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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 6 - Maggio 2008 
     
 

Recensioni:

Laura Palazzani (a cura di), La bioetica e la differenza di genere, Studium, Roma 2007, pp. 297

 

 

Solo di recente la problematica della differenza sessuale è divenuta tema centrale di aperta discussione nell’ambito della bioetica che si va accostando alla realtà complessa del maschile e del femminile interrogandosi sul senso e sul significato della differenza sessuale nel tempo della post-modernità. Questa rinnovata attenzione al tema della differenza nasce dalla consapevolezza dell’estrema complessità dei nostri tempi. Di fatto incontriamo, nel postmoderno, due fenomeni tipici di vasta portata. Per un verso, l’avanzamento biotecnologico le cui profonde implicazioni in merito alla corporeità umana sono tali da non potere essere trascurate. Le biotecnologie applicate alla generazione umana tendono a impoverire la corporeità in quanto la svincolano da quella realtà originariamente inscritta in esso: il sesso. Le tecniche di riproduzione artificiale rendono possibile la riproduzione sotto forma di clonazione umana, che tende a configurarsi nell’immaginario collettivo come una variante riproduttiva asessuata ed agamica, trasformando di fatto  la differenza sessuale in una indifferenza.  Si tratta, infatti, di una procreazione che prescinde dall’apporto genetico di due individui di sesso diverso. E, inoltre, come le teoriche femministe hanno più volte affermato, le tecniche di manipolazione dei gameti offrono numerose possibilità alle donne di emanciparsi dal destino anatomico del corpo e dal potere maschilista, in quanto non escludono, in linea di principio, la possibilità di una riproduzione senza il concorso della cellula germinale maschile, come già sperimentato in alcune specie di animali attraverso la clonazione. A questo panorama si aggiunge anche la diffusione di tecniche ectogenetiche (accolte con favore positivo da molte teoriche femministe, tra le quali S. Firestone, ma anche da un noto studioso come P. Singer) che consentono la formazione e la crescita di embrioni umani al di fuori del corpo materno in una sorta di uteri artificiali. Il compito della bioetica è, dunque, quello di tenere sempre aperta la domanda di senso: perché la differenza sessuale è un valore ed è, dunque, superiore all’indifferenza sul piano morale? E, inoltre, essendo la differenza sessuale radicata nel bagaglio biologico oltreché antropologico della specie umana, la tecnologia può essere compatibile con queste radici dell’umano o  può procedere come se tale dato non ci fosse, sulla base di una visione astratta e vuota del soggetto?

Per un altro verso, l’altro fenomeno che incontriamo è di carattere culturale e riguarda proprio l’interpretazione della differenza sessuale come realtà che non ha in sé e per sé un significato e un valore. Si tratta cioè dell’idea che i confini tra uomini e donne non siano naturali, ma prodotto unico di una costruzione culturale che ha fatto sì che la differenza sessuale non trovasse più corrispondenza in una realtà biologico-corporea e fosse di fatto privata di un ancoraggio fisico. Tale linea di pensiero impone  di leggere le categorie dell’essere uomo e dell’essere donna come un dato che non sarebbe anche la conseguenza della struttura corporea e biologica dell’individuo, ma esclusivamente il prodotto della cultura e, dunque, come fatto culturale e storico diverso da cultura a cultura.

In questo contesto di aperto dibattito bioetico su tale tema, appare molto interessante il contributo che viene offerto dal volume curato da Laura Palazzani sulla questione del legame della bioetica con la differenza di genere. La tesi fondamentale che pare sia condivisa e sostenuta dagli autori e dalle autrici, che hanno dato luogo ai diversi contributi contenuti nel libro, trova fondamento nella ricerca di un senso e di un significato del dimorfismo sessuale presente all’interno della stessa umanità. Nello stesso tempo viene posta  l’attenzione alla provocatoria invasività delle biotecnologie riproduttive nei riguardi della corporeità umana, e nel tentativo di recuperare l’identità dell’umano si adotta il paradigma della complementarità nella  lettura della differenza sessuale, paradigma molto  diverso da quello tradizionale di per sé maschilista e androcentrico.

