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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 5 - Gennaio 2008 
     
 

Italia: i nuovi "Manifesti di bioetica"

Settembre 2007. Il 21 settembre, su “Europa”, è apparso un Manifesto, firmato da alcuni filosofi cattolici e laici, dal titolo “Una ragione pubblica per la bioetica”. L’obiettivo del Manifesto, rivolto principalmente anche se non esclusivamente al nascente Partito Democratico, è quello di mettere a punto «La definizione di un metodo di discussione sui problemi inerenti la vita e la scienza [...] nell’intento di contribuire a superare contrapposizioni troppo rigide e costituire la base per interventi legislativi più ampiamente condivisi». Spesso, infatti, «Si assiste nel nostro paese alla costante rincorsa a “piantare una bandiera” sulle principali questioni bioetiche [...] senza che si esibiscano le ragioni pubblicamente rilevanti che dovrebbero sostenere le scelte che valgono per tutti i cittadini; si cerca piuttosto di ottenere una “vittoria” numerica sulle opinioni differenti». Così, «Per uscire dalla situazione di stallo che caratterizza il dibattito italiano, è utile riferirsi a quanto scrive John Rawls nel saggio intitolato Un riesame dell’idea di ragione pubblica (1997). La ragione pubblica è quella di cui dovremmo far uso nel confronto e nel dibattito civile e politico, quindi anche quando dobbiamo affrontare problematiche di natura propriamente etica e bioetica. L’intento pratico della ragione pubblica fa sì che essa si basi sui criteri della ragionevolezza (cioè della razionalità in condizioni limitate) e della reciprocità tra cittadini liberi ed eguali». Insomma, secondo il Manifesto «Non si tratta di far prevalere una certa concezione dell’assetto sociale ottimale o della più perfetta forma di vita, bensì di definire le basi essenziali del rispetto di ciascuna persona nei differenti ambiti». Ed è proprio «il principio del rispetto» che può costituire un primo elemento di consenso pubblico, che in ambito bioetico «si può tradurre in alcuni diritti fondamentali: il diritto all’integrità, il diritto alle cure e il diritto al rifiuto delle cure [...] Questi diritti di carattere generale offrono una base ragionevole per la discussione pubblica su questioni bioetiche più determinate». Hanno firmato il Manifesto: Enrico Berti, Laura Boella, Antonio Da Re, Roberta de Monticelli, Alessandro Ferrara, Sebastiano Maffettone, Claudia Mancina, Roberto Mordacci, Massimo Reichlin, Roberta Sala, Salvatore Veca, Corrado Viafora, Carmelo Vigna.

Come era prevedibile, il Manifesto “Una ragione pubblica per la bioetica” ha suscitato un notevole dibattito. Dopo aver apprezzato le buone intenzioni dei firmatari del Manifesto, nel suo articolo Bioetica: bel “Manifesto” ma con omissioni (“Avvenire” 27 settembre 2007), Francesco D’Agostino ha sottolineato la necessità di tenere distinta la bioetica dalla ragione pubblica, evitando di confondere il piano della verità morale con quello dell’opportunità politica. Si fa notare, infatti, come l’uso della ragione pubblica non sia capace di generare consenso, in bioetica, se non a prezzo di un’astrazione, quale è quella di un vago principio del rispetto delle persone. Cosa significa infatti “rispettare la persona” di fronte all’aborto? O all’eutanasia? È chiaro che su questi problemi c’è un disaccordo che non è facilmente componibile. Come risolvere allora i conflitti che sorgono in bioetica? Secondo D’Agostino ciò è possibile in due modi. «In primo luogo accettando la volontà democratica della maggioranza, con assoluta onestà, ma nella consapevolezza che si tratta sempre di un’accettazione provvisoria e ricorrendo nei casi estremi all’obiezione di coscienza. In secondo luogo riflettendo che le contrapposizioni bioetiche possono apparire insolubili nell’immediato o nel breve periodo, ma non è detto che debbano restare tali per sempre: dibattiti, testimonianze, riflessioni, nuove prese di coscienza possono scioglierle o riformularle in modo del tutto nuovo. Non sta a noi prevedere i problemi bioetici del futuro; a noi compete solo combattere oggi la battaglia bioetica che riteniamo giusta, nel pieno rispetto di chi la pensa diversamente da noi, accettando con semplicità di restare eventualmente in minoranza, ma anche e soprattutto rifiutandoci di negoziare su ciò che ci appare non negoziabile. Citando Kant (per evitare ogni accusa di dogmatismo religioso), ricordo che su ciò che ha un prezzo si può sempre trattare, mentre su ciò che ha una dignità non si deve trattare mai».

Novembre 2007. Durante il Convegno nazionale "Manifesto di bioetica laica", organizzato dalla Consulta Torinese per la laicità delle Istituzioni, tenutosi il 25 novembre, è stato presentato il Nuovo Manifesto di Bioetica Laica, sottoscritto da alcuni dei più qualificati esponenti della bioetica laica italiana. Fin dai primi paragrafi il testo prende posizione sui limiti che l’etica può imporre al progresso scientifico. Si legge: «è ingiustificato porre alla ricerca scientifica limiti pregiudiziali in nome di un generico e difficilmente quantificabile principio di precauzione» e più avanti: «alla ricerca scientifica riconosciamo il valore intrinseco che deriva dal suo contributo al miglioramento delle condizioni della vita umana». Così, per esempio, si ritiene che gli «ostacoli frapposti alla contraccezione di emergenza (la c.d. pillola del giorno dopo)» sono «dei veri e propri attentati al diritto all’autodeterminazione delle donne e un danno per il paese» e più avanti si denuncia «una situazione analoga circa il ritardo applicativo delle nuove modalità di aborto terapeutico (pillola Ru486)». A proposito della ricerca sugli embrioni, leggiamo: «il divieto imposto alla ricerca sulle cellule staminali embrionali rischia di isolare il nostro paese dalla ricerca scientifica internazionale e di rendere più difficile o oneroso accedere alle risorse terapeutiche che ne possono derivare (ad esempio attraverso la cosiddetta ‘clonazione terapeutica’)». Più avanti il Manifesto si occupa anche della legge 40, denunciando in particolare il divieto posto alla “diagnosi pre-impianto” che invece potrebbe, secondo i sottoscrittori del Manifesto, “salvaguardare la salute del nascituro”. Il Nuovo Manifesto di bioetica laica si conclude con le seguenti parole: «La bioetica laica è parte di un impegno per una società in cui, oltre allo sviluppo dell’accesso alla conoscenza (ed in particolare a quella scientifica) inteso come uno dei nuovi diritti di cittadinanza, cresca lo spettro dei modi di vita possibili e diminuiscano le sofferenze dovute all’imposizione di un certo atteggiamento di pensiero, piuttosto che di un altro, soprattutto per una società in cui nessuno possa imporre divieti ed obblighi in nome di un’autorità priva del consenso delle persone sulle quali pretende di esercitarsi». Tra i promotori del Manifesto troviamo Maurizio Mori, Patrizia Borsellino, Gilberto Corbellini, Emilio D’Orazio, Carlo Flamigni, Mariella Immacolato, Eugenio Lecaldano, Claudia Mancina, Demetrio Neri, Mario Riccio, Sergio Rostagno, Gianni Vattimo e Carlo Augusto Viano.

