo è della sofferenza:

 

“La felicità è la capacità di provare dolore, adeguatamente, a causa di quello che ci sta più o meno a cuore, potendo ancora consentire all'ordine delle cose che ci stanno a cuore: a quello stesso che ci espone a sofferenze possibili. Questo ordine di preferenze di valore, consentendo a l quale confessiamo la nostra identità profonda, noi lo chiamiamo anche senso[102]”.

                                                                                                                          

Pertanto life goes on, la vita continua, se si mantiene questo giusto ordine di valori. E ciò è sempre possibile. L’uomo piuttosto perde i beni materiali, la vita stessa, ma se lui non vuole, nessuno – nessun evento infausto, nessun nemico – gli porterà via la possibilità di essere sé stesso liberamente. E questo è l’importante, questo rende felici, il fatto che si stia soffrendo può essere sintomo che si sta conquistando la propria inedita maniera di stare nel mondo. Questa realtà sta dentro di noi: non c’è bisogno di drogarsi per affermarla.

Felice è sinonimo di riuscito, pieno, giunto a compimento; e non è un vago sentire, l’ebbrezza del denaro della droga o del potere. L’evidenza di quanto siano lontani l’effimero e il reale in questo campo, è l’origine della nausea dell’uomo sartiano, incapace di riempire questo abisso che impietosamente, tuttavia, si ritrova a dover fronteggiare.

 

"La felicità non è uno stato d'animo, ma una condizione oggettiva. Reale. (…) Felice può essere una cosa, non necessariamente una persona. Una cosa felice è una cosa riuscita. Un discorso, ad esempio. Un'impresa, una prova. Riuscita, o adeguata, conforme al suo scopo: un'espressione è più o meno felice. (...) ma non solo. : felice è in senso ulteriore, una cosa che ha il potere di infondere vita, di "ricreare", di fare attingere anche a noi, anche per poco, a una condizione d'essere più piena, più perfetta. In cui ci sentiamo ‘più vivi’”[103].

                                                                                                                          

Una persona felice ha il potere di infondere vita, di ricreare. Una persona che ha sofferto ed ha amato (e forse ha sofferto perché amava) è capacissima di infondere vita, di ricreare. Quale altro traguardo, quale altra verità, quale altro senso più pieno di questo, più capace di fare vivere intensamente? L’importante dunque non è il soffrire o il non soffrire, ma l’essere sé stesso (verità) comunque (libertà).

 

 

3.2.3 Droga alcool e rapporti interpersonali

Per essere meglio accetto al gruppo, per “smollarsi” e riuscire simpatico alla comitiva o alla ragazza/ al ragazzo, per migliorare le proprie performance interpersonali, il giovane, anche, a volte, si droga.

La realizzazione della persona umana avviene solo nel dono sincero di sé. Questo è un asserto ricco di conseguenze, che costituisce l’approdo  della filosofia personalista del XX° secolo. Questa affermazione, densa di riflessi esistenziali, ci dice anche che frustrare una persona nel dono di sé, vuol dire toglierle per sempre la possibilità di essere felice, di realizzarsi. Quando un individuo vede tarpate le ali del possibile volo (dono) di sé verso l’altro, è capace di commettere qualsiasi assurdità: anche il lasciarsi morire. Pertanto una volta ancora, ciò che si trova alla base di una delle motivazioni del drogarsi, è un dato vero, antropologico. Tuttavia ciò che avviene in realtà – nonostante le “motivazioni” personaliste-relazionali del drogarsi - è proprio il contrario. Ed è a questo livello che si evidenzia la pericolosità – e l’immoralità – dell’uso delle droghe leggere rispetto agli alcolici.

 

“mentre infatti l’uso moderato di questo (alcool) come bevanda non urta contro divieti morali, ed è da condannare solo l’abuso, il drogarsi, al contrario, è sempre illecito, perché comporta una rinuncia ingiustificata e irrazionale a pensare, volere e agire come persone libere. Del resto lo stesso ricorso su indicazione medica a sostanze psicotropiche per lenire in determinati casi sofferenze fisiche o psichiche, deve attenersi a criteri di grande prudenza, per evitare pericolose forme di assuefazione e di dipendenza[104]”.