Il volume si articola in tre parti suddivise in diversi capitoli, tutti corposi e densi di spunti per la riflessione; di questi capitoli solo alcuni vengono, in questa sede, presi in considerazione non per maggiore importanza o valore, ma per ovvie esigenze di sintesi. Viene sostenuta l’importanza di una correlazione  tra i fattori biologici e quelli culturali nella formazione dell’identità sessuale, nel senso di una corrispondenza e non di un’opposizione tra la corporeità biologica, comunemente definita sesso biologico, e il genere cioè quella dimensione consaputa dell’appartenenza ad un sesso piuttosto che ad un altro. Si pone altresì attenzione al valore delle dinamiche interpersonali, diverse nei due sessi, in relazione all’immagine materna nei primi tre anni di vita (cap. II). Ora, tale linea di pensiero non riduce la differenza tra uomini e donne a fattori puramente culturali, ma rinvia costantemente al corpo nel quale essa si trova già inscritta e a partire dal quale ogni essere umano si interpreta e costruisce la propria identità. Le filosofie della differenza sessuale hanno ritenuto, infatti, di poter rivendicare la differenza del femminile dal maschile proprio a partire da quel corpo di donna, che è la radice femminile di ogni umano perché, come afferma Adriana Cavarero, il vivente umano non è che un caso di generazione sessuata all’interno di una natura che genera per sessuazione e che, dunque, porta in sé inscritta la differenza sessuale. Ciò comporta la necessità di leggere le categorie del femminile e del maschile superando la visione dicotomica natura/cultura, poiché se la natura determina che sia il corpo a definire l’identità sessuata e a differenziare il maschile dal femminile, è anche vero che ogni donna così come ogni uomo attribuirà alla propria dimensione dell’essere sessuato/a dei significati assolutamente unici ed irripetibili, declinando in modo singolare e personale la propria esistenza e il proprio modo di essere al mondo. E, inoltre, se  «la biologia determina che siano soltanto le donne a generare figli, ciò che le donne fanno di questa esperienza non può essere determinato biologicamente» (cap. II, p. 62). Femminile e maschile sono, perciò, forme naturali dell’umano con eguale dignità e valore e il loro costruirsi avviene nel duplice senso della ricerca dell’identità e della differenza.

Ne deriva una prospettiva critica nei riguardi di una cultura dominante, che, a partire dalla fine degli anni sessanta del Novecento, si è imposta nella lettura della differenza sessuale dando luogo ad un paradigma dicotomico maschile/femminile, impedendo che tali categorie possano essere pensate in un’ottica di complementarità.

In primo luogo, la filosofia femminista di Simone De Beauvoir sintetizza tale orientamento di pensiero nel noto aforisma “Donna non si nasce, ma si diventa” e di fatto si orienta verso una vera e propria rimozione dell’ontologia della differenza sessuale, proponendo la liberazione dal sesso come liberazione delle donne dal destino anatomico del corpo e dalla maternità che ha portato alla loro subordinazione al potere patriarcale implicito nel modello universale dell’umano rappresentato dall’uomo maschio, adulto, bianco e civilizzato (cap. II).

Significativa appare, inoltre, la critica delle istanze postmoderne del femminismo radicale di matrice americana, che sottolineano l’aspetto parziale e a volte fluido del sesso e dell’abitare sessualmente il corpo, aprendo la prospettiva dell’identità sessuale come scelta flessibile e revocabile anche più volte nel corso della vita dalla stessa persona.  A partire dalla critica delle principali tesi argomentative del femminismo post-moderno, sostenute da Donna J. Haraway, Rosi Braidotti e altre pensatrici, viene rilevato come il corpo, invaso dalla tecnologia, stia progressivamente perdendo l’identità che in modo specifico lo caratterizza e lo definisce sessualmente (cap. XI). La nozione di “identità sessuata” richiede, perciò, di essere discussa e re-interrogata contro un riduzionismo tecnologico, che la bioetica mostra di combattere quale indebita pretesa culturale del nostro tempo.