Riportiamo, a seguire, il commento di Bruno Mastroianni, Il nuovo Manifesto di bioetica laica (http://www.documentazione.info/article.php?idsez=5&id=529): «Sembra che in questo Manifesto manchi prima di tutto - ancora prima delle perplessità etiche che suscitano alcune sue posizioni - quel salutare atteggiamento del “dubbio metodico” che dovrebbe ispirare chi fa professione di laicità ed è contrario ad ogni forma di dogmatismo». E infatti, per quanto riguarda la Ru486, «il manifesto ignora le molteplici perplessità scientifiche che gravitano attualmente attorno all’utilizzo della ru486. A più riprese il “New York Times”, giornale laico e liberal, si è occupato di quelle allarmanti morti a causa del farmaco (15 donne finora solo negli USA) e dei vari disturbi provocati dallo stesso su altrettante pazienti (cfr. http://topics.nytimes.com/top/news/health/diseasesconditionsandhealthtopics/mifeprex_ru486_drug/index.html?s=newest&). D’altronde anche durante la sperimentazione negli Stati Untiti si registrarono diversi casi di emorragia dovuti alla ru486, con 4 donne che dovettero ricorrere d’urgenza a trasfusioni per salvarsi la pelle. Anche la figlia del presidente del Comitato nazionale di bioetica francese è stata vittima della horror-pill come l’ha definita il “Times” a metà ottobre scorso (cfr. http://www.timesonline.co.uk/tol/comment/columnists/india_knight/article2652747.ece).
Insomma non teorie morali ma fatti e dati, che certo dovrebbero essere approfonditi, ma che almeno dovrebbero far reagire un illuminato laico con un atteggiamento di grande prudenza. Eppure nel manifesto questa prudenza sembra non esserci». A proposito della ricerca sulle cellule staminali embrionali, «anche qui gli autori del manifesto mostrano di non conoscere gli ultimi sviluppi scientifici: le riviste Science e Cell hanno recentemente pubblicato due studi, uno americano l’altro giapponese, in cui finalmente gli scienziati per vie diverse sono riusciti ad ottenere cellule staminali senza usare embrioni (cfr. http://www.timesonline.co.uk/tol/life_and_style/health/article2908408.ece). La scoperta scientifica è talmente promettente che ha fatto fare marcia indietro a Ian Wilmut, il padre della pecora clonata Dolly, grande sostenitore della clonazione terapeutica e della sperimentazione sugli embrioni. Al “Daily Telegraph” il professore ha dichiarato che sposterà la sua attività nella nuova direzione di ricerca, più promettente e priva di controversie etiche. Wilmut non è certo l’ultimo arrivato eppure, in nome della scienza, ha cambiato idea. D’altronde è noto che da 10 anni le ricerche sulla clonazione non hanno dato risultati in termini di applicazioni terapeutiche, tanto che negli Stati Uniti numerosi finanziatori stanno rivedendo la loro politica di sostegno dei progetti (http://www.telegraph.co.uk/earth/main.jhtml?xml=/earth/2007/11/16/scidolly116.xml)».
Per quanto riguarda le critiche mosse al divieto di diagnosi pre-impianto, «anche in questo caso basterebbe informarsi: lo scorso ottobre a Washington i membri della American Society for Reproductive Medicine, tra le più autorevoli e rappresentative Oltreoceano, si sono espressi nettamente contro la tecnica di diagnosi pre-impianto dello screening che negli ultimi otto anni ha dimostrato nei fatti la sua inconsistenza (come riportato anche dalla rivista Nature 445, 479-480, 1 February 2007, http://www.nature.com/nature/journal/v445/n7127/full/445479a.html). Gli scienziati, non i membri del movimento pro-life, dichiarano che la tecnica non si dimostra sufficientemente attendibile e anzi aumenta le possibilità di danni al nascituro». Questi sono solo alcuni esempi, presi dal Manifesto, che mostrano secondo Mastroianni «come, anche di fronte a fatti e dati, c’è una certa coltre ideologica che non viene scalfita: altro che “generico e difficilmente quantificabile principio di precauzione”».
Sull’idea, poi, che “organizzazioni religiose” possano “imporre” per legge divieti e obblighi a chi non li condivide si rimane perplessi. In un sistema democratico, infatti, nessuno può imporre nulla a nessuno. Tutto passa attraverso il libero gioco del voto, della preferenza e della dialettica politica. Se dunque esiste una determinata legge, questa legge non esiste in virtù di un’autorità religiosa, ma in virtù dell’autorità politica dello Stato, riconosciuta da tutti i cittadini. E quando una legge dello Stato esprime maggiore vicinanza a una delle parti in causa, questo non avviene perché è stata “imposta”, ma solo perché è stata sostenuta dalla maggioranza (parlamentare o popolare, come nei referendum). Descrivere come un’”imposizione” le leggi che non si condividono, come hanno fatto gli estensori del Manifesto, è pertanto un’azione anti-democratica e priva di laicità. Così facendo, infatti, si cerca di delegittimare il punto di vista che ha avuto maggiori consensi, cercando al tempo stesso di imporre il proprio punto di vista senza doverlo confrontare democraticamente con quello espresso dalla maggioranza.

 
 
 
 

Italia: pillola del giorno dopo e obiezione di coscienza

Ottobre 2007. Intervenendo al 25° Congresso Internazionale dei Farmacisti Cattolici, Papa Benedetto XVI, dopo aver chiesto ai farmacisti, nel loro ruolo di «intermediari tra medici e pazienti», di far conoscere «le implicazioni etiche dell’uso di alcuni farmaci», ha aggiunto che «In questo campo non è possibile anestetizzare le coscienze, per esempio circa gli effetti di molecole che hanno lo scopo di evitare l’annidamento di un embrione o di cancellare la vita di una persona». Il riferimento, piuttosto evidente, è alla cosiddetta «pillola del giorno dopo», la «Norlevo». In effetti la Norlevo non è soltanto un contraccettivo d’emergenza, come viene spesso detto, ma anche un abortivo, visto che nel foglietto illustrativo del farmaco si legge che esso può agire anche “per impedire l’impianto” dello zigote. Per questo il Papa, rivolgendosi ai farmacisti, ha detto che l’obiezione di coscienza «è un diritto che deve essere riconosciuto alla vostra professione, permettendovi di non collaborare, direttamente o indirettamente, alla fornitura di prodotti che hanno per obiettivo scelte chiaramente immorali, come per esempio l’aborto».