 

 La droga – secondo gli effetti riportati dagli studi citati prima ai §§ 1.4, 1.5 per la cocaina, e §§ 2.4 e 1.5 per la cannabis - induce nell’individuo una sospensione dell’esercizio della libertà; essa fa si che l’uomo sia, sotto l’effetto della droga, seppure per un tempo limitato, un po’ meno persona; che riponga per qualche momento, per qualche azione, il suo essere libero, volontario e razionale. Questo non è mai ammissibile[105]. Le motivazioni che rendono illeciti l’uso delle droghe pertanto – forse è il momento di riconoscerlo apertamente – non possono essere politiche, ideologiche, religiose o economiche e nemmeno di ordine pubblico. Sono di ordine antropologico. Chiunque stia al governo, l’uomo resta sé stesso; qualunque motivo di convenienza o di quieto vivere, verrà sempre dopo il mio essere uomo e quello dei miei simili. Da questo infatti dipende quello.

 

 

 

 


 


* Membro della Consulta di Pastorale Universitaria, Diocesi di Milano.

 

[1] Si è esclusa, dal presente studio, l’analisi di pubblicazioni sull’Ectsasy in quanto le ricerche sugli effetti di questo tipo di anfetamina sul cervello e sull’intero sistema nervoso sono ancora in corso. Al riguardo esistono solo pareri poco fondati dal punto di vista medico-scientifico, e mancano studi longitudinali a medio e lungo termine. Senz’altro si tratta di una sostanza stupefacente con effetti dannosi per la salute, ma lo studio di questi effetti richiede maggiori e più accurate ricerche. In attesa di dati più approfonditi, provenienti dall’applicazione del primo protocollo per valutare un uso terapeutico dell’ecstasy da parte della Food and Drug Administration americana, rimandiamo al sito della MAPS (Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies): http://www.maps.org/research/mdma/index.html#fdaapproves

[2] Cfr. S. COHEN, "Recent developments in the abuse of cocaine", in Bulletin on Narcotics (1984) vol. II, pp.  3-14.

[3] C. ROSSI,  "A mover-stayer type model for epidemics of problematic drug use", Bulletin on Narcotics, (2001). From surveys conducted among military conscripts, reported in the annual report on the state of the drug problem in Italy for the year 1999, published by the National Focal Point, it appears that, in terms of the reasons for drug use, the two most mentioned factors were curiosity (more than 40 per cent) and peer group pressure (more than 30 per cent)

[4] American Society for Pharmacology and Experimental Therapeutics and Committee on Problems of Drug Dependence, "Scientific perspectives on cocaine abuse", Pharmacologist, vol. 29, 1987, pp. 20-27.

[5] G.G. NAHAS, “The experimental use of cocaine in human subjects”, in Bulletin on Narcotics (1990)

[6] H. Isbell, "Cocaine poisoning", Cecil-Loeb Textbook of Medicine, 11a ed., Saunders Press, Philadelphia, 1963; J. R. Di Palma, "Cocaine abuse and toxicity", American Family Physician. vol. 24, No. 5 (1981), pp. 236-238; A. A. Nanji and J. D, Filipenko, "Asystole and ventricular fibrillation association with cocaine intoxication", Chest,vol. 85, No. 1 (1984), pp. 132-133.

[7] C. Bose, "Cocaine poisoning", British Medical Journal, vol. 1, 1913, pp. 16-17; O. H. Garland, "Fatal acute poisoning by cocaine", Lancet,vol. 2, 1895, pp. 1104-1105

[8] Cfr. C. Van Dyke and others, "Oral cocaine: plasma concentrations and central effects", Science, vol. 100, 1978, p. 211; C. Van Dyke and others, "Intranasal cocaine: dose relationships of psychological effects and plasma levels", International Journal of Psychiatry in Medicine, vol. 12, No. 1 (1982), pp. 1-13; M. W. Fischman and C. R. Schuster, "Cocaine self-administration in humans", Federation Proceedings, vol. 41, 1982, pp. 241-246.

