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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 7 - Settembre 2008 
     
 

Sulla fondazione e la validità delle norme morali:
tra deontologia e teleologia

di Massimo Reichlin*

 

1. Tre significati di “teleologia”

 

La distinzione tra deontologia e teleologia è più complessa di quanto generalmente non si pensi. In primo luogo, perché con tale distinzione si indicano due scansioni diverse, benché chiaramente correlate. Da un lato, in ambito filosofico, essa è utilizzata per distinguere tra teorie morali fondate su un insieme di proposizioni che definiscono a priori ciò che è giusto e che vincolano al rispetto di tali principi la produzione di conseguenze positive, e teorie morali che invece definiscono il giusto in funzione della bontà delle conseguenze, ossia per le quali la validità di ogni principio normativo dipende dalle conseguenze di aderirvi o non aderirvi in ciascuna circostanza particolare. D’altro lato, in ambito teologico, la distinzione è utilizzata per distinguere due diversi modi di fondare o giustificare le norme morali materiali: la fondazione deontologica è basata sull’identificazione della “natura intrinseca” di certi atti — come ad esempio uccidere o mentire — che le norme rispettivamente vietano o impongono come doverosi, la fondazione teleologica è basata sull’attitudine degli atti vietati o imposti a promuovere certi valori o evitare certi disvalori.

I due modi di utilizzare la distinzione non sono identici, ma chiaramente si richiamano l’un l’altro: se, ad esempio, la norma “non uccidere” non si fonda — deontologicamente — sull’intuizione di un’intrinseca immoralità dell’uccidere, ma — teleologicamente — sul desiderio di promuovere il valore della vita, è lecito pensare che la norma stessa possa valere fintantoché e nei limiti in cui promuove al meglio tale valore. È cioè naturale ipotizzare che, se si danno casi in cui il valore della vita sia meglio promosso dall’uccidere anziché dal non uccidere, possa risultare giusto uccidere. Tipicamente, questo è il modo in cui un approccio teleologico giustifica eccezioni al “non uccidere”, come la legittima difesa o la pena di morte: in questi casi, uccidere l’ingiusto aggressore o il reo di crimini efferati protegge meglio (o per lo meno in misura altrettanto efficace) il valore della vita rispetto ad astenersi dall’uccisione.

Resta nondimeno possibile ipotizzare un approccio che accetti il secondo significato di teleologia senza adottare il primo: un approccio, quindi, che fondi le norme morali sulla promozione di certi valori, ma non faccia poi dipendere la loro osservanza dal livello di promozione del valore reso possibile nelle diverse circostanze. In sostanza, si può pensare di introdurre, nel contesto di una impostazione teleologica, un elemento a sua volta intuizionista, in base al quale i limiti di validità di una certa norma non andrebbero determinati empiricamente o a posteriori, ma potrebbero essere stabiliti a priori, indipendentemente dall’esperienza[1]; ad esempio, si potrebbe dire che un valore come quello della vita sia fondamentale e perciò vada sempre preordinato ad ogni altro, in modo da non consentire bilanciamenti con altri valori[2]. Proseguendo su questa linea “intuizionista” si potrebbe ulteriormente affermare che il valore della vita venga promosso al meglio astenendosi sempre e comunque dall’uccidere: in questo modo, si potrebbe escludere il bilanciamento anche all’interno del valore della vita, quando ad esempio si debba decidere quale sacrificare tra diverse vite in gioco. La prima di queste due opzioni configura una teoria teleologica che, stabilendo una gerarchia intuitiva a priori tra i valori, rifiuta la piena commensurabilità tra valori propria di altri approcci teleologici; pur affermando che la correttezza di un atto dipende unicamente dalle sue conseguenze, tale teoria fornisce un criterio a priori per sceverare conseguenze migliori e peggiori e non sembra esporsi al rischio di poter giustificare qualsiasi atto. La seconda opzione configura una teoria teleologica che, attraverso un ulteriore elemento intuitivo, tende a presentarsi addirittura come una forma di assolutismo, al pari di certe concezioni rigidamente deontologiche: in essa, infatti, c’è almeno una norma — tipicamente, la norma “non uccidere” — che vale incondizionatamente, ossia che nessuna circostanza rende lecito violare; pertanto, tale teoria chiaramente non si espone al rischio di giustificare qualsiasi atto in nome delle sue conseguenze[3].

