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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 3 - Maggio 2007 
     
 

Recensioni:

G. Savagnone, Metamorfosi della persona. Il soggetto umano e non umano in bioetica, Elledici, Torino (Leumann) 2004, pp. 126

 

 

Questo agile testo di Savagnone rappresenta, di fronte al magma caotico e spesso confuso delle dispute bioetiche, una notevole lezione di lucidità. Il tentativo dell’Autore, che consiste nel sondare le “ragioni” che si celano dietro “la logica dello scontro e della condanna sommaria” da cui spesso il dibattito bioetico è caratterizzato (p. 3), appare, a conclusione della lettura, felicemente riuscito. Non solo perché la tesi del libro conferma l’elementare intuizione che ogni essere umano, fin da quando è custodito nel grembo materno e anche quando è malato e anziano, è sempre “persona” e, dunque, destinatario della nostra cura e responsabilità, ma anche per due semplici ragioni di metodo. La prima è che l’Autore si è imposto, come è nel suo stile, un linguaggio chiaro e accessibile, venendo così incontro a un’esigenza ampiamente diffusa e tuttavia spesso disattesa, dal momento che i problemi della bioetica toccano l’esistenza di ciascun uomo e non solo il lavoro degli specialisti. La seconda ragione consiste nell’atteggiamento di apertura che l’Autore adotta nei confronti di posizioni che egli stesso afferma di non condividere. Che una tale apertura non sia solo dichiarata ma anche, per così dire, praticata, lo si evince dalla stessa struttura del testo. Dopo aver evidenziato la necessità di una riflessione sulla persona (Introduzione) e aver ricordato che le teorie bioetiche rischiano, a volte, di “costruire una realtà parallela” rispetto alle nostre intuizioni morali (capitoli 1 e 2), l’Autore affronta le principali concezioni antropologiche del dibattito (capitoli 3, 4, 5, 6). Ad autori come Engelhardt, Singer, Tooley, Reagan e Rachels i quali, a vario titolo, negano che l’essere umano goda sempre di un diritto alla vita, Savagnone non oppone immediatamente, come pure in certi casi si sarebbe tentati di fare (si pensi alla giustificazione dell’infanticidio), il concetto di “dignità della persona”. Piuttosto, egli lascia emergere, ripercorrendo pazientemente le teorie dei vari autori, non solo le aporie a cui esse conducono ma anche, e soprattutto, le loro conseguenze moralmente controintuitive. In tal modo, la peculiare dignità della vita umana – per esempio rispetto a quella animale, che pure deve essere tutelata – affiora per contrasto, lasciando al lettore la possibilità di appropriarsene criticamente sulla base di un senso morale che già, per quanto confusamente, la riconosce.

Solo a questo punto, dopo aver viaggiato nei luoghi più controversi e provocatori della bioetica contemporanea, Savagnone ritiene di poter riprendere la domanda “che cos’è l’uomo?” (capitolo 7). Una risposta convincente, che cioè sia aderente all’esperienza che facciamo di noi stessi e degli altri, esclude che l’uomo si riduca a una qualsiasi delle sue proprietà, quali l’autocoscienza, il desiderio, la capacità di soffrire e di provare piacere ecc. L’idea di Engelhardt secondo cui l’uomo è persona solo a patto che sia in grado di dimostrarlo attraverso l’esercizio effettivo di una facoltà (p. 35), lungi dal costituire l’esito di una descrizione della persona umana in carne e ossa, equivale a una sorta di ricatto morale nei confronti della sua condizione temporale. Come mostra infatti la più elementare fisiologia e psicologia dello sviluppo, l’essere umano è in continuo divenire e la sua identità ontologica non può dipendere dalla manifestazione, per esempio, della coscienza. È vero piuttosto il contrario, laddove è la manifestazione della coscienza che dipende dall’esistenza della persona, che rimane tale anche se non la esercita ancora – nel caso dell’embrione – o non la esercita più – nel caso del malato in stato vegetativo.

La tesi secondo cui ci sono esseri umani che non sono persone ma semplici organismi biologici, oltre a implicare conseguenze pericolose, come quella di credere che un essere umano abbia diritto alla vita per il grado di sviluppo che ha raggiunto e non per il semplice fatto di esistere come uomo, impone anche un’immagine di uomo, quale è quella dualista, ormai largamente superata. Infatti, le varie facoltà psicologiche, spirituali e relazionali che gli autori citati raccolgono sotto il titolo di “persona”, non fanno riferimento alla corporeità umana. Ma se davvero è così, saremo costretti ad affermare che l’unità tra il nostro corpo e la nostra identità personale, dal momento che l’esercizio effettivo di quelle facoltà non è costante, si realizza solo occasionalmente e a intermittenza, e non costituisce un dato originario. In tal modo, tutti coloro che ritengono che l’embrione non è persona ma sarà persona, sono costretti a ipotizzare che a un corpo geneticamente umano si aggiungerà, mediante una misteriosa sovrapposizione, la qualità di persona.

A questo proposito, Savagnone fa notare come molti degli autori che negano che il feto sia già una persona umana, confondono sistematicamente il concetto di “potenzialità” con quello di “possibilità” (pp. 96-101). L’esito di questa osservazione critica, l’Autore cita qui il filosofo della scienza Evandro Agazzi, non è, come spesso si dice, che l’embrione umano è una “persona in potenza” ma “una persona in atto che, nelle varie fasi del suo sviluppo, è continuamente in potenza per quanto riguarda la piena realizzazione delle sue facoltà e proprietà, ivi compresa la coscienza” (p. 100).

A conclusione della sua indagine sull’umanità del soggetto in bioetica, Savagnone si chiede se ci troviamo di fronte ad una sorta di “eclisse della persona” (capitolo 8). E in effetti, per riprendere un’idea che il filosofo ebreo Martin Buber applicava a Dio, si potrebbe dire che la persona non è del tutto tramontata ma si è solo eclissata. Dunque, rimane. Magari nella fragile forma di un “grido” che chiede un perché, come l’Autore propone suggestivamente mediante il ricorso a figure letterarie e cinematografiche come il mostro di Frankenstein e il replicante di Blade Runner (p. 121). Se ne deve concludere che, in ogni intervento sull’uomo che in nome della scienza o del benessere di altri uomini lo priva del suo carattere di persona, si consuma sempre una drammatica violazione. Tale violazione, spacciata per progresso, segna il trionfo di un mondo in cui nulla ha senso, se non il cieco desiderio di oltrepassare quello che, sperimentato come un limite della propria libertà, si rivela, a uno sguardo più attento, il segreto della sua più profonda vocazione a farsi carico dell’umanità dell’altro.

 

 

                                                                                                                   Luciano Sesta

 
     
     
 
 
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