[9] L. Lewin, Phantastic, Narcotic and Stimulating Drugs.- Their Use and Abuse, E.P. Dutton, New York, 1931.

[10] Più specificamente il  summary di un recente studio  sull'argomento  riporta: "The cardiovascular effects of cocaine may culminate in clinical episodes of angina pectoris, myocardial infarction, arrhythmia, and intracranial hemorrhage. To clarify whether or not cocaine causes fatalities by these mechanisms, we studied 24 cases of sudden, apparently natural deaths as a result of coronary arteriosclerosis (15 cases), hypertensive cardiovascular disease (4 cases), and intracranial hemorrhage (5 cases) associated with cocaine use. In 11 cases, cocaine was found in the blood (average concentration: 0.57mg/litre; range: 0.05 to 1.45mg/litre), whereas in the remainder, cocaine or its major metabolite was found in the urine or other tissues. In the majority of [the deceased persons], autopsy disclosed the existence of severe natural disease which could have been exacerbated by the administration of stimulant drugs, including cocaine. These data, and a review of the current medical literature, indicate that cocaine may precipitate the sudden death of an individual with undiagnosed cardiovascular disease. A contributory role of cocaine should be considered in any apparently natural death occurring in a population where cocaine abuse is prevalent"; in  R. F. Mittleman and C. V. Wetli, "Cocaine and sudden natural death", Journal of Forensic Sciences, vol. 32, No. 1 (1987), pp. 11-19.

[11] S. Peng and others, "Cardiac pathology following cocaine abuse", Federation Proceedings, vol. 46, 1987, p. 728.

[12] H. D. Tazelaar and others, "Cocaine and the heart", Human Pathology, vol. 18, 1987, pp. 195-199; S. B. Karch and M. E. Billingham, "Myocardial contraction bands revisited", Human Pathology, vol. 7, 1986, pp. 9-13.

[13] G.G. NAHAS, op. cit.

[14] Cfr. S. Cohen, “Cocaine Today”, American Council on Drug Education, 1981, pp. 1-45.

[15] R. D. Weiss and others, "Pulmonary dysfunction in cocaine smokers", American Journal of Psychiatry , vol. 138 (1981), pp. 1110 – 1112

[16] A. WASHTON, Cocaine Addiction, New York,  Norton, (1989), p. 32.

[17] R. Bieleman and others, Lines Across Europe: Nature and Extent of Cocaine Use in Barcelona, Rotterdam and Turin (Amsterdam, Swets and Zeitlinger, 1993). M. Gossop and others, "Cocaine: patterns of use, route of administration, and severity of dependence", British Journal of Psychiatry, No. 164, 1994, pp. 660-664.

[18] D. Waldorf, C. Reinarman and S. Murphy, Cocaine Changes: The Experience of Using and Quitting (Philadelphia, Temple University Press, 1991). P. Erickson and others, The Steel Drug (Lexington, Massachusetts, Lexington Books, 1987).

[19] M. GOSSOP e al., "Severity of dependence and route of administration of heroin, cocaine and amphetamines", British Journal of Addiction, vol. 87, 1992, pp. 1527-1536; M. GOSSOP e al, "Cocaine: patterns of use, route of administration, and severity of dependence", British Journal of Psychiatry, No. 164, 1994, pp. 660-664.

[20] Cfr. S. COHEN, "Recent developments in the abuse of cocaine"; in Bulletin on Narcotics (1984) vol II, pp.  3-14.

[21] Cfr. S. COHEN, ibid.                                            

[22] T.G. AIGNER, R.L. BLASTER, "Choice behavior in rhesus monkeys: cocaine versus food"; in  Science, vol. 201 (1978), pp. 534 - 535.

[23] Cfr. S. COHEN,op. cit.

