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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 5 - Gennaio 2008 
     
 

Recensioni:

M. Reichlin, Aborto. La morale oltre il diritto, Carocci, Roma 2007, pp. 233

 

 

Le implicazioni morali intorno al tema scottante sull’inizio della vita umana da qualche tempo a questa parte animano un dibattito che sembra non avere fine. Sulla carta stampata e sui mezzi di comunicazione di massa la riflessione bioetica di inizio vita (non di meno anche quella di fine vita) sembra, ormai, essere patrimonio di tutti, non solo nel senso che nessuno è escluso dall’interrogarsi sul mistero della vita, ma soprattutto che nessuno si sente escluso dalla possibilità di offrire una soluzione al punto di domanda centrale: quando ha inizio la vita umana e da qui il dovere di non sopprimerla? Se per un verso la partecipazione appassionata su una problematica del genere palesa una riappropriazione della capacità che ognuno ha di esercitare la “facoltà di giudizio” senza l’ausilio di un argomento d’autorità, dall’altro verso si perde di vista la specificità di competenza del filosofo e/o teologo della morale, che possiede tutte quelle conoscenze che gli permettono di sgomitolare una riflessione “specificamente” morale su un contesto operativo senza confusioni interdisciplinari e transdisciplinari. Infatti, proprio sulla problematica bioetica di inizio vita  (ma anche su tutta la problematica etica) non è raro trovare “riflessioni non morali” su tematiche morali, così come non è raro trovare dei professionisti della morale che seguono metodologie di altre discipline. Sia nel primo che nel secondo caso dal punto di vista metodologico viene equivocata la specificità assiologica della riflessione morale, o riducendola alla sua dimensione descrittiva o sostituendola con il diritto. Ebbene, in questo contesto ma stavolta nella direzione di una riflessione “eminentemente” morale su un tema che prima di tutto è etico e solo dopo giuridico, arricchisce la pubblicistica bioetica il preziosissimo volume di M. Reichlin sulla questione della interruzione volontaria della gravidanza.

È proprio alla luce di questo scenario che stritola la riflessione etica tra i non moralisti che fanno i moralisti e i moralisti che fanno i non moralisti che è nostra intenzione segnalare quest’ultima fatica del filosofo della morale M. Reichlin, docente presso la facoltà di filosofia dell’Università Vita-salute San Raffaele di Milano. L’autore offre un contributo che vuole essere tutto etico nella direzione di una estrema attenzione alle caratteristiche specifiche della disciplina etica, trattando la problematica dell’aborto come un professionista della morale. Egli, proprio in forza di questa attenzione, smaschera il vero significato di tutte quelle teorie ed impostazioni del discorso morale che si muovono nella direzione di negare all’etica qualsiasi possibilità di ancorarsi a delle fondamenta di tipo assiologico. Il volume si costituisce di sei capitoli (in realtà i capitoli sono sette, ma l’ultimo tira solo le conclusioni) abbastanza corposi e fitti, che non permettono al lettore alcuna distrazione, ma che lo richiamano ad un’attenzione meticolosa al fine di seguire il processo argomentativo.

 Le tesi esposte e analizzate da Reichlin (tutte di matrice anglosassone) sono accomunate dall’interesse di stabilire una o più soglie significative che stabiliscono un passaggio fondamentale: da un ente che non ha il diritto alla vita e/o al quale non si riconosce uno status morale ad un ente che acquisisce il diritto alla vita e/o uno status morale ovvero uno stato di considerabilità morale tale da procacciarsi il diritto a vivere. Queste soglie significative che determinerebbero il passaggio fondamentale suddetto oscillano tra quelle che vertono sull’autocoscienza a quelle che vertono sulla sensibilità, i cui sostenitori sono, tanto per citarne alcuni, Tooley, Sumner, Steinbock, ecc… (cap. 2). A questi criteri Reichlin oppone l’argomento di potenzialità, che non vede né nell’autocoscienza né nella sensibilità delle soglie significative di passaggio. Al contrario, si sostanzia di una continuità ontologica tra feto, embrione, bambino, adulto, individuando così solamente la soglia tra l’inesistenza della novità biologica e l’esistenza della novità biologica scaturita dalla fusione dei nuclei dei due gameti sessuali (cap. 3). Alla tesi che l’essere umano ha diritto al rispetto e alla vita solo quando è persona, M. Reichlin oppone la tesi secondo cui l’embrione è persona in quanto è un essere umano. Questa tesi fonda la sua plausibilità innanzitutto nel considerare assolutamente artificiosa e pretestuosa la netta distinzione tra persona ed essere umano e in secondo luogo nell’evidenziare più di quanto sia già evidente la rilevanza morale della specie. La distinzione tra persona ed essere umano è assolutamente controintuitiva: se un embrione non diventa un bambino muore e non può diventare altro e non potendo diventare altro, non può che essere quello che solo può essere da vivo ovvero un bambino, quindi un essere umano. Ciò significa che persona è un concetto filosofico che «indica ciò che un individuo non può cessare di essere senza cessare di esistere» (p. 108). Dunque, l’alternativa non è tra essere umano e persona ma tra essere umano che è già persona e il non esserlo che equivale a non essere mai esistito o a non esistere più. Il passaggio da essere umano a persona non è estrinseco, al contrario è dinamicamente intrinseco. Niente dall’esterno come i concetti confezionati di autocoscienza, interesse o sensibilità possono segnare un passaggio ontologico, semmai è la continuità ontologica che permette lo sviluppo di queste tre capacità o caratteristiche. Questa argomentazione contro le tesi cosiddette funzionaliste o attualiste del concetto di persona è perfettamente inquadrabile come tesi sostanzialista del concetto di persona ed ai concetti di autocoscienza, interesse e sensibilità oppone quello di potenzialità (cap. 4).  Nel merito della discussione tra tesi della fecondazione e tesi dell’impianto, entrambi concorrenti a stabilire quando si costituisce quell’individuo tale da avere quella “forma/potenzialità” che indirizza il suo sviluppo, Reichlin avalla la tesi della fecondazione a seguito della quale si realizza una prima definizione del patrimonio genetico del nuovo individuo, sebbene si attivi solo il processo che dà luogo al pronucleo maschile non trovandoci così ancora di fronte alla prima cellula del nuovo individuo, ovvero lo zigote. Nonostante ciò, la potenzialità di cui l’embrione dispone a partire dal momento della fecondazione non è semplice possibilità, ma preordinamento ed orientamento di sviluppo precontenuto verso un esito specifico. La possibilità di svilupparsi fino a diventare un essere umano maturo non è uno tra i possibili esiti, ma lo specifico risultato cui l’intero suo essere è intrinsecamente orientato. Se ciò non dovesse realizzarsi l’embrione non mostrerebbe di essere altro, ma cesserebbe di esistere in quanto tale (cap. 5).