Una volta distinti questi due aspetti della scansione tra deontologia e teleologia, si può ulteriormente osservare che il termine “teleologia”, o “etica teleologica” può anche essere inteso in un terzo senso, più ampio dei precedenti, ossia come atto a indicare ogni approccio etico che si fondi principalmente su un bene da compiere, o su un valore o uno scopo da realizzare, anziché su un dovere da rispettare o su un limite da non violare. In questo senso, si può definire teleologica una teoria morale come quella aristotelica che guarda principalmente ai modi per realizzare il fine di una vita umana pienamente riuscita e quindi alle virtù, come tratti di carattere che consentono di costruire in se stessi un certo tipo umano ideale; in questo contesto non è affatto in gioco in primo luogo la fondazione o i limiti di validità dell’una o dell’altra norma morale, ma l’orientamento più generale di una prospettiva morale. In questo senso, la quasi totalità delle etiche antiche e medievali è teleologica, mentre le teorie etiche moderne sono per lo più deontologiche, ossia intese a definire soprattutto una norma, possibilmente di valore universale, come requisito minimo a fronte del pluralismo morale e religioso e delle ricorrenti sfide scettiche.

Di fronte a questa complessità, può essere utile cercare di portare chiarezza introducendo una ulteriore distinzione lessicale. Si può cioè accettare il suggerimento di Elizabeth Anscombe di definire “consequenzialiste” quelle teorie che limitano la validità delle norme morali in ragione delle loro conseguenze[4]; quelle teorie, dunque, per le quali qualsiasi atto può essere giustificato dalla considerazione delle sue conseguenze, o dalla considerazione delle conseguenze derivanti dal rifiuto di compierlo. Se si ridefinisce in questo modo il primo dei due modi di intendere la teleologia identificati all’inizio, si possono distinguere teorie teleologiche di orientamento consequenzialista e teorie teleologiche di orientamento non consequenzialista: ad esempio, la teoria aristotelica è senza dubbio teleologica, ma è molto dubbio che possa definirsi consequenzialista; anzi, sembra proprio che si debba definire non consequenzialista, giacché afferma esplicitamente l’esistenza di atti che non si addicono, in quanto tali, allo spoudàios, e che quindi non possono essere giustificati dalle conseguenze derivanti dal rifiuto di compierli in certe circostanze[5]. Lo stesso — e a maggior ragione — si potrebbe dire per la teoria morale di Tommaso d’Aquino[6]. D’altro canto, l’utilitarismo è paradigmaticamente una teoria teleologica consequenzialista; non solo addita il fine ultimo della felicità universale come prospettiva generale cui deve tendere la vita morale, ma ritiene altresì che qualsiasi atto possa essere reso giusto dalle sue conseguenze in circostanze particolari, ossia che nessun atto possa essere escluso a priori, ma che tutti possano essere giustificati e perfino richiesti in vista della produzione della massima felicità aggregata.

Abbiamo qui dunque un nuovo termine per dire l’aspetto più immediatamente normativo collegato a certe prospettive teleologiche, mentre non abbiamo che un corrispettivo negativo (non consequenzialismo) per le teorie deontologiche. In effetti, alla complessità della questione va ancora aggiunta la singolare e ambigua vicenda del termine “deontologia” o “deontologismo”, vicenda che rende in generale problematico l’uso di questo termine. Come è noto ai più attenti — mentre la maggior parte non si rende conto dell’ironia intrinseca a questa vicenda lessicale — il termine deontology fu creato da quell’instancabile creatore di neologismi che fu Jeremy Bentham[7]: vale a dire, il fondatore ufficiale dell’utilitarismo, ossia di quella scuola di pensiero che più di ogni altra ha inteso rappresentare l’alternativa alla canonizzazione delle norme morali tradizionali e all’assolutismo implicito nella morale di senso comune — in altri termini, il fondatore della scuola più di ogni altra opposta al deontologismo! Bentham intendeva con deontology, in maniera etimologicamente del tutto appropriata, la scienza dei doveri, e in particolare la morale privata, da contrapporre all’etica politica presentata nel­l’In­tro­duzione ai principi della morale e della legislazione[8], ossia ai principi da porre a fondamento della riforma del diritto. In seguito, soprattutto grazie all’influenza di Henry Sidgwick, il termine divenne tuttavia sinonimo di “intuizionismo”, ossia di quel particolare “metodo dell’etica” in base al quale «noi abbiamo la capacità di vedere con chiarezza che certi tipi di azione sono giusti e ragionevoli in sé, indipendentemente dalle loro conseguenze»[9]; si tratta, come è evidente, di un particolare tipo di teoria non consequenzialista, una teoria che effettivamente rappresentava l’unica vera alternativa al­l’u­ti­li­tarismo nel dibattito anglosassone a cavallo tra ottocento e novecento[10], ma che certamente non può ambire a rappresentare in generale ogni teoria che si oppone al consequenzialismo. Infine, nel 1930 Charles Broad canonizzò la distinzione denoto­logia/teleologia, intendendo con il secondo termine l’utilitarismo e le altre forme di quel che poi Anscombe chiamerà “consequenzialismo” e con il primo qualsiasi teoria che si contrapponga ad esso[11]. In sostanza, l’uso invalso del termine “deontologia” risente del dibattito di inizio novecento successivo alla pubblicazione dei Principia Ethica di Moore, in cui si dava per scontato che l’agire razionale fosse quello produttivo delle migliori conseguenze, ed è perciò rimasto per lo più a indicare un “irrazionale” attaccamento alle norme, ovvero il rifiuto di produrre conseguenze aggregate migliori in nome di un autocompiaciuto desiderio di integrità morale, o ancora il semplice desiderio di non “sporcarsi le mani” nascosto dietro pretese ragioni agente-relative[12]. In altri termini, l’accezione odierna del termine “deontologia” nasce per differenza dal­l’idea utilitarista di una razionalità strumentale e massimizzante e sembra inestricabilmente legato ad una unilaterale insistenza sulle norme o sui diritti individuali, unita al rifiuto della pertinenza delle nozioni di fine, di bene e di virtù. Perciò, come si vedrà, è discutibile che le migliori alternative al consequenzialismo possano definirsi mediante questo termine.