[24] N. Donnelly and W. Hall, Patterns of Cannabis Use in Australia, National Drug Strategy Monograph Series No. 27 (Canberra, Australian Government Publication Service, 1994); L. D. Johnston, P. M. O'Malley and J. G. Bachman, National Survey Results on Drug Use from the Monitoring the Future Study, 1975-1993, vol. II: College Students and Young Adults (Rockville, Maryland, National Institute on Drug Abuse, 1994); ID., Ibid., vol. I: Secondary School Students.

[25] Modif. da UNDCP Research Section, “Cannabis as an illicit narcotic crop: a review of the global situation of cannabis consumption, trafficking and production”; in Bulletin on Narcotics (1997).

Fonti: European Monitoring Centre for Drugs and Drug Abuse Addiction, Annual Report on the State of the Drugs Problem in the European Union 1997 (Lisbona, 1997); National Institute on Drug Abuse, Monitoring the Future Study, vol. I (Rockville, Maryland, 1997); Canadian Centre on Substance Abuse, Canadian Profile 1997 (Ottawa, 1997); Centre for Behavioural Research in Cancer, "Australian Secondary Students Use of Over-the-Counter and Illicit Substances in 1996" (Novembre,  1998).

a-  Stima basata sulla percentuale di cannabis rispetto a tutte le altre droghe illegali (92%) secondo l' Australian household survey del 1993.

b-  LSD e altre sostanze allucinogene.

c - Tutte le sostanze (incluse quelle lecite, come la caffeina); il numero tra parentesi si riferisce alla sola  metamfetamina.

d - Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito.

 

[26] W. B. O'Shaughnessy, "On the preparation of Indian hemp and gunjah", Transactions of the Medicine and Physics Society of Bombay, vol. 8, 1842, pp. 421-461.

[27] Y. Gaoni and R. Mechoulam, "Isolation, structure, and partial synthesis of an active constituent of hashish", Journal of the American Chemical Society, vol. 86, 1964; pp. 1646-1647

[28] R. L. Hawks, "The constituents of cannabis and the disposition and metabolism of cannabinoids", in The Analysis of Cannabinoids in Biological Fluids, R. L. Hawks, ed. (Washington, D.C., United States Department of Health and Human Services, 1982), pp. 125-137

[29] A. Ohlsson and others, "Plasma i9-tetrahydrocannabinol concentrations and effects after oral and intravenous administration and smoking", Clinical Pharmacology and Therapeutics, vol. 28, 1980, pp. 409-416.

[30] Si rimanda agli studi: D. S. Kreuz and J. Axelrod, "i9-tetrahydrocannabinol: localization in body fat", Science, vol. 1979, 1973, pp. 391-392; E. Johansson and others, "Prolonged apparent half-life of delta-9- tetrahydrocannabinol in plasma of chronic marijuana users", Journal of Pharmacy and Pharmacology, vol. 40, 1988, pp. 374-375. M. A. Huestis, J. E. Henningfield and E. J. Cone, "Blood cannabinoids II. Models for the prediction of time of marijuana exposure from plasma concentrations of i9-tetrahydrocannabinol (THC) and 11-nor-9-carboxy-i9-tetrahydrocannabinol (THCCOOH)", Journal of Analytical Toxicology, vol. 16, 1992, pp. 283-290.

[31] L. E. Hollister, "Health aspects of cannabis", Pharmacological Reviews, vol. 38, 1986, pp. 1-20. W. Hall, N. Solowij and J. Lemon, The Health and Psychological Consequences of Cannabis Use, National Drug Strategy Monograph Series No. 25 (Canberra, Australian Government Publication Service, 1994); World Health Organization, Cannabis: A Health Perspective and Research Agenda (Geneva, World Health Organization, 1997), WHO/MSA/PSA/97.4.

[32] L. Grinspoon and J. B. Bakalar, Marihuana: The Forbidden Medicine. (New Haven, Connecticut, Yale University Press, 1993).

[33] G. G. Nahas, "General toxicity of cannabis", in Cannabis: Physiopathology, Epidemiology, Detection, G. G. Nahas and C. Latour, eds. (Boca Raton, Florida, CRC Press, 1993), pp. 5-17.