Contro l’aborto, dunque, il nostro autore depone l’argomento di potenzialità che si regge su un più profondo argomento: l’essere umano come persona e viceversa. Ma, audacemente Reichlin non si sottrae alla realtà di un conflitto mai evitabile ovvero il diritto alla vita dell’embrione (sempre se le argomentazioni fin qui addotte sono accettabili e ragionevoli, per tale motivo il diritto rimane un’ipotesi) versus il diritto della madre alla gestione del proprio corpo (tale diritto questa volta sembra più effettivo del diritto dell’embrione a vivere e pertanto non necessiterebbe di tanto sforzo argomentativo) (cap. 6).

La visione etica che soprassiede a tutta quanta la riflessione è “l’etica del rispetto per le persone”, principio etico fondamentale che M. Reichlin ha già avuto modo di fondare, esplorare ed offrire ai lettori nel suo precedente lavoro sull’eutanasia, L’etica e la buona morte. L’impostazione non muta e la continuità ideale tra le due opere è evidente nell’insistere sulla rielaborazione in un contesto teorico di derivazione kantiana del guadagno riflessivo acquisito dal personalismo. Prestando volutamente più attenzione in seno all’etica kantiana al rispetto dell’umanità come fine in sé rispetto alla formalità delle massime, Reichlin recupera la fecondità del pensiero kantiano in ordine alla morale lasciandosi alle spalle le obiezioni di formalità che esso da Hegel in poi non riesce ad evitare. Il rispetto, così, per la capacità di vivere come un agente razionale è l’incondizionato per ogni altro precetto morale, è un fine autosussitente. Il “punto di vista morale” si produce ordinariamente solo nella coscienza degli esseri umani, pertanto essi sono gli unici capaci di comportarsi moralmente perché posseggono la capacità di scelta.

 Ciò è per chi scrive profondamente condivisibile, ma lo sarebbe molto di più se l’autore ammettesse chiaramente che, in ultima analisi, il suo modo di argomentare è teleologico e non deontologico, perché assumere il principio dell’umanità  fine in sé e non mezzo come fondamento dell’etica kantiana anziché la formalità delle massime significa fondare teleologicamente la condotta cui si è moralmente tenuti nei rapporti con gli altri e nei confronti di se stessi, mostrando come in Kant ciò sia non del tutto coerente con la sua teoria generale sulla formulazione delle norme. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che Reichlin ammetta l’accettazione dell’aborto «solo nei casi di pericolo per la vita della madre, di serio pericolo per la sua salute e nel caso di violenza sessuale» (pag. 172). Anche se c’è da precisare che la teleologia non mette sullo stesso piano i due casi citati, perché se nel primo vi è la probabilità di un rapporto di causa e di effetto tra la cessazione di vita della madre e la cessazione di vita dell’embrione, nel secondo la violenza sessuale, per quanto sia un caso-limite, non giustifica nei termini di causa ed effetto la soppressione del nascituro. Sebbene l’autore precisi che la sua prospettiva possiede una concezione teleologica, perché l’etica del  rispetto per la persona non elimina la nozione di fine (pag. 17), poi in ultima analisi in Reichlin prevale una concezione distorta della pista teleologica in base ad un concetto “effettuale” di conseguenze e non “valoriale”, a seguito della quale egli deve escluderla dalle piste etico-normative che garantiscono la incondizionatezza della norma “non uccidere”. Giungendo in tal modo a giustificare la sua incondizionatezza in “senso simbolico” e la sua non condizionatezza (le famose eccezioni alla norma) in “senso materiale” (pag. 31).

Solo quando si cominceranno a concepire le conseguenze di un’azione non in termini negativi, estrinseci e “cosalistici”, bensì in termini di valori da realizzare e di disvalori da evitare, allora non risulterà così inadeguata l’argomentazione teleologica anche per tutte quelle norme tradizionalmente fondate deontologicamente e non ci si sentirà costretti ad utilizzare strategie linguistiche poco chiare come “il senso simbolico” e “il senso materiale” della incondizionatezza di una norma.

 

 

Pietro Cognato

 
     
     
 
 
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