Il femminismo post-moderno delinea, perciò, una linea di pensiero che va al di là della differenza sessuale verso la configurazione di una nuova soggettività “oltre il gender” o, come si potrebbe meglio dire, “post-gender”, per il fatto che si intende l’identità sessuale come un dato, che non sarebbe originariamente ancorato al corpo, ma costruito secondo codici che sono imposti dall’esterno. Non si riconosce, pertanto, il corpo come polo di riferimento fondante dell’identità di genere, nella misura in cui si valorizza un nuovo soggetto che si pretende anti-essenzialista e postmoderno. Si rende, perciò incorporea la stessa differenza sessuale, ritenendo il sesso un carattere non naturale del corpo e della sua sessualità, ma un elemento variabile, mobile in un orizzonte, che, come afferma Rosi Braidotti, è nomade e fluttuante ( cap. XI ).

Il tempo del postmoderno espropria il corpo della  natura sessuata e lo espugna dalla sua identità femminile o maschile che sia, dando luogo ad un indebolimento sempre più progressivo delle due forme invarianti della coscienza di essere al mondo come corpo, cioè come esseri sessuati, forme di un’appartenenza che finora ha costituito lo spazio perimetrale all’interno del quale si è costruita la nostra identità. Il rimando alla corporeità ci consente, invece, di riconoscere quella struttura originaria della differenza sessuale nella quale trova espressione in modo singolare ed unico ogni individualità, maschile o femminile che sia, e di ripensare tale differenza secondo il nuovo  paradigma della complementarità (cap. III ).

È dato innanzitutto osservare che l’incontro con l’alterità è originariamente segnato dalla differenza inscritta nei corpi: di fatto incontriamo sempre persone che hanno caratteristiche maschili o femminili, con una loro specifica individualità. Pur tuttavia, per induzione abbiamo la consapevolezza di ritrovarci dinanzi ad individui dati nella loro irripetibilità e nella irriducibile diversità. L’essere  rispettivamente un uomo e una donna è originariamente contrassegnato da universalità e singolarità: la donna e l’uomo sono cioè esseri umani singolari e irripetibili, ma segnati dalla differenza inscritta nel corpo per natura sessuato, pertanto, originariamente caratterizzati da quell’elemento che  accomuna sul piano universale gli uomini fra di loro e le donne fra di loro (cap. VII ).

È dato, pertanto, osservare che  la donna (e lo stesso vale per l’uomo) è la stessa dappertutto eppure non è uguale in nessun luogo. Se le differenze tra il maschile e il femminile sono considerate unicamente come il prodotto  dei condizionamenti sociali non sarà  possibile individuare un “in sé” della sessualità umana. Nell’osservazione della differenza sessuale dobbiamo, perciò, sempre tenere presente la dimensione dialettica dell’universale, inteso come struttura invariante della differenza, tale per cui, incontrando delle donne, diciamo appunto che sono donne,  e del singolare, in quanto l’essere donna o l’essere uomo è sempre anche vissuto dal di dentro e dunque declinato in modo personale e singolare (cap. VII).

Sul piano del divenire storico, è dato, inoltre, constatare che il maschile e il femminile non sempre si cor-rispondono secondo modalità relazionali autentiche o, come direbbe Husserl, per Einfühlung,ma in senso inautentico, in cui il proprio essere nel mondo non è condiviso con quello dell’altro o vissuto in comune. L’Einfühlung, intesa come esperienza intersoggettiva empatica, costituisce lo sviluppo di una fenomenologia della relazione ego-alter che prefigura tra il maschile e il femminile qualcosa di comune nonostante le differenze. L’empatia, infatti, fa sì che la relazione fra uomini e donne possa tradursi in un percorso comune di reciproco riconoscimento, che «consente di riconoscere da parte di qualcuno l’altro come simile a se stesso» (p. 182). La relazione tra il maschile e il femminile è autentica solo se  risulta contrassegnata dall’empatia, che custodisce l’alterità delle due soggettività, salvandone le diverse identità e cioè mantenendone la differenza. La relazione intersoggettiva tra il maschile e il femminile esprime, altresì, i segni di una vera  e propria analogia, nel senso attribuito dal filosofo Edmund Husserl: indica, cioè, una relazione tra due poli, che da un lato presuppone qualcosa di comune e dall’altro lato serve a non omologare le due soggettività, ma a segnare una differenza: che l’altro sia come me non vuol dire che sia uguale a me.