[34] Per ulteriori precisazioni riguardo la metodologia da usare rimandiamo a: B.R. MARTIN, W. HALL Problems of assesing the healt effects of cannabis, in ID., “The health effects of cannabis: key issues of policy relevance”, in Bulletin on Narcotics (1997), vol. I.

[35] W. Hall, N. Solowij and J. Lemon, The Health and Psychological Consequences of Cannabis Use, National Drug Strategy Monograph Series No. 25 (Canberra, Australian Government Publication Service, 1994).

[36] C. Tart, "Marijuana intoxication: common experiences", Nature, vol. 226, 1970, pp. 701-704. A. Weil, "Adverse reactions to marihuana", New England Journal of Medicine, vol. 282, 1970, pp. 997-1000.

[37] A. Weil, "Adverse reactions to marihuana", New England Journal of Medicine, vol. 282, 1970, pp. 997-1000.

[38] G. L. Huber, D. L. Griffith and P. M. Langsjoen, "The effects of marihuana on the respiratory and cardiovascular systems", in Marijuana: An International Research Report, G. Chesher, P. Consroe and R. Musty, eds., National Campaign Against Drug Abuse Monograph Number 7 (Canberra, Australian Government Publishing Service, 1988), pp. 3-18; . R. T. Jones, "Drug of abuse profile: cannabis", Clinical Chemistry, vol. 33, 1987, pp. 72B-81B.

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[41] C. Leuchtenberger, "Effects of marihuana (cannabis) smoke on cellular biochemistry of in vitro test systems", in Cannabis and Health Hazards: Proceedings of an ARF/WHO scientific meeting K. O. Fehr and H. Kalant, eds. op. cit.,  1983, 355-432

[42] A. E. Munson and K. O. Fehr, "Immunological effects of cannabis", in Cannabis and Health Hazards: Proceedings of an ARF/WHO scientific meeting , K. O. Fehr and H. Kalant, eds. op. cit, 1983,  257-354.

[43] Ibid.

[44] L. E. Hollister, "Marijuana and immunity", Journal of Psychoactive Drugs, vol. 24, 1992, pp. 159-164.

[45] A. E. Munson and K. O. Fehr, "Immunological effects of cannabis” op. cit., 1983; L. E. Hollister, "Marijuana and immunity", op. cit., 1992.

[46] R. A. Coates and others, "Cofactors of progression to acquired immunodeficiency syndrome in a cohort of male sexual contacts of men with human immunodeficiency virus disease", American Journal of Epidemiology, vol. 132, 1990, pp. 717-722; R. A. Kaslow and others, "No evidence for a role of alcohol or other psychoactive drugs in accelerating immunodeficiency in HIV-1-positive individuals: A report from the Multicenter AIDS Cohort Study", Journal of the American Medical Association, vol. 261, 1989, pp. 3424-3429.

[47] M. Polen and others, "Health care use by frequent marijuana smokers who do not smoke tobacco", Western Journal of Medicine, vol. 158, 1993, pp. 596-601.

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[49] S. E. G. Fligiel and others, "Pulmonary pathology in marijuana smokers", in Marijuana: An International Research Report , pp. 43-48.

[50] D. P. Tashkin and others, "Heavy habitual marijuana smoking does not cause an accelerated decline in FEV1 with age", American Journal of Critical Care Medicine, vol. 155, 1997, pp. 141-148. D. L. Sherrill and others, "Respiratory effects of non-tobacco cigarettes: A longitudinal study in general population", International Journal of Epidemiology, vol. 20, 1991, pp. 132-137.

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[55] T. Newcombe and P. Bentler, Consequences of Adolescent Drug Use: Impact on the Lives of Young Adults (Newbury Park, California, Sage Publications, 1988).

[56] T. Newcombe and P. Bentler, Ibid.

[57] T. Newcombe and P. Bentler, Ibid.

