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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 4 - Settembre 2007 
     
 

 Editoriale

Imprescindibilità della coscienza morale

 

Non c’è problema affrontato dalla bioetica che non chiami in causa la coscienza morale. Se si getta uno sguardo al dibattito odierno ci si accorge, tuttavia, che a essere chiamata in causa è piuttosto la nozione di «autonomia individuale» o di «autodeterminazione», ciò che rischia di focalizzare l’attenzione solo sul momento della libertà di giudizio e di scelta richiesta dalla situazione in cui si è chiamati ad agire. Ma per quanto importanti, la libertà da costrizioni e la capacità di essere legge a se stessi non sono elementi che possano esaurire il problema, tipicamente bioetico, del giudizio morale. E infatti, la presenza di sé a se stessi – propria della coscienza psicologica – e la capacità di giudicare e di scegliere autonomamente (oltre, naturalmente, alla conoscenza del caso di volta in volta in questione) sono condizione necessaria ma non sufficiente per formulare un giudizio sulla moralità dell’atto che ci si accinge a porre. Se l’odierna valorizzazione del principio di autonomia non vuole smarrire la complessità custodita dall’esperienza morale, occorre dunque ripensare proprio la classica nozione di «coscienza morale». Qui valgano, in proposito, alcune considerazioni preliminari.

Se, in quanto giudizio, la coscienza ha una natura propriamente razionale, in quanto giudizio morale, la razionalità della sua natura è non già calcolante o discorsiva e dimostrativa, bensì immediata, spontanea e intuitiva. Non a caso Rousseau l’ha paragonata all’istinto allorché l’ha descritta come «guida sicura di un essere ignorante e limitato, ma intelligente e libero; giudice infallibile del bene e del male». E Kant sembra commentare proprio questo concetto quando osserva che un uomo che ha compiuto un atto contrario alla legge morale può sforzarsi quanto vuole nell’attribuirlo alle circostanze, e, dunque, nel ritenersi vittima «innocente» della «necessità naturale»; «tuttavia egli sente che l’avvocato che parla in suo vantaggio non può far tacere in lui l’accusatore, se egli è conscio che, nel tempo che commise l’azione cattiva, egli era in sé, cioè aveva l’uso della sua libertà». E quand’anche egli spiegasse la propria mancanza «con una certa abitudine cattiva contratta per avere a poco a poco trascurato l’attenzione su se stesso […], ciò, tuttavia, non lo può salvare dalla disapprovazione e dal rimprovero che egli fa a se stesso».

            La voce della coscienza è quindi imperativa e inesorabile, sia quando ci obbliga a seguire il bene e a evitare il male, sia quando traduce l’effetto della nostra azione nell’approvazione o nel rimorso.

            E tuttavia, se seguire i dettami della coscienza potesse garantire la moralità di un atto, ciò significherebbe che essa è sempre infallibile. Ma in tal caso non si spiegherebbero i differenti giudizi che due persone esprimono sullo stesso problema e tanto meno le variazioni di giudizio che su quel problema vengono esperite da una stessa persona in momenti diversi. E anzi si arriverebbe a legittimare qualsiasi atto, persino un genocidio, solo in quanto compiuto in nome della propria coscienza.

            Ne discendono due conseguenze: 1) il criterio che rende una coscienza degna d’essere obbedita va ricercato oltre la coscienza stessa, in una legge non scritta, ma in essa inscritta e pur trascendente poiché non è l’uomo a darsela; 2) la coscienza non è un oracolo chiuso nella sua compiutezza, bensì un organo in costante formazione.

            Quanto al primo punto, il criterio va rinvenuto nella conformità dell’atto alla retta ragione, a una ragione, cioè, non subordinata a interessi limitati e parziali, bensì aperta all’onnidimensionalità dell’essere, a un assoluto assiologico che la ragione percepisce come termine di riferimento implicito nella sua stessa attività giudicante.

            Quanto al secondo punto, il vero problema della coscienza è non tanto quello d’imbattersi nel dubbio o nell’errore, quanto piuttosto quello di ottundere se stessa sino a smarrire la propria capacità di giudizio. E non c’è compito più arduo di quello che consiste nel mantenere la coscienza vigile e attenta precisamente nei confronti del suo stesso esercizio morale. Si tratta infatti di sciogliere l’aporia per la quale una coscienza ottusa dovrebbe rinvenire in se stessa le risorse capaci di renderla avveduta ed accorta fino al punto di tutelarla dal rischio del proprio fatale smarrimento.

Giuseppe Modica

 

 

 

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Apre questo nuovo numero un contributo di Fulvio Di Blasi, che propone una riflessione antropologica sulle dimensioni affettive della sessualità tra i giovani, coniugando, come è nello spirito della rivista, approfondimento teorico e considerazione degli aspetti più pratici ed esistenziali della questione. A seguire, Pietro Cognato offre un’ampia e articolata sintesi del dibattito bioetico sul concetto di vita e sul suo valore etico. Infine, una nota dello scrivente sui rapporti tra medicina e filosofia. Oltre al consueto spazio dedicato alle Recensioni, alla Rassegna Stampa e alle Novità librarie, questo nuovo numero ospita anche una sezione riservata a Commenti e Reply, al fine di rendere più fecondo il confronto critico e il dialogo, anche tra gli stessi studiosi che pubblicano su “Questioni di Bioetica”.  

 

G. M.

 
     
     
 
 
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