L’Associazione delle ditte farmaceutiche (Federfarma) e il Ministro della Salute Livia Turco hanno criticato il Pontefice, mentre l’Ordine nazionale dei farmacisti, l’Unione cattolica dei farmacisti italiani (UCFI) e il Movimento per la Vita (MpV) hanno ribadito il diritto all’obiezione di coscienza nei confronti di farmaci che potrebbero procurare l’aborto (come appunto la Norlevo). Sulla questione si è pronunciata anche la Federazione degli ordini dei farmacisti italiani (Fofi) dicendosi pienamente d’accordo con quanto dichiarato dal Papa e auspicando una precisa regolamentazione in merito. In un comunicato pubblicato sulla pagina del proprio sito web, la Fofi ha spiegato che la “normativa attuale non prevede l’obiezione di coscienza per i farmacisti, i quali, pertanto, non possono rifiutarsi di dispensare i farmaci richiesti dal cittadino, qualsiasi essi siano”. Ma proprio per questo, aggiungono, “i farmacisti italiani ribadiscono la loro adesione all’appello del Pontefice, sollecitando il Governo e il Parlamento a un intervento legislativo che regolamenti la delicata questione in via definitiva”. A questo proposito il dottor Piero Uroda, Presidente dell’Unione cattolica dei farmacisti italiani (UCFI), ha spiegato che “la legge a cui si fa riferimento è entrata in vigore nel 1938 quando non venivano venduti farmaci abortivi e l’interruzione volontaria di gravidanza era punita”. Nel dibattito è intervenuto anche l’on. Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita, il quale ha precisato che “i farmacisti hanno il diritto a rifiutarsi di commercializzare farmaci abortivi”. “Infatti – ha continuato Casini – nessun caso tra i molti in cui si è tentato a colpi di magistratura di imporre a un farmacista di vendere il Norlevo è mai neppure arrivato in aula”. Il Presidente del MpV ha quindi spiegato che “la questione riguarda unicamente la Pillola del giorno dopo, visto che la Ru486 – ammesso che venga mai utilizzata in Italia – avrà un uso esclusivamente ospedaliero e quindi non chiama in causa le comuni Farmacie”. Mentre, ha aggiunto, che “il Norlevo possa provocare l’aborto è dimostrato anche dalla sentenza del Tar del Lazio che ha imposto ai produttori di specificare tale possibilità nel foglio illustrativo”. Secondo Casini non c’è dubbio che “i farmacisti hanno la facoltà di dichiarare la loro obiezione di coscienza rifiutando la collaborazione ad un possibile aborto. Lo esige una corretta interpretazione della stessa legge 194 sull’interruzione di gravidanza”. “Ma anche senza appellarsi alla legge – ha continuato –, appartiene al comune intendere la certezza che costringere qualcuno ad uccidere un essere umano – o anche qualcuno che ritiene ragionevolmente di riconoscere un essere umano in un embrione – è davvero contrario ad ogni senso di umanità”. In merito alle opposizioni, il Presidente del MpV ha affermato che “sbaglia il Ministro Turco quando contro i farmacisti invoca la legge dello Stato perché anche l’obiezione è legge, e quindi la norma generale che impone di mettere in vendita i farmaci trova un limite nell’eccezione, anch’essa legislativamente prevista, dell’obiezione”. “Tutto è già scritto e codificato – ha concluso Casini – ma forse una legge potrebbe essere opportuna. Non però per aggiungere qualcosa nell’ordinamento giuridico, ma solo per garantire un’interpretazione autentica alla legge esistente che impedisca erronee interpretazioni come quella della Federfarma e del ministro Turco”. (Commento ripreso da http://www.zenit.org/article-12384?l=italian)

 
 
 
 

Italia: la sentenza sul caso Englaro

Ottobre 2007. La Corte di Cassazione ha disposto un nuovo processo per il caso di Eluana Englaro, la ragazza in coma da 15 anni e per la quale il padre chiede la sospensione dell'alimentazione artificiale. Ribaltando la richiesta del sostituto procuratore generale della Cassazione Giacomo Caliendo che aveva chiesto il rigetto del ricorso presentato dal padre della ragazza. La Corte ha deciso che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzare l'interruzione soltanto in presenza di due circostanze concorrenti: che sia provata come irreversibile la condizione di stato vegetativo e che sia accertato che il convincimento etico di Eluana avrebbe portato a tale decisione se lei fosse stata in grado di scegliere di non continuare il trattamento.

Riportiamo il parere di Alberto Gambino, Ordinario di Diritto civile all’Università di Napoli “Parthenope” e docente di Diritto privato all’Università Europea di Roma. Secondo Gambino la sentenza «è erronea in punto di fatto per due motivi. Primo perché è pacifica tra gli anestesisti l’impossibilità di accertare quando uno stato vegetativo è irreversibile. Dunque il presupposto su cui si muove la sentenza viene meno: non è affatto provato che il paziente non possa tornare in uno stato di coscienza ed esprimere la sua volontà. Il secondo motivo è che il rifiuto di alimentazione ed idratazione non è rifiuto di terapie. Dare da bere e da mangiare ad un paziente, per quanto artificialmente, non è una cura ad una patologia, ma l’assolvimento di un bisogno essenziale dell’individuo. Se si pensa di troncare un’esistenza non soddisfacendo le esigenze primarie di una persona, credo che si sia davanti ad un caso di vera e propria eutanasia.
Laddove fossero superabili le obiezioni che ho appena sollevato – ma davvero non vedo come – resta difficile spiegare come sia possibile richiamarsi alla libertà del rifiuto della cura dinanzi a una volontà inespressa. Risalire a “comportamenti”, “stili di vita”, “dichiarazioni pregresse” per stabilire ciò che si deve decidere ora e in questa situazione, significa davvero non tenere conto della reale volontà del paziente, che, per essere libera, deve essere attuale, circostanziata e contestualizzata. E’ pericolosissimo retrodatarla perché si finisce per farsi interpreti, arbitrari, di una presunta volontà altrui, secondo i propri desideri, per quanto essi siano motivati e sofferti. [...] Nella dinamica del cosiddetto testamento biologico si annida [pertanto] un vero e proprio paradosso giuridico che usa la logica alla rovescia: si vuole tutelare la libertà dell’individuo di rifiutare le cure e poi quella libertà viene esercitata da vari soggetti tranne che dal suo effettivo titolare. Ho l’impressione che siamo davanti ad un’analisi fondata più sullo schema costi-benefici che non sulla reale salvaguardia della libertà di cura del paziente. Il malato in stato vegetativo così finisce per essere considerato un “peso” sociale, che, per quanto umanamente pesante, non potrà mai ridurre il valore della persona-soggetto di diritto ad un bene disponibile come se fosse una cosa»
(Notizia ripresa da www.repubblica.it e commento da ZENIT.org).