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[61] D. R. Compton, W. L. Dewey and B. R. Martin, "Cannabis dependence and tolerance production", in Addiction Potential of Abused Drugs and Drug Classes, C. K. Erickson, M. A. Javors and W. W. Morgan, eds. (Binghampton, New York, The Hayworth Press, Inc., 1990), pp. 129-147. R. T. Jones and N. Benowitz, "The 30-day trip?Clinical studies of cannabis tolerance and dependence", in Pharmacology of Marihuana, M. C. Braude and S. Szara, eds. (New York, Raven Press, 1976), pp. 627-642. G. A. Weisbeck and others, "An evaluation of the history of marijuana withdrawal syndrome in a large population", Addiction, vol. 91, 1996, pp. 1469-1478.

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[68] N. Solowij, P. T. Michie and A. M. Fox, "Effects of long-term cannabis use on selective attention?An event-related potential study", Pharmacology, Biochemistry and Behavior, vol. 40, 1991, pp. 683-688. N. Solowij, P. T. Michie and A. M. Fox, "Differential impairments of selective attention due to frequency and duration of cannabis use", Biological Psychiatry, vol. 37, 1995, pp. 731-739.

[69] A. M. G. Campbell and others, "Cerebral atrophy in young cannabis smokers", The Lancet, vol. 2, 1971, pp. 1219-1224.

[70] B. T. Co and others, "Absence of cerebral atrophy in chronic cannabis users: Evaluation by computerized transaxial tomography", Journal of the American Medical Association, vol. 237, 1977, pp. 1229 and 1230. J. Kuehnle, J. H. Mendelson and K. R. David, "Computed tomographic examination of heavy marijuana users", Journal of the American Medical Association, vol. 237, 1977, pp. 1231 and 1232.

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[74] W. Hall, N. Solowij and J. Lemon, The Health and Psychological Consequences of Cannabis Use, National Drug Strategy Monograph Series No. 25 (Canberra, Australian Government Publication Service, 1994).

[75] G. Der, S. Gupta and R. M. Murray, "Is schizophrenia disappearing?", The Lancet, vol. 1, 1990, pp. 513-516.

 

[76] L. Grinspoon and J. B. Bakalar, Marihuana: The Forbidden Medicine. (New Haven, Connecticut, Yale University Press, 1993).

[77] In questa come in altre materie, bisognerebbe evitare l’approccio del tipo: altri lo fanno? molti la considerano adatta? Allora lo è. Un esempio di questo tipo di ragionamento portato avanti dai media è il seguente: “E in Italia? Si è indietro rispetto a questi paesi perché l'utilizzo di farmaci a base di cannabis è praticamente inesistente, forse anche per le implicazioni pratiche e legali implicite nella commercializzazione in farmacia di una sostanza il cui uso è, di fatto, proibito dalla legge che considera la cannabis una droga illegale. Ma emerge anche un altro recente aspetto del pensiero degli italiani sull'argomento, del quale, difficilmente, non si potrà tenere conto. Infatti, in tre diversi e autorevoli sondaggi, rispettivamente di Farmacoeconomia, Datamedia e Corriere della Sera, alla domanda: «l'uso terapeutico della cannabis è lecito?», l'11% ha risposto l'illiceità, il 6%, è d'accordo ma con l'accortezza di non confondere farmacopea con legalizzazione; il 22% è d'accordo in ogni caso”. F.BUDA, Cannabis per malati?, in “Il Messaggero Veneto”, 10-06-2002

[78] B.R. MARTIN, W. HALL, Summary of therapeutic potential, in “Problems of assesing the healt effects of cannabis”,op. cit.,

[79] B.R. MARTIN, W. HALL, ibidem.

[80] Cfr. J. MAKOWER, Woodstock, Sperling e Kupfer, Milano 1992.

[81] ARISTOTELE, Etica a Nicomaco, 1094a 20.

[82] Cfr. Cfr. S. COHEN, "Recent developments in the abuse of cocaine"; in Bulletin on Narcotics (1984) vol II, pp.  3-14; la cui sintesi abbiamo riportato al §1.8 del presente studio.

[83] R. SPAEMANN, Concetti Morali Fondamentali, PIEMME, Casale Monferrato 1993, p. 85

[84] R. SPAEMANN, op. cit.  99.

[85] R. SPAEMANN, Ibid., 67.