In una relazione veramente autentica, possiamo intuitivamente constatare che il maschile e il femminile costruiscono insieme un progetto comune a  partire da due diverse visioni del mondo cioè a partire dalla differenza, in ragione del fatto che l’analogia, come afferma Husserl,  non si predica dei distinti, ma della loro relazione e del loro con-essere e, per questo, della loro identità-differenza .

L’inautenticità del rapporto interpersonale tra i due sessi  richiama all’attenzione la modalità di correlazione tipica nella dialettica servo-signore, già espressa da Hegel, in cui l’assenza di un reciproco riconoscimento mostra come l’alterità, che chiede di essere riconosciuta, non possa essere affermata come un valore, al contrario viene ridotta ad oggetto degli interessi della coscienza  e delle sue arbitrarie e soggettive configurazioni di senso. Il dato che emerge da tale dialettica è, infatti, un rapporto inautentico fra le due autocoscienze che rimangono opposte e determinate in una vera e propria contesa, dovuta al fatto che l’alterità è posta come ostacolo e negatività e ciò esclude ogni rapporto con l’altro, che sempre arricchisce ed impreziosisce ogni esperienza umana. Nell’esperienza storica e politica delle donne questo aspetto è probabilmente una costante che ha dato luogo ad un vero e proprio conflitto della differenza (cap.VI).

Da qui il bisogno di un’antropologia della persona in ragione del fatto che l’agire morale affonda le radici in una visione antropologica dell’umano. Per queste ragioni affrontare il tema della differenza sessuale significa occuparsi delle questioni relative all’essere dell’uomo e all’essere della donna ossia pensare ad un’ontologia della persona sessuata, che ci restituisca una visione essenziale della natura umana, del corpo umano, della sessualità, aspetti che caratterizzano l’esistenza di ogni persona.

L’antropologia di cui ci stiamo occupando è un’antropologia della differenza e non genericamente  un’antropologia dell’uomo. La persona non esiste in astratto, ma nella concretezza della sua sessualità: esiste come persona umana donna e come persona umana uomo e tale differenza attiene al suo stesso corpo e ne determina una irriducibile diversità. La persona che abita il mondo nella concretezza del suo essere è uno spirito incarnato, non uno spirito che dimora in un corpo, ma una persona sessuata, una persona che è il suo corpo ed esiste attraverso il suo corpo.  Il sesso pertiene perciò all’essere stesso dell’uomo e della donna cioè inerisce ad una vera e propria ontologia duale della sessualità umana se non altro perché, per usare un’espressione di Merleau Ponty,  “io sono il mio corpo”: essere corpo si traduce in essere maschi o femmine.

         L’istanza teleologica che muove lo sviluppo della sessualità umana verso la determinazione della natura sessuata dei corpi rivela il profondo valore di una verità empirica: la natura sessuata dei corpi apre alla dimensione relazionale della sessualità umana (cap.VIII).  Recuperare l’aspetto di espressività e relazionalità del corpo significa, quindi, restituire alla relazione maschile-femminile quel carattere comunicativo, tipicamente specifico della sessualità umana, in cui i due sessi si configurano come soggetti diversi, ma complementari (cap. VIII). La dualità dell’umano è, dunque, da intendersi nel senso di una ontologia relazionale della differenza, per tali ragioni la differenza dei sessi non si definisce, come afferma Laura Palazzani, come modalità irriducibile, ma, al contrario, nel senso di  modalità relazionale (cap. VII). La bioetica e il biodiritto sono, perciò, chiamati, afferma la curatrice, a difendere la relazionalità tra uomini e donne come condizione di possibilità della stessa identità umana.

 

 

Maria Rita Fedele

 
     
     
 
 
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