 
 
 
 

Giappone e USA: nuove scoperte sulle cellule staminali adulte

Novembre 2007. È arrivata la notizia che molti aspettavano: è possibile ottenere cellule staminali senza dover ricorrere all’utilizzo di embrioni. È questo il risultato di due diverse ricerche, una americana del prof. Thomson, dell’Università del Wisconsin-Madison e l’altra giapponese del prof. Yamanaka, dell’università di Tokyo, pubblicate sulle riviste scientifiche “Science” e “Cell”. I due ricercatori sono arrivati per due vie diverse allo stesso scopo: hanno ottenuto staminali modificando il patrimonio genetico di cellule della pelle, introducendo nel DNA quattro geni che sono attivi solo durante lo sviluppo embrionale. Risultato: le cellule sono regredite fino a tornare allo stato di cellule staminali, potenzialmente pluripotenti. Queste cellule un giorno potrebbero essere riprogrammate per formare vari tipi di tessuto e, provenendo dallo stesso paziente, eviterebbero gli attuali problemi di rigetto del sistema immunitario.

La notizia è epocale. Infatti è stata riportata dal Times in prima pagina come “brakethrough”. D’altronde era stata anticipata già qualche giorno prima, quando il The Daily Telegraph aveva riportato la notizia che Ian Wilmut, il papà della pecora clonata Dolly, avrebbe deciso di abbandonare la sperimentazione sugli embrioni per seguire la nuova tecnica del prof. Yamanaka, più efficace nell’ottenere cellule staminali e meno problematica dal punto di vista etico. La notizia è uno scossone in particolare per la ricerca sulla clonazione terapeutica. Ma è uno scossone anche per i milioni di dollari che, sopratutto negli Stati Uniti, sono investiti per la ricerca in questo settore. L’elargizione di questi fondi aveva già incominciato a scricchiolare di fronte alla scarsità di risultati - non uno scientificamente attendibile sulle concrete applicazioni terapeutiche in 10 anni.
Insomma è iniziato un periodo di declino per la clonazione terapeutica e la sperimentazione sugli embrioni? Pare di sì. Ma sembra anche che, qui in Italia, in pochi se ne siano resi conto. Lo fa notare Marina Corradi in un articolo dell’Avvenire del 22 novembre. La Corradi sottolinea che, mentre il Times ha dato alla notizia l’apertura in prima pagina, nel nostro Paese Repubblica l’ha destinato a pagina 23 (con un piccolo richiamo in prima) dopo tre pagine fitte di cronaca sul caso di Perugia, il Corriere non ne ha parlato visto che aveva già parlato di staminali la domenica prima, la Stampa lo ha inserito tra le solite comete e migrazioni di pinguini dell’inserto scienze e infine l’Unità lo ha collocato a pagina 8 “a piede” come si dice in gergo giornalistico. Analizza la Corradi: “gli stessi giornali che prima del referendum del 2005 ripetevano ossessivamente, e ignorando del tutto le obiezioni di autorevoli ricercatori, che per sconfiggere le malattie neurodegenerative occorreva usare gli embrioni, sulla svolta di oggi fanno understatement. Gli editorialisti che avvertivano severi che perdere la corsa dei brevetti sulle staminali embrionali avrebbe affossato la ricerca scientifica in Italia, ora non scrivono. Come mai è più franco nel dichiarare il cambio di rotta uno scienziato come Wilmut? Proprio perché è uno scienziato, e, preso atto di una strada più promettente e facilmente praticabile, nel confronto con la realtà cambia idea. Chi è ideologico, invece, non guarda alla realtà: ha un suo schema cui deve restar fedele, anche se ciò che accade lo contraddice”
(Notizia e commento ripresi da http://www.documentazione.info/article.php?idsez=5&id=522).

 
 
 
 

Esperti Usa di riproduzione assistita bocciano la tecnica invocata in Italia

Novembre 2007. Per gli antagonisti della legge 40 è il preferito tra i cavalli di battaglia, soprattutto dopo la discussa sentenza emessa dal Tribunale di Cagliari alla fine di settembre sul caso della donna affetta da beta-talassemia: parliamo della diagnosi preimpianto, la tecnica di analisi e selezione degli embrioni che – nei proclami di chi la sostiene – dovrebbe permettere alle donne che accedono alla fecondazione assistita di moltiplicare le possibilità di successo della futura gravidanza, individuando e impiantando gli "esemplari" potenzialmente più sani. Al meeting annuale delle società per la riproduzione assistita statunitensi, riunite a Washington a metà ottobre, i medici della Asrm (l’American Society for Reproductive Medicine, tra le più autorevoli e rappresentative Oltreoceano) si sono espressi nettamente contro la tecnica di diagnosi preimpianto dello screening, che consiste nello studio dell’assetto cromosomico degli embrioni per il trattamento delle pazienti che accedono alle tecniche di procreazione assistita in età avanzata o dopo aborti e fallimenti d’impianto reiterati. In pratica si prende un embrione, si estrae una delle sue cellule e si analizza cercandone delle anomalie cromosomiche, al fine di stabilirne la " normalità" o l’"anormalità" e la conseguente possibilità di dare con esso origine a una gravidanza a termine, rara con queste pazienti. Negli ultimi otto anni – secondo quanto emerso durante il convegno e ampiamente riportato in uno dei più recenti numeri di “Nature” – la tecnica ha però dimostrato la sua inconsistenza, spesso contribuendo addirittura a diminuire le possibili gravidanze.

A spiegarci i motivi di questo sorprendente fallimento è il medico newyorchese Glenn Schattmann, noto specialista nel campo dell’infertilità e docente di Endocrinologia riproduttiva al Weill Medical College della Cornell University. Schattmann, si badi bene, come la quasi totalità dei medici e ginecologi statunitensi non soltanto è un convinto sostenitore della pratica ma esegue diagnosi preimpianto sulle donne che ogni anno ricorrono alla fecondazione assistita per avere figli nel suo studio. Proprio per questo la sua testimonianza è ancor più sbalorditiva: «Da tempo ormai – ci spiega – vado sostenendo, appoggiato dall’Asrm, che non c’è alcuna prova evidente che lo screening preimpianto aumenti le possibilità di successo nelle gravidanze a seguito di fecondazione in vitro. Ecco perché sarebbe un errore gravissimo quello di continuare, come medici, a illudere le nostre pazienti e, quel che è peggio, far correre loro rischi inutili».
Rischi per le pazienti, menzogne dei medici: eppure le varie tecniche della diagnosi preimpianto, anche nel nostro Paese, continuano a essere proposte come metodo sicuro per aumentare i successi nelle gravidanze da procreazione assistita...
«È dimostrato da diversi studi compiuti negli Usa – continua Schattmann – che lo screening su una sola cellula di un embrione non può essere il fattore in base al quale decidere se quello sarà "normale" o "anormale". Il risultato del test in pratica, non prova nulla circa il futuro di quell’embrione: il che è confermato dagli errori diagnostici della pratica, che sono da considerarsi intorno al 10% sia per quanto riguarda i falsi positivi (anormali secondo il test, sani in realtà) sia per i falsi negativi (sani secondo il test, anormali nei fatti). Tutto questo senza contare i danni che il prelievo stesso di materiale cellulare può causare e spesso causa all’embrione e alla madre: l’impiego della tecnica ha dimostrato più volte di incidere sulle riuscita della gravidanza». Dati allarmanti, lontani anni luce dalla favola dei figli sani a colpo sicuro e della tutela della salute della donna di cui si parla nel nostro Paese (
Notizia e commento ripresi da Viviana Daloiso, “Avvenire È vita” online, 14 novembre 2007)