 

2. Contro le impostazioni teleologiche

 

Torniamo alla contrapposizione iniziale che può ora essere riespressa come un contrasto tra intuizionismo e consequenzialismo: da un lato, l’idea che alcune norme fondamentali colgano intuitivamente la natura intrinseca di certi atti che perciò comandano incondizionatamente di compiere o (più spesso) di evitare; dall’altro, l’idea che tutte le norme abbiano un valore solo ipotetico e condizionale, il loro valore effettivo dipendendo in ogni caso dalle circostanze, ossia dal valore delle conseguenze derivanti dalla loro osservanza in ogni situazione specifica. Ora, è chiaro che la prima prospettiva si presta a significative obiezioni. Come è possibile pensare di cogliere una supposta natura metafisica di un atto umano come ad esempio la menzogna? E come pensare che tale natura sia di per sé tale da vietare in ogni caso che un atto simile possa essere compiuto?[13] E infine, come pensare che tra diversi precetti incondizionati così ricavabili possa non verificarsi mai un conflitto tale da obbligare ad una scelta, ad un bilanciamento tra opposte esigenze? È chiara perciò la pertinenza della posizione consequenzialista, e in particolar modo dell’utilitarismo: esso fornisce una misura comune per valutare le conseguenze e quindi ad un tempo per giustificare l’adozione di certe norme e per definirne i limiti di validità in ciascuna situazione. Una norma — ad esempio, “non uccidere” — è giustificata in quanto è in grado di produrre certe conseguenze positive per una comunità di esseri umani in cui venga riconosciuta e per lo più rispettata e può essere violata o limitata nel suo valore nei casi in cui tale violazione prometta di realizzare conseguenze complessive più positive rispetto al suo rispetto; in questo modo, si evita il ricorso a improbabili intuizioni metafisiche, si mostra la ragionevolezza intrinseca del seguire le norme morali e si evitano in linea di principio dilemmi morali insolubili derivanti dal conflitto tra norme incondizionate: se tutte le norme sono condizionate, non c’è mai un vero dilemma perché vale incondizionatamente solo il dovere di produrre le migliori conseguenze possibili.

La posizione utilitarista ha però gravi inconvenienti. Uno — cui allude anche P. Cognato nel discutere un testo di chi scrive[14] — è senz’altro la concezione relativamente povera di “conseguenze” da essa messa in gioco. Nella formulazione ottocentesca, l’u­ti­litarismo adottava una concezione edonista del bene: l’unica cosa che vale in sé, ossia che non viene ricercata come mezzo in vista di qualcosa d’altro, è il piacere, da intendersi nel senso più ampio di uno stato di soddisfazione o di benessere derivante dalle più varie esperienze fisiche, psicologiche e spirituali. Questa teoria è oggi largamente screditata — anche se non manca chi ancora la sostiene in qualche raffinata versione[15] — e infatti gli utilitaristi contemporanei tendono per lo più a sostituirla con una teoria del tutto neutra, che fa leva sulle preferenze: il nome del bene, in questa prospettiva, non è definibile, ma va lasciato alla libera scelta di ciascuno; ciò che un utilitarista coscienzioso deve massimizzare non è dunque il piacere o la felicità ma le preferenze, o meglio, la rimