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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 6 - Maggio 2008 
     
 

Per un dialogo costruttivo. Replica a Chiara Lalli

di Giuseppe Savagnone*

 

 

 

Abbiamo discusso di persona con Chiara Lalli le questioni che ella riprende nel suo articolo e ho maturato la convinzione che è possibile confrontarsi con lei – come del resto con tanti che in buona fede sono convinti della ragioni che portano al legittimare l’interruzione volontaria di gravidanza – senza scadere in quel clima da rissa che spesso caratterizza  le discussioni su questi temi.

Vorrei partire dalla fine: dal punto, cioè, in cui Lalli denuncia giustamente la sproporzione tra l’impegno di chi è contrario all’aborto nel combatterlo e i suoi sforzi concreti per consentire alle famiglie – e in particolare alle madri – in difficoltà di accogliere e allevare dignitosamente i propri figli. Partiti e governi che si sono battuti accanitamente contro l’aborto spesso non hanno puntato con lo stesso accanimento su una seria politica di sostegno alle famiglie. Aggiungerei soltanto che la stessa singolare concentrazione sul problema dell’interruzione della gravidanza, piuttosto che sulla possibilità di portarla a termine contando sull’aiuto della società per la cura dei propri bambini, si constata anche nei fautori della legalizzazione dell’aborto, che sembrano identificare la tutela della donna nell’assicurarle il diritto di uccidere i propri figli piuttosto che nel darle quello di farli nascere e di assicurare loro le cure necessarie. Da qui battaglie durissime per legalizzare l’interruzione di gravidanza e la totale insensibilità, al tempo stesso, per i problemi delle famiglie. Dall’una e dall’altra parte, insomma, si dà l’impressione che la battaglia ideologica per la difesa del nascituro o per quella della libertà della madre ignori le esigenze effettive di questi soggetti e non si preoccupi affatto dei loro reali interessi.

Questo rilievo preliminare, di grande importanza, non esclude, evidentemente, che ci si confronti sul merito della questione dell’aborto. Il punto cruciale su cui Chiara Lalli insiste  è la separazione della persona – l’unico soggetto a cui per comune consenso si deve una tutela giuridica – dall’essere umano in quanto appartenente alla specie biologica homo sapiens. È l’argomento centrale – ma sarebbe più preciso dire: l’unico – di tutte le difese dell’interruzione volontaria della gravidanza. Solo così, infatti, si può sostenere che essa riguarda solo la madre e nessun altro. Per questo invocare la libertà della donna – come spesso si fa – per legittimare l’aborto, senza aver prima dimostrato che l’embrione non è una persona e che quindi il suo gesto non danneggia nessun altro soggetto, è futile, come lo sarebbe difendere la libertà del capitalista di sfruttare i propri operai. Solo se non ci sono altre persone in gioco la libertà del singolo può essere invocata per giustificare incondizionatamente i suoi comportamenti dal punto di vista giuridico.

Merito di Lalli è aver capito lucidamente questo punto e di concentrarsi, conseguentemente, sulla dimostrazione che l’embrione, pur appartenendo alla specie homo sapiens, non è una persona. Il criterio per valutare l’esistenza di quest’ultima sarebbe infatti, secondo l’A., la presenza o meno di una «seppur minima capacità mentale (coscienza e autocoscienza)». Solo che anche lei, come tanti bioeticisti “laici”, sembra non rendersi conto della posta in gioco. La separazione tra essere umano e persona non è cosa da poco. Lo sappiamo bene, perché non si tratta di una novità. La storia umana è costellata di tentativi di questo genere: sono stati considerati esseri umani, in senso biologico, ma non persone (e quindi degni di tutela giuridica) gli schiavi, gli indigeni, i neri, gli ebrei, le donne. L’argomentazione logica è sempre stata la stessa che oggi viene utilizzata per negare il carattere personale dell’embrione: non basta una realtà biologica indiscutibilmente umana per essere persone, perché per questo è indispensabile un carattere x, stabilito a tavolino da qualcuno che evidentemente ritiene di averlo e che lo pone come condizione perché si sia al suo livello: la libertà, alcuni requisiti di civiltà, un certo colore della pelle, etc.

Lalli, per dimostrare la legittimità di questa distinzione, porta come argomento una prassi – il prelievo di organi da un individuo in stato di morte cerebrale – che in realtà non implica ciò che lei afferma. Posto che il  problema del momento della morte rimane complesso (e non è questa la sede per affrontarlo), si prelevano gli organi da un soggetto perché ormai – pur rimanendo funzionali quei singoli organi – lo si ritiene morto sia come uomo che come persona.  Lalli sembra voler dire che, essendo venuta meno l’attività mentale, non c’è più la persona, anche se rimane l’identità del soggetto biologico. Ma la prassi a cui ella allude non parte affatto da questo presupposto (quella che lei chiama «premessa fondamentale»). Tanto è vero che  nessuno pensa di prelevare gli organi da individui  privi di coscienza, come i malati di Alzheimer o uomini e donne affetti di altre gravi turbe che ne bloccano l’attività mentale.

Si potrà obiettare che la capacità mentale è veramente un requisito essenziale per distinguere l’essere umano da altre specie. Non diceva Aristotele che l’uomo è un «animale razionale»? Verissimo. Si tratta però di chiarire in che cosa consista la suddetta «capacità mentale». Lalli la esclude nell’embrione perché questi non ha ancora un sistema nervoso che gli consenta di esercitarla. Basta però risalire al Dna – al progetto genetico – dell’embrione stesso per rendersi conto che esso implica sia il sistema nervoso che la conseguente facoltà di pensare e di essere cosciente. Il problema è di stabilire, allora, se davvero per affermare che un essere ha una capacità mentale – e dunque, secondo la definizione della Lalli, si possa considerare “persona” – si debba puntare sul suo esercizio effettivo oppure sia sufficiente che essa sia presente in potenza. In realtà tutti i bioeticisti laici – da Tooley a Singer a Engelhardt a Harris – sostengono fermamente che soltanto nel primo caso si può parlare di persona e squalificano la seconda ipotesi riducendola al rango di mera “possibilità”.