 
 
 
 

Italia: sì alla diagnosi genetica pre-impianto, contro le Linee guida della legge 40/2004

Dicembre 2007. Dopo la sentenza dello scorso settembre del tribunale di Cagliari, che aveva autorizzato la diagnosi genetica pre-impianto per una coppia di talassemici che avevano fatto ricorso alla fecondazione artificiale, ora un’ordinanza del Tribunale di Firenze ha stabilito, per un’altra coppia, il diritto di «produrre più embrioni così da evitare di reiterare i protocolli di stimolazione ovarica gravosi e invasivi sulla integrità psico-fisica; di avere trasferito unicamente gli embrioni non affetti ovvero portatori sani della specifica patologia alla luce di quanto risultante dall'esecuzione della diagnosi genetica pre-impianto (PDG) al fine di conseguire una gravidanza che sia cosciente e responsabile e tutelando in tal modo il diritto alla salute della madre e del nascituro, nonchè il diritto ad autodeterminarsi in maniera consapevole» (Notizia ripresa da http://www.ricercagiuridica.com/sentenze/index.php?num=2527&search=).

Riportiamo il commento di E. Roccella, Chi vuol dividere le persone tra giuste e sbagliate Avvenire 26 dicembre 2007: «La legge 40 sulla procreazione assistita afferma esplicitamente che è vietata «ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti», ma il giudice ha disinvoltamente stabilito altrimenti. Non entrerò nelle delicate questioni di diritto e di competenze che l’ordinanza pone, come l’equilibrio tra i poteri in democrazia, o la nuova tendenza alla 'giurisprudenza creativa', che sta emergendo. Certo, sarebbe meglio che le leggi le facessero i parlamentari, i quali ne rispondono agli elettori; i giudici invece, che non sono eletti da nessuno, le norme dovrebbero limitarsi ad applicarle. Il cuore del problema, però, è un altro. Dobbiamo stabilire se accettiamo o no che la vita dei disabili, dei malati, di chi è portatore di un qualunque 'difetto' genetico abbia lo stesso, identico valore di quella dei cosiddetti sani. [...] Non diteci più, per favore, che la selezione si limiterà ai casi gravi, perché nei Paesi dove è ammessa si allarga in modo irrefrenabile, e non saperlo vuol dire essere in malafede o non leggere le notizie dall’estero. In Inghilterra già si eliminano gli embrioni che abbiano una buona probabilità di sviluppare malattie da adulti, come il cancro al seno o al colon; dal Times del 15 dicembre abbiamo appreso l’ultima novità, il diritto di rifiutare gli embrioni che possano soffrire di un livello di colesterolo alto. Si tratta ormai, esplicitamente, di volere bambini che il mondo anglosassone definisce «designer babies», cioè figli progettati su misura, con caratteristiche decise dai genitori. Non conta la gravità della malattia genetica, ma il desiderio (c’è chi la chiama «autodeterminazione») degli adulti, e non importa che le patologie individuate siano lievi e perfettamente curabili. I sostenitori della modifica alla legge 40, invece di definire crudele il divieto di diagnosi preimpianto, provino a misurare il proprio livello di colesterolo, e a dirsi che, se è al di sopra della norma, questo in alcuni Paesi sarebbe stato motivo sufficiente per essere scartati in fase embrionale».

 
 
 
 

Italia. Norma “anti-omofobia”?

Dicembre 2007. La cosiddetta “norma anti-omofobia” inserita nel testo del decreto legge approvato al Senato sulla sicurezza in materia di norme anti-razzismo, ha accesso forti polemiche. La norma si ispira al Trattato di Amsterdam, un accordo internazionale sottoscritto dall'Italia e dagli altri paesi europei nel 1997, che prevede l'adozione di misure atte a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali. In realtà, già l’art. 3, primo comma della Costituzione Italiana recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

«La norma anti-omofobia contenuta nel decreto legge si riferisce, però, alla discriminazione fondata sulle «tendenze sessuali», quasi che queste avessero una 'qualità' paragonabile alla razza o all’origine etnica. Nonostante le infuocate rassicurazioni del senatore Latorre, si tratta di un nuovo reato per il quale – a discrezione di qualche giudice – potrebbe essere condannato addirittura fino a tre anni chi si esprimesse contro l’adozione di un bimbo da parte di persone dello stesso sesso» (da “Avvenire” 7 dicembre 2007). È naturalmente doveroso condannare ogni discriminazione sessuale delle persone. Ma questo non significa che si sia obbligati ad accettare e a promuovere per legge tutte le azioni che certe persone vorrebbero compiere sulla base della loro tendenza sessuale. La condizione sessuale di una persona, che può essere maschio o femmina, non si identifica con il suo orientamento sessuale. I diritti delle persone omosessuali riguardano il loro essere persone non il loro essere omosessuali. Le differenze di razza, cultura e sesso non sono equiparabili alle differenze tra orientamenti sessuali. Per questo l’idea che vi possa essere un “reato di opinione” sui diritti delle persone omosessuali è controversa: «Una cosa infatti è offendere o recare vio¬lenza agli omosessuali, ben altra cosa è ri¬tenere che gli omosessuali siano inadatti all’adozione o che l’omosessualità sia una patologia. [...] Quando si criminalizzano le opinioni, anziché le azioni, si produce l’effetto perverso di soffocare il libero di¬battito intellettuale, sociale e politico (nel nostro caso sui diritti degli omosessuali, se davvero tali diritti esistano e su come e¬ventualmente possano essere tutelati) e si favorisce l’accettazione, passiva e acritica, di idee magari politicamente corrette, ma non per questo tali da doversi ritenere fon¬date» (F. D’Agostino, Si soffoca il civile dibattito se si criminalizzano le opinioni anziché le azioni, “Avvenire” 11 dicembre 2007). Qualcuno ha cercato di confutare la precedente argomentazione sostituendo, alla parola “omosessuali”, la parola “ebrei”. Ma la mossa non funziona. Gli ebrei, infatti, godono dei diritti fondamentali non in quanto ebrei ma in quanto persone umane. Se invece gli ebrei avessero diritti in quanto ebrei e non in quanto persone, allora cadremmo automaticamente nella discriminazione razziale di tutti coloro che, non essendo ebrei, non possono godere dei diritti che possiedono solo gli ebrei. Se le persone omosessuali vogliono vivere insieme possono farlo. Ma se decidono di adottare un bambino dovrebbero accettare che la società discuta, nell’interesse del bambino, l’opportunità di questa scelta. Con una norma anti-omofobia questa discussione viene chiusa prima ancora di essere aperta, criminalizzando gli interlocutori e le loro opinioni. Chissà, forse per etero-fobia.

 
 
 
 

Moratoria contro la pena di morte... e sull’aborto?

Dicembre 2007. L’Assemblea generale dell’Onu ha approvato la risoluzione per la moratoria contro la pena di morte nel mondo con 104 voti a favore, 54 contro e 29 astenuti. La risoluzione è stata approvata alle 11.45, ora di New York. È stato un successo del partito pro-moratoria che ha conquistato 5 voti in più rispetto al pronunciamento della terza Commissione in novembre. A metà novembre il voto alla III Commissione dell’Onu aveva visto 99 paesi favorevoli (due più del quorum di 97), 52 contrari e 33 astenuti. Il fronte del no, in quell’occasione come oggi, è stato guidato dall’Egitto, supportato da Singapore, Sudan e Iran, anche se i pilastri del fronte dei "Friends of Death Penalty" restano Usa e Cina. Nonostante gli Stati Uniti abbiano votato contro, gli analisti fanno notare che anche Oltreoceano il vento sta cominciando a cambiare, citando come prova la decisione dello Stato del New Jersey di abolire per legge la pena capitale. La Russia ha invece votato a favore della risoluzione per la moratoria universale. In 51 Paesi le esecuzioni capitali sono legge. Tra questi 11 sono democrazie liberali. In Iran tra i giustiziati anche i minorenni (Notizia ripresa da http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200712articoli/28577girata.asp).

Sulla scia dell’unanime entusiasmo dell’opinione pubblica alla notizia della moratoria sulla pena capitale, in un editoriale intitolato Appello, ora la moratoria per l’aborto su “Il Foglio” del 19 dicembre, Giuliano Ferrara ha lanciato la proposta di una moratoria sull’aborto. 1 miliardo i bimbi morti dall'introduzione della prima legge sull'interruzione volontaria della gravidanza in Urss nel 1920, 130.033 gli aborti dell'anno scorso in Italia 54 milioni gli aborti effettuati ogni anno nel mondo, 234.801 gli aborti in Italia nel 1982, l'anno in cui si raggiunse il picco delle interruzioni volontarie. Riportiamo la quasi totalità dell’editoriale di Ferrara: «Questo è un appello alle buone coscienze che gioiscono per la moratoria sulla pena di morte nel mondo, votata ieri all'Onu da 104 paesi. Rallegriamoci, e facciamo una moratoria per gli aborti. Infatti per ogni pena di morte comminata a un essere umano vivente ci sono mille, diecimila, centomila, milioni di aborti comminati a esseri umani viventi, [...] in nome di una schizofrenica e grottesca ideologia della salute della Donna, che con la donna in carne e ossa e con la sua speranza di salute e di salvezza non ha niente a che vedere, alla mannaia dell’asportazione chirurgica o a quella del veleno farmacologico via pillola Ru486. [...] La pena di morte per la cui virtuale moratoria ci si rallegra oggi è di due tipi: conseguente a un giusto processo o a sentenze di giustizia tribale, compresa la sharia. Sono due cose diverse, ovviamente. Ma la nostra buona coscienza ci induce a complimentarci con noi stessi perché non facciamo differenze, e condanniamo in linea di principio la soppressione legale di un essere umano senza guardare ai suoi motivi, che in qualche caso, in molti casi, sono l’aver inflitto la morte ad altri. Bene, anzi male. Il miliardo e più di aborti praticati da quando le legislazioni permettono la famosa interruzione volontaria della gravidanza riguarda persone legalmente innocenti, create e distrutte dal mero potere del desiderio, desiderio di aver figli e di amare o desiderio di non averli e di odiarsi fino al punto di amputarsi dell’amore. E' lo scandalo supremo del nostro tempo [...]. Rallegriamoci dunque, in alto i cuori, e dopo aver promosso la Piccola Moratoria promuoviamo la Grande Moratoria della strage degli innocenti. Si accettano irrisioni, perché le buone coscienze sonno usare l'arma del sarcasmo meglio delle cattive, ma anche adesioni o un appello che parla da solo, illuministicamente, con l'evidenza assoluta dei fatti di esperienza e di ragione».

 
 
 
 

Italia: si accende il dibattito sull’aborto e sulla legge 194

Dicembre 2007. La proposta di moratoria contro l’aborto lanciata dalle pagine del “Foglio” da Giuliano Ferrara ha acceso il dibattito sull’aborto e sulla legge 194, che regolamenta, dall’ormai lontano 1978, le interruzioni di gravidanza in Italia. Tra le varie posizioni troviamo quella di chi sostiene che la legge 194 è una “conquista di civiltà”, perché ha consentito alle donne di scegliere liberamente sul proprio corpo, e quella di chi ritiene, invece, che la legge 194 non è mai stata una legge “abortista”, prevedendo l’aborto solo come soluzione estrema di fronte a pericolo per la salute fisica o psichica della gestante (art. 6). Da qui la proposta, da parte dei primi, di “non toccare” la 194, da parte dei secondi di applicarla integralmente anche e soprattutto nella sua fase preventiva (art. 2 comma d). Una terza posizione, invece, ritiene la legge 194 una legge gravemente iniqua, perché legittima l’uccisione di un essere umano, fragile e indifeso come è il bambino non ancora nato. Questa terza posizione condivide le strategie politiche della seconda, finalizzate ad applicare la legge 194 in senso non abortista, ma aggiunge che, nel fare ciò, bisogna dichiarare con fermezza e convinzione che una legge che autorizza l’uccisione dei bambini non ancora nati è una legge gravemente iniqua. E una legge gravemente iniqua, anche se bene applicata, non può mai diventare una “buona” legge, come pure pensano alcuni sostenitori della seconda posizione.

È innegabile costatare che l'aborto non è affatto «una scelta privata della persona», perché coinvolge tragicamente la vita di un soggetto di diritto del tutto indifeso. L'aborto è la soppressione cruenta ed omicida, l'uccisione ovvero l’assassinio, di un individuo umano che non è ingiusto aggressore, non è in condizioni di nuocere, non porta su di sé nessuna responsabilità giuridica o morale. Tale uccisione è oltretutto perpetrata senza che alla vittima sia consentito di difendersi. Se suscita un moto spontaneo di commozione la visione delle immagini delle ultime ore di un condannato alla sedia elettrica, almeno uguale dovrebbe essere l'indignazione di Amnesty International di fronte alle immagini del «Grido silenzioso», il documentario che mostra gli ultimi istanti di vita di un feto che viene dilaniato dagli strumenti del medico abortista. La distinzione tra «uomini già nati e non ancora nati» è un clamoroso esempio di discriminazione tra persone, che sorprende ascoltare sulla bocca di chi sostiene di battersi contro ogni razzismo e "discriminazione". Esiste poi un'altra sconcertante contraddizione nel variegato movimento contrario alla pena capitale. Al suo interno, molti ritengono che l'aborto legale sia lecito perché voluto dalla maggioranza della popolazione. Ma se questi sono i parametri per definire una legge giusta, allora si dovrebbe riconoscere che negli USA, ed in molti altri paesi del pianeta, la maggioranza della popolazione è favorevole alla pena capitale (Ripreso da Julius di Lucedio su http://www.legnostorto.com/).

Ma come si è arrivati a legalizzare l’aborto in Italia? Riportiamo alcuni brani tratti da A. Socci, Con quale “balla” propagandistica si ottenne la legalizzazione dell’aborto in Italia, “Libero” 6 gennaio 2008. «Secondo la proposta di legalizzazione fatta dal Psi al Senato nel 1971 erano ogni anno dai 2 ai 3 milioni gli aborti clandestini con circa 20 mila donne morte (nell’analogo progetto presentato alla Camera le morti lievitavano inspiegabilmente a 25 mila). Sui giornali le cifre oscillavano in modo abnorme: il “Corriere della sera” del 10 settembre 1976 per esempio dava da 1,5 a 3 milioni di aborti clandestini l’anno. E “Il Giorno” del 7 settembre 1972 da 3 a 4 milioni l’anno. In sostanza si davano i numeri (da 1,5 a 4 milioni), del tutto incontrollati e mai provati. Ma questa ossessiva campagna produsse la sensazione dell’emergenza nazionale e fece passare la legge 194. Eppure bastava qualche piccolo accertamento per scoprire la verità. Secondo calcoli fatti da statistici ipotizzando 3 (o addirittura 4) milioni di aborti clandestini l’anno ne derivava un tasso medio di abortività in base al quale – alla fine - “tutte le donne italiane avrebbero praticato nella loro vita almeno 8 aborti procurati clandestini” (Palmaro). Uno scenario ovviamente assurdo. Che i “milioni di aborti clandestini” ogni anno fossero un argomento totalmente infondato, è provato, in modo indiscutibile, oggi, dai dati ufficiali sugli aborti legali in Italia, fermi attorno ai 130 mila l’anno (dal 1978 hanno raggiunto al massimo la cifra di 240 mila all’anno, ma attestandosi subito molto al di sotto dei 200 mila). Se questo è il numero delle donne che interrompono la gravidanza oggi che l’aborto è facile, legale e assistito, in qualunque ospedale, e addirittura propagandato, è ovvio che dovevano essere un numero molto inferiore a praticarlo quando era illegale, si rischiava il carcere, la faccia e la pelle, ed era difficile trovare le “mammane” che lo praticassero. Ma passiamo al cuore del problema. L’aborto clandestino – dicevano – provocava ogni anno in Italia la morte di 25 mila donne. Per questo fu reso legale e assistito. Ma era vero quel dato? [...] Dall’Annuario Statistico del 1974 risulta che le donne in età feconda (cioè dai 15 ai 45 anni) decedute nell’anno 1972, cioè prima della legge 194, furono in tutto 15.116. Già il fatto che le morti totali siano la metà delle presunte morti per aborto parla chiaro. Ma poi si scopre che di quelle 15 mila solo 409 risultavano morte di gravidanza o parto. Naturalmente fra tutte le morti “per gravidanza o parto” quelle dovute ad aborto clandestino erano una piccola parte: qualche decina ogni anno. Una cifra certo triste (umanamente anche una singola morte è una tragedia), ma non una emergenza nazionale. Erano molto più rilevanti, per capirci, le altre cause di decesso delle donne come le morti per parto, per infortuni domestici, per incidenti o per omicidio. Le cifre che abbiamo visto per l’anno 1972 risultano costanti. Infatti nel 1969 le donne morte in età fertile per complicazioni da gravidanza, parto e puerperio furono in totale 550 (Annuario statistico italiano, 1971); 481 nel 1970 (Annuario 1972); 460 nel 1971 (Annuario 1973); 370 nel 1973 (Annuario 1975). E ogni anno le vittime dell’aborto clandestino erano poche unità.
[...] dall’entrata in vigore della legge 194 la mortalità delle donne in età feconda, non ha avuto alcuna significativa diminuzione statistica improvvisa, quindi la 194 non ha modificato alcunché. [...] In realtà non ha portato neanche alla sparizione dell’aborto clandestino. Infatti sull’ “Espresso” del 10 novembre 2005, Chiara Valentini scrive che la relazione del ministro della Salute nell’anno 2005 stima circa in 20 mila gli aborti clandestini. E la stessa cifra è ribadita dal demografo Massimo Livi Bacci. Dunque la 194 è clamorosamente fallita: non ha estirpato neanche la piaga della clandestinità. E lo stesso fenomeno è accaduto in Gran Bretagna, nei Paesi Scandinavi, in Germania, Giappone, Russia Polonia, Romania e via dicendo. Ma se la 194 non ha cancellato l’aborto clandestino – a 30 anni dalla sua approvazione – cos’ha prodotto? Rendere legale, facile, assistito e gratuito l’aborto può solo banalizzarlo e moltiplicarlo. E così è stato. Da 20-30 mila clandestini a 150-200 mila legali. Due ricercatori dell’Università di Trento, Erminio Guis e Donatella Cavanna (“Maternità negata”, Milano 1988) hanno scoperto che il 32 per cento delle donne che hanno abortito non l’avrebbe fatto se non ci fosse stata la legge 194 a permetterlo. Quindi migliaia di aborti che – in mancanza della 194 – sarebbero stati evitati. “Risultati del tutto analoghi” aggiunge Mario Palmaro “sono stati condotti in Francia. Il significato di questi dati è evidente: la legge incide in modo decisivo sui comportamenti”. E’ vero che c’è stata una relativa diminuzione degli aborti legali dal 1978 ad oggi, ma intanto bisogna considerare la diffusione di abortivi chimici. In secondo luogo il fenomeno è tutto italiano ed è dovuto a una forte sensibilizzazione sui temi della vita fatta dalla Chiesa italiana (basti dire che i Centri di aiuto alla vita, anche concretamente, hanno salvato circa 80 mila bambini e altrettante mamme). Infatti negli altri Paesi europei, come Francia e Inghilterra, dove la presenza cattolica (e la cultura della vita) è irrilevante, gli aborti legali non sono in discesa, ma semmai in salita. Infine 30 anni fa si costruì un’assordante campagna sulle “morti per aborto clandestino”, ma perché oggi non si parla delle morti per aborto praticato legalmente e assistito? Perché tanto silenzio sulle morti che hanno fatto clamore in America in relazione alla pillola abortiva (New York Times, 23.11.2005)? La sorte delle donne non interessa più?