[86] Per il presente paragrafo ed il successivo, seguiremo quasi alla lettera: R. YEPES – J. ARANGUREN, Fundamentos de antropología. Un ideal de la excelencia humana. 5° ed. EUNSA, 2001; pp. 21-36; 39-44.

[87] J. VICENTE – J. CHOZA, Filosofía del hombre, ICF-Rialp, Madrid, 1993, 67.

[88] Id. La rilevanza dell’individuo umano rispetto alla specie si deve al fatto che è una persona: cfr. L. POLO, Etica. Hacia una versión moderna de los clasicos, Universidad Panamericana, México 1993, 67-81. Questo spiccare della persona al di sopra della specie biologica è una verità che si andrà esplicitando progressivamente: è la scoperta moderna della libertà individuale: Cfr. R. YEPES- J. ARANGUREN, Fundanmentos, op. cit., 121-123.

[89] Cfr. R. YEPES – J. ARANGUREN, Fundamentos de antropología, op. cit., 30-33.

[90] J. VICENTE – J. CHOZA, Filosofía del hombre, cit., 70.

[91] SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae,  I, q.18, a.3.

[92] Cfr. R. YEPES – J. ARANGUREN, Fundamentos de antropologia, op. cit.; 157-165

[93] ID., Ibid, 70-72

36 J. VICENTE – J. CHOZA, Filosofía del hombre, cit., 73.

[95] Cfr. R. YEPES – J. ARANGUREN, Fundamentos de antropologia, op. cit., 243-250.

[96] Cfr. C. ROSSI,  "A mover-stayer type model for epidemics of problematic drug use", Bulletin on Narcotics, (2001). Così l’A. nel testo originale inglese: “From surveys conducted among military conscripts, reported in the annual report on the state of the drug problem in Italy for the year 1999, published by the National Focal Point, it appears that, in terms of the reasons for drug use, the two most mentioned factors were curiosity (more than 40 per cent) and peer group pressure (more than 30 per cent)”; abbiamo fatto riferimento a questi dati al §1.5.

[97] Tra i libri: cfr J. DICK, Mynority report e altri racconti;  N. HORNSBY, About a boy, High Fidelity, etc.; Tra i film: Trueman show, Mynority report, Blade Runner, A proposito di Henry, La leggenda del pianista sull’oceano, Tra i testi musicali di Pink Floyd, The Police;  tra gli italiani: Siria, Dolcenera, e altri.

[98] Cfr Afterhours, “Niente è per sempre” (2002).

[99] R. SPAEMANN, Concetti Morali Fondamentali, PIEMME, Casale Monferrato 1993, p. 49

[100] Cfr. UNDCP Research Section, “Cannabis as an illicit narcotic crop: a review of the global situation of cannabis consumption, trafficking and production”; in Bulletin on Narcotics (1997); abbiamo presentato questi dati sopra, TAB. 1.

[101] R. SPAEMANN, op. cit.,  p. 117.

[102] Cfr. R. DE MONTICELLI, L'ordine del cuore, Garzanti, 2003, p. 294.

[103] Cfr. R. DE MONTICELLI, ibid, 290.

[104] GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla VI Conferenza internazionale promossa dal Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, 1991, n. 4. Il corsivo è nostro ed evidenzia le motivazioni profondamente antropologiche del discorso del Pontefice. Esso, pertanto, è condivisibile anche da chi non possiede una visione di fede.

[105] Il giudizio si riferisce ovviamente all’ uso “ricreativo” delle droghe: sappiamo infatti che è moralmente lecito l’uso di farmaci ben più forti, come ad esempio la morfina, nel caso in cui sia necessario al paziente. Questo, quando avviene sotto stretto controllo medico, non solo è lecito ma è doveroso e non ha niente  a che vedere con l’accanimento terapeutico. Per altre considerazioni al riguardo Cfr.: L. CICCONE, Davanti al dolore: tra sedazione e valorizzazione; tra analgesici e cure palliative, in ID., La vita umana, ARES, 2000; 305-316.

 

 
     
     
 
 
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