Su questo punto Lalli li segue pedissequamente, cadendo negli stessi equivoci. Primo equivoco: l’A. crede (come i bioeticisti sopra citati) che chi invoca l’argomento della potenzialità sostenga che «l’embrione è potenzialmente una persona, quindi l’embrione è una persona». In realtà chi afferma l’illegittimità morale e giuridica dell’aborto sostiene che l’embrione è una persona in atto (non in potenza) perché possiede in potenza, nel suo corredo genetico di essere umano, tutti i requisiti che lo rendono persona, compresa la coscienza. 

Secondo equivoco: Lalli crede (come i bioeticisti sopra citati) che la potenzialità coincida con la possibilità e che, di conseguenza, sia assurdo farla coincidere con l’effettivo possesso di ciò che, per definizione, è solo possibile. In realtà la potenzialità è qualcosa di molto diverso – già secondo Aristotele – dalla pura e semplice possibilità. Quest’ultima, infatti, comporta  soltanto che qualcosa non sia assurdo.  Una cassetta vuota “può” contenere una rara esecuzione della settima sinfonia di Beethoven diretta da Claudio Abbado. Resta il fatto che non la contiene ancora e che distruggendo la cassetta non si cancella questa rara esecuzione. Un giovane che non ha mai studiato l’inglese “può”, in linea di principio, parlare in questa lingua, ma prima dovrebbe apprenderla e, a chi gli chiedesse in un colloquio di lavoro, se la parla, dovrebbe onestamente rispondere di no. La potenzialità, invece, comporta che qualcosa sia già effettivamente presente, anche se ancora non in forma compiuta e manifesta. Se la cassetta contiene l’esecuzione della settima sinfonia, quest’ultima, anche se si trova presente in potenza, perché non risuona effettivamente, è già realmente in essa. E chi conosce bene l’inglese può rispondere tranquillamente “sì” a chi glielo chiede, senza tema di essere smentito immediatamente (“ma lei mi ha risposto in italiano!”) perché, in potenza, lo parla. Così come non è assurdo dire di un uomo che dorme che parla dodici lingue, anche se in quel momento sta solo russando.

Quando dunque si dice che l’embrione è una persona si vuole dire che lo è già (non in potenza, ma in atto), perché, in quanto essere umano, possiede un corredo genetico che ha in potenza, insieme al sesso, al colore degli occhi e dei capelli, alle funzioni digestive, anche la capacità mentale che fa di lui un “animale razionale”. L’essere persona, per l’embrione, non è, come dice Lalli, una «futura proprietà», ma una proprietà attuale, anche se sono future – ma già realmente presenti in potenza – le manifestazioni in cui questo essere persona si concretizzerà e si manifesterà.

L’esempio di John Harris – il fatto che siamo potenzialmente morti non autorizza a trattarci già adesso come morti – è solo un frutto dell’equivoco che abbiamo evidenziato: l’embrione non va trattato come persona perché lo è potenzialmente, ma perché lo è già in atto. Ciò che è in potenza sono una serie di caratteri, racchiusi fin da ora nel suo Dna, che sono fin da ora ben determinati (a differenza della possibilità, che è indeterminata), e che è solo questione di tempo perché  si attuino. Sono fiducioso che Lalli si renda conto che la «crepa argomentativa» non è nel ragionamento dei critici dell’aborto!

Quanto all’argomento del violinista, francamente mi sembra che le differenze siano tante da rendere impraticabile il paragone. Basti pensare al fatto che nel caso dell’embrione esso è stato posto in vita dai genitori, e quindi anche dalla madre, che se ne è assunta in qualche modo la responsabilità.  La stessa differenza vale in pieno per l’esempio che tira in ballo Henry Fonda. In entrambi i casi, si prescinde dal fatto che – mentre nessuno può dirsi responsabile, neppure in senso meramente oggettivo, del suo trovarsi collegato a un violinista moribondo o del bisogno che qualcuno possa avere del tocco della nostra fredda mano -  nel caso della generazione di altri esseri umani vi è un concorso, almeno oggettivo, dei genitori (non solo della madre!). Senza dire che, anche al di là di questa decisiva considerazione, questi argomenti delineano un modello di comunità umana totalmente individualista, in cui nessuno risponde a nessuno delle sue scelte, su cui sono convinto che anche Lalli potrebbe avere delle forti riserve.

Quanto, infine, allo scenario paradossale in cui la donna debba rispondere di omicidio per delle normali attività che hanno messo oggettivamente in pericolo la vita dell’embrione, si può semplicemente osservare, seguendo il buon senso, che neppure la madre che, in un incidente d’auto, causi indirettamente la morte del figlioletto già nato viene trattata come una infanticida (e questo non nasce dal fatto che il figlioletto già nato non è una persona).

Sono risposte che nascono, “a caldo” dalla lettura dell’articolo di Chiara Lalli. Non sono sicuro di averla convinta delle mie tesi. Ma ho la speranza, fondata sulla stima che ho nei suoi confronti, di averla aiutata a mettere meglio a fuoco le sue in un cammino di ricerca che credo ci accomuni.

 

 

* Docente di Storia e Filosofia nei Licei statali, già componente del Comitato Nazionale di Bioetica

 
     
     
     
 
 
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