 
 
 
 

Italia: Regione Lombardia: niente interruzioni di gravidanza dopo le 22 settimane e 3 giorni

Gennaio 2008. Stop agli aborti dopo le 22 settimane e 3 giorni e più risorse (per 8 milioni di euro) ai consultori pubblici e accreditati per fornire alle donne in difficoltà per una gravidanza l’opportunità di un sostegno plurispecialistico (medico, psicologico e sociale) che favorisca la rimozione degli ostacoli alla nascita del bambino. Sono le misure adottate dalla Regione Lombardia per dare attuazione alla legge 194 illustrate ieri dal governatore Roberto Formigoni.

Dalla comunità scientifica sono venute le conferme alla scelta della politica regiona-le: «L’atto di indirizzo – ha detto Alessan¬dra Kustermann, responsabile del Servizio diagnosi prenatale della Mangiagalli e di Milano – rappresenta un passo avanti nel¬la attuazione della legge 194: le donne non desiderano abortire ma essere aiutate». E sottolinea che «non è vero che quando vie¬ne diagnosticata un’anomalia, la strada ver¬so l’aborto è obbligata: da noi in Mangia¬galli – ha puntualizzato la Kustermann – se una donna sceglie di interrompere la gra¬vidanza, altre quattro preferiscono conti-nuarla, se sono proposti percorsi assisten¬ziali multidisciplinari adeguati». Favorevole all’atto di indirizzo regionale è anche Fabio Mosca, direttore della Neonatologia e terapia in¬tensiva neonatale della stessa clinica milanese: «Il limite alla vita autonoma del feto che la legge non indica e che trent’anni fa era forse di 25-24 settimane, ora è all’inizio della 23ª» (E. Negrotti, Lombardia, segnali a favore della vita, “Avvenire” 23 gennaio 2008).

 
 
 
 

Italia: lettera all’ONU per moratoria sull’aborto

Gennaio 2008. Prosegue la campagna per la moratoria internazionale sull’aborto sottoscritta da diverse personalità del mondo scientifico, culturale e giuridico in Europa e negli Stati Uniti. Martedì sul quotidiano “Il Foglio” è stata infatti pubblicata una lettera di Giuliano Ferrara indirizzata al Segretario generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, contenente un appello in difesa della vita. Pubblichiamo, a seguire, il testo della lettera in inglese e l’elenco di alcuni dei firmatari.

Dear Dr Ban Ki-Moon
Secretary General of the United Nations

Dear Honourable Prime Ministers and Heads of State of the United Nations

Over the last 60 years, notable measures have been adopted and efforts made to strengthen the legal framework designed to ensure the ideals expressed in the Universal Declaration of Human Rights that was approved in Paris on 10 December 1948. Over the last thirty years, more than a billion abortions have been performed, at an average of roughly 50 million a year. According to the latest report by the United Nations Population Fund, in China, tens of millions of unborn children are in danger of being aborted - through incentives or coercion - in the name of family planning and national demographics. In India, millions of babies have been eliminated prior to birth over the last 20 years for sexist reasons. In Asia, the demographic balance is threatened by mass infanticide, which is taking on extraordinary proportions. In North Korea, the use of selective abortion is leading to a radical way of eliminating all forms of disability. In the western world, abortion has also become the tool of a new form of eugenics that is violating the rights of unborn children and equality among mankind. Originally, prenatal diagnosis was designed to help people prepare and care for their unborn children, but it is becoming a way a improving the human race and, in doing so, destroying the universalistic ideals that underlie the Universal Declaration of 1948.
We are calling on you to look at our request for a moratorium on public policies that encourage any form of unjustified or selective enslavement of a human being in the womb through the arbitrary use of the power to annihilate, which violates the right to birth and to motherhood. Article 3 of the Universal Declaration states that "Everyone has the right to life, liberty and security of person". We are calling on the representatives of national governments to back a key amendment to this part of the declaration, by adding in, after the first comma, the words "from conception to natural death". Indeed, the Universal Declaration refers to "equal and inalienable" human rights and solemnly proclaims the "inherent dignity...of all members of the human family" (Preamble). Science has shown us - and some of the major discoveries in the field of genetics come after the declaration - the irrefutable presence from the first stage of development of the human genetic pattern in the embryo, a pattern that is unique and unrepeatable. In 1984, the Warnock Commission in the UK determined that 14 days after conception an embryo is not only a human being, but also entitled to the right not to be used for experimental purposes.
Governments must preserve and protect these natural rights, which include "the right to inherit a genetic pattern which has not been artificially changed".
The 1948 Declaration was the response by the free world and international law to the crimes against humanity that had been prosecuted at Nuremberg three years earlier. In 1948, in response to the eugenic practices of the Nazis, the World Medical Association adopted the Declaration of Geneva, which stated: "I will maintain the utmost respect for human life from its beginning". Article 6 of the United Nations' International Covenant on Civil and Political Rights (1966) sets out that "Every human being has the inherent right to life". Today, selective abortion and selective in vitro engineering are the main ways in which eugenic, racial and sexual discrimination are perpetrated against human beings. These are the same human being who are protected by article 6 of the United Nations charter of rights. Sixty years on from the Universal Declaration of Human Rights it is necessary to renew the primary basis of our humanitarian inspiration through an amendment to article 3. As such, we call on all governments to truly ensure the respect of the rights of people, including above all the right to life.

Yours faithfully

René Girard, anthropologist member of Académie française,
Lord David Alton, member of the House of Lords
Roger Scruton, British philosopher at Birbeck College
John Haldane, Philosphy professor at St. Andrews University
George Weigel, biographer of Karol Wojtyla and Joseph Ratzinger
Robert Spaemann, Philosophy professor emeritus at Universität of Munich
Sister Nirmala Joshi, General mother superior of Missionaries of Charity
Paolo Carozza, member of Inter-American Commission for Human rights
Josephine Quintavalle, director of Comment on Reproductive Ethics
Paola Bonzi, Center for life help at Mangiagalli Clinic of Milan
Pierre Mertens, president of the International Federation for Spina Bifida, Jean-Marie Le Mené, president of Fondation Jérôme Lejeune
Alan Craig, president of British Christian Peoples Alliance
Richard John Neuhaus, chief editor of di First Things
Carlo Casini, president of Movimento per la vita Italy
Lucetta Scaraffia, professor of history at Università La Sapienza di Roma
Bobby Schindler, Terri Schiavo’s brother

 
 
 
     
 
 
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