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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 7 - Settembre 2008 
     
 

Quale fondazione per la norma morale?

di Pietro Cognato*

 

1. Premessa

 

«L’etica occupa finalmente i pensieri di molti. Ma non bisogna troppo gioirne»[1]. Questo è il pensiero di C. Vigna che noi condividiamo se è vero che si parla di etica così come si parla di salute quando la malattia ha il sopravvento. Se l’etica occupa i pensieri di molti, questi molti spesso non sanno che cosa è ciò di cui si occupano. La partecipazione appassionata sulle problematiche etiche, cioè, palesa certamente una riappropriazione della capacità che ognuno possiede di esercitare la facoltà di giudizio senza l’ausilio di un argomento d’autorità. E ciò costituisce ciò che potremmo chiamare l’etica della contemporaneità ovvero quel particolare rapporto che l’uomo contemporaneo percepisce e concepisce con i fenomeni morali. E’ vero anche che in concomitanza a ciò si è persa di vista la specifica competenza del moralista (filosofo o teologo che sia), quella che si costituisce di tutte quelle conoscenze che permettono di istruire una riflessione specificamente morale su un contesto operativo senza confusioni di contenuti (interdisciplinari) e di metodo (transdisciplinari).  S. Privitera utilizza l’immagine della piazza per descrivere la concezione che spesso dell’etica si ha, distinguendosi così da altre discipline che sono castelli arroccati sulla cima di un monte[2]. Altrimenti detto, in molte questioni che sollevano quesiti di natura etica non è raro trovare riflessioni non rigorosamente morali, perché dal punto di vista strettamente metodologico viene equivocata la specificità della riflessione morale, che è di natura assiologica e non di natura empirica o giuridica. Per fortuna non è sempre così[3]. È nostra intenzione riflettere su che cosa si intenda per norma morale e che cosa comporti una certa concezione della norma morale per l’intero concetto di etica.

Vorremmo espletare il compito di spiegare che cosa si intenda per norma morale perché siamo convinti che ci può essere confronto sul terreno delle problematiche etiche solo se si è d’accordo sul concetto di “norma morale” e che tale confronto può mantenere la sua natura di confronto se è animato dalla consapevolezza che esiste un dovere morale di orientarsi sempre verso il bene. E ciò ci rimanda all’unica questione metodologica dell’etica normativa consistente nel mettere a punto una pista argomentativa che sia all’altezza di fondare una norma morale.  

 

 

2. La natura della norma morale

 

La domanda “quale fondazione della norma morale può avere una risposta chiara solo se  ci chiediamo che norma è quella morale. E ciò perché la domanda “quale fondazione” non è mai irrelata dalla domanda “quale norma”. Se la norma viene intesa come una norma di natura sociologica oppure culturale, la sua fondazione sarà di tipo sociologico o culturale. Ritenendo scontato che cosa sia una norma morale,  non si riflette abbastanza sulla sua natura e quanto ciò sia vero è presto rinvenibile nel momento in cui al quesito: che cos’è una norma morale? le risposte sono tante quanti sono tutti coloro che vi tentano una soluzione. A questa difficoltà si aggiunge il fatto che la questione relativa alla possibilità di conoscere cosa sia una norma morale è correlata alla questione di sapere che cos’è l’etica. Perciò risulta indispensabile riformulare la domanda iniziale: non tanto “quale fondazione della norma” bensì “che cos’è la norma perché noi la possiamo fondare?

 

 

2.1. La norma è morale perché  è assoluta

 

Oggi si pensa che quello dell’assolutezza è un problema più che una soluzione di ciò che sia morale[4]. Pensiamo che un motivo per cui le questione bioetiche sono attraversate dal duopolio[5] “sacralità-qualità”, “laico-cattolico”, “disponibilità-indisponibilità” e caratterizzate da continue  relative rivendicazioni[6] della bontà dell’una e dell’altra parte, sta nel fatto che il termine assoluto venga assunto come discriminante tra alcune norme ed altre norme, tra quelle dette intrinsecamente cattive e quelle che prevedono delle eccezioni, giudicando quest’ultime, appunto, non assolute. Oggi si tende a non accettare la possibilità di formulare una norma assoluta a motivo della perfettibilità dell’intenzione umana. Poiché, cioè, si incontrano delle difficoltà nella realizzazione di un comportamento, ciò basta per rifiutare a priori che una norma morale sia assoluta. C’è da far notare che per quanto nessuno possieda gli elementi per giudicare correttamente l’intenzione con cui viene posta un’azione, tutti hanno la possibilità ma anche il dovere di formulare una norma sul comportamento, che può esprimersi solo in due modi: o quel comportamento è moralmente errato o è moralmente corretto.  Il rifugiarsi nell’atteggiamento interiore di una persona, il nascondersi dietro alla comprensione che si deve alla considerazione dell’incapacità della persona di essere perfetta, di non sapere sempre quello che è giusto fare o non fare, finisce per essere una chiara negazione dell’assolutezza della norma morale, della sua categoricità.

Ma, il problema della fondazione delle norme morali, lo abbiamo già annunciato sopra, è speculare al problema della fondazione della morale. Nel momento in cui si ritiene inutile e superfluo trovare un fondamento alla morale, si riterrà almeno eccessivo il tentativo di affibbiare la caratteristica di categoricità alle norme morali. È in gioco la pre-comprensione che si ha dell’etica come riflessione e come vita vissuta. Se guardiamo al fenomeno morale, vero ed unico oggetto dell’etica, e se questo fenomeno si sostanzia principalmente per il suo carattere valutativo, per la sua spinta verso l’ideale, per la sua non identificazione con il piano fattuale e, ancora, se i giudizi morali vengono elaborati come risposta a questo piano ideale, risulta indispensabile la caratteristica di assolutezza della norma morale, che tradisce l’in sé dei valori e smentisce il per me di un valore. La domanda da fare è: è il modello di etica che si assume che decide della pertinenza normativa del suo discorso oppure è l’insistenza normativa sul discorso morale in quanto tale che decide della natura del suo modello? Nella nostra intenzione la domanda è retorica in quanto l’etica non può che avere un fondamento assoluto che è, a sua volta, la condizione di possibilità per formulare un giudizio morale vero. Tra il fondamento assoluto e la possibilità di formulare un giudizio morale vero c’è una logica connessione che evita da una parte un’etica della situazione dall’altra il decisionismo. E questo non conduce inevitabilmente all’idea, allora, secondo cui una morale così concepita, cioè fondata sull’assoluto, conduca all’individuazione di norme morali assolute nel senso di intrinsecamente illecite distinte da quelle che prevedono eccezioni. Se assumiamo il termine assoluto come “incondizionatezza” e per incondizionatezza indichiamo quell’esigenza che si aggettiva come etica e che si distingue da tutte le esigenze che una persona può avvertire nella sua vita, allora non possiamo sfuggire alla seguente conclusione: non c’è etica senza assoluto a meno che non si voglia intendere per etica l’ethos vigente; e non vi sono norme morali non categoriche, a meno che il rifiuto della categoricità delle norme camuffi il rifiuto di un certo modo di fondare le norme morali. In questa prospettiva, quelle che vengono chiamate eccezioni alla norma sono solo nuove formulazioni normative e nient’altro che possano minare la categoricità della norma in quanto morale.

 

 

2.2. La norma è morale perché  è universalizzabile

 

La norma è  assoluta nel senso che essa per essere tale deve sottostare alla logica della universalizzabilità, che è quella che attiene al piano dell’idealità assiologica, piano, giustappunto, specifico dell’etica. Ne consegue che innanzitutto, la certezza sulla verità di una norma morale non è data dal consenso: la questione della fondazione delle norme, cioè, si consuma solo nei termini del “se”, “quando” e “perché” un’azione è lecita o illecita e non nei termini di ciò che afferma una maggioranza totale o parziale o una stessa minoranza. Significa, in secondo luogo, che per ogni comportamento umano c’è una ed una soltanto norma morale giusta. Il tentativo di oggi non è quello di superare qualsiasi prospettiva relativistica attraverso la negazione che vi possano essere due giudizi veri sulla medesima azione e il proponimento dell’etica nella globalità delle sue esigenze, anche e soprattutto quelle di natura normativa, ma quella di bypassare ciò riportando il discorso etico sul binario del “minimum”[7]. Dalla prospettiva che stiamo cercando di delineare il dissenso che vige riguardo a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato non deve essere interpretato come l’impossibilità di conoscere oggettivamente i valori, ma piuttosto come conseguenza della incompleta perché limitata capacità conoscitiva dell’uomo. La mutevolezza dei giudizi morali non nega affatto, sempre da questa prospettiva che è quella dell’universalizzabilità, la loro dimensione assiologica ma è la conseguenza della non sempre completa conoscenza di tutti quegli elementi utili alla loro formulazione. La difficoltà a formulare una norma di comportamento non deve essere il criterio di legittimazione dell’idea secondo cui tutto è relativo, soprattutto se ciò attiene alla responsabilità personale di fare o non fare un’azione, bensì deve nutrire il dovere della ricerca di ciò che è buono.

 

 

2.3. La norma è morale perché è morale

 

Da che cosa dipende l’assolutezza e l’universalizzabilità di una norma morale? La domanda è tautologica: l’assolutezza di una norma morale dipende dal fatto che la norma è morale. Non c’è morale senza assoluto, non ci sono norme morali non assolute. Allora, non è neanche la diversità di piste etico-normative battute che determina una maggiore assolutezza della norma morale. Se una pista o un’argomentazione è etico-normativa è già funzionale alla formulazione di norme morali assolute, altrimenti non sarebbe un’argomentazione etico-normativa ma relativistica. Le piste etico-normative in quanto tali convergono nel riconoscere il dovere di osservare la norma che viene formulata a partire dalle loro argomentazioni. La dimensione prospettica che qui  è stata evidenziata è quella della necessità di comprendere l’assolutezza come modo d’essere delle norme morali per meglio identificare la problematica di quale argomentazione etico-normativa porti ad una norma che sia l’esatta riformulazione prescrittiva di un giudizio morale. L’assolutezza di una norma morale non dipende dal tipo di procedimento etico-normativo in quanto il procedimento in se stesso non può avversare ciò per cui è stato posto, ovvero la formulazione  di una norma morale che in quanto tale è assoluta.

 

 

3. Deontologia e teleologia: il senso di un dibattito

 

Quali sono queste piste etico-normative? Fondamentalmente soltanto due se ci limitiamo a descriverne l’ossatura logica essenziale, sebbene si precisi che bisognerebbe anche distinguere in due modi le due piste, avendo quindi non solo due piste etico-normative ma due modi di utilizzare tale distinzione, uno filosofico ed uno teologico[8]: la pista deontologica e la pista teleologica. Quest’ultima diverge dalla prima perché fonda le norme morali sempre e per tutte le azioni sulle conseguenze di esse, invece la deontologia ritiene che almeno per alcune azioni non è necessario rifarsi alle conseguenze delle stesse. Le azioni che vanno valutate non in base alle conseguenze sono quelle concernenti la sfera della sessualità, della vita umana e del linguaggio, sebbene solo per quelle concernenti la sessualità, almeno il magistero cattolico, non si guarda veramente mai alle conseguenze. Le due piste sono per definizione contraddittorie nel metodo di individuazione delle norme ma convergono nel fatto che vogliono individuarle per osservarle. Sebbene sul piano normativo questo si traduca nella distinzione tra il modo di procedere relativistico e quello che è il modo di procedere delle due piste etico-normative che non è relativistico e sebbene ogni argomentazione non relativistica si identifichi sempre o come argomentazione deontologica o argomentazione teleologica, succede sistematicamente che il passaggio da una argomentazione deontologica a quella teleologica è letta come il passaggio da una argomentazione etico-normativa al relativismo. E’ automatico pensare che guardare alle conseguenze significa ritenere meno assoluta la norma. Ma se l’assolutezza di una norma, come abbiamo cercato di mostrare, non dipende dall’argomentazione ma da se stessa, il passaggio equivale semplicemente ad un cambiamento argomentativo nel momento in cui l’argomentazione fino a quel momento utilizzata si rivela poco efficace nell’aderire alla realtà che si sta giudicando. Quello che dovrebbe impegnare il dibattito non dovrebbe essere tanto se si è deontologi o se si è teleologi, bensì se i giudizi che le due piste etico-normative riescono sempre e comunque a formulare sono universalizzabili, quindi assoluti e morali. Il confronto sul piano argomentativo dovrebbe condurre alla verifica delle argomentazioni e alla disponibilità a cambiarle nel caso in cui dovessero risultare deficitarie del principio di universalizzabilità. Chiedersi perché il deontologo nel seguire la sua teoria è incapace di applicarla a tutti i contesti operativi potrebbe far molto riflettere, così come sarebbe più proficuo nel dibattito evidenziare che il giudizio operato in base alle conseguenze non si identifica tout court con uno sconto dell’assolutezza delle norme morali se queste conseguenze sono prese tutte in considerazione.  A motivo di ciò bisognerà chiedersi se il rifiuto dell’assolutezza predicata per le norme morali sia il rifiuto dell’argomentazione deontologica oppure il rifiuto della categoricità in sé delle norme morali e se l’affermazione dell’assolutezza si identifichi spesso e volentieri solo con l’argomentazione deontologica, escludendo da questa possibilità l’argomentazione teleologica.

 

 

 

 


 


* Istituto di Studi Bioetici “Salvatore Privitera”. Vicedirettore della rivista “βio-ethoς”

 

[1] C. Vigna (a cura di), Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, Milano 2001, VII.

[2] Cfr. S. Privitera, Sulla fenomenologia della prassi etico-scientifica, in «Rivista di teologia morale» 78 (1988) 77-98.

[3] In questo frangente storico fa piacere imbattersi in una pubblicazione di M. Reichlin sulla questione della interruzione volontaria della gravidanza che in assoluta controcorrente  si muove nella direzione di una riflessione eminentemente morale su un tema che è primariamente etico e solo in un secondo momento giuridico e non viceversa (cfr. M. Reichlin, Aborto. La morale oltre il diritto, Carocci, Roma 2007).

 

[4] Ci permettiamo di rimandare il lettore al nostro P. Cognato, Assoluto etico e norme morali. a proposito della struttura dicotomica della bioetica, in «βio-ethoϛ» I (2007) 1 7-16.

[5] Cfr. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondadori, Paravia 2005.

[6] Cfr. per la matrice cattolica il testo recentissimo di F. Bellino, Il paradigma biofilo. La bioetica cattolica romana, Cacucci Editore, Bari 2008; per la matrice laica rimane un testo di riferimento quello di U. Scarpelli, Bioetica laica, Baldini &Castoldi, Milano 1998.

[7] Un tentativo simile è presente in H. Küng, Perché un’etica mondiale? Religione ed etica in tempi di globalizzazione, Queriniana, Brescia 2004.

[8] Scrive Reichlin:  «La distinzione tra deontologia e teleologia è più complessa di quanto generalmente non si pensi. In primo luogo, perché con tale distinzione si indicano due scansioni diverse, benché chiaramente correlate. Da un lato, in ambito filosofico, essa è utilizzata per distinguere tra teorie morali fondate su un insieme di proposizioni che definiscono a priori ciò che è giusto e che vincolano al rispetto di tali principi la produzione di conseguenze positive, e teorie morali che invece definiscono il giusto in funzione della bontà delle conseguenze, ossia per le quali la validità di ogni principio normativo dipende dalle conseguenze di aderirvi o non aderirvi in ciascuna circostanza particolare. D’altro lato, in ambito teologico, la distinzione è utilizzata per distinguere due diversi modi di fondare o giustificare le norme morali materiali: la fondazione deontologica è basata sull’identificazione della “natura intrinseca” di certi atti — come ad esempio uccidere o mentire — che le norme rispettivamente vietano o impongono come doverosi, la fondazione teleologica è basata sull’attitudine degli atti vietati o imposti a promuovere certi valori o evitare certi disvalori. I due modi di utilizzare la distinzione non sono identici, ma chiaramente si richiamano l’un l’altro» (M. Reichlin, Sulla fondazione e la validità delle norme morali: tra deontologia e teleologia, in «Questioni di Bioetica» (il presente numero).

 
     
     
     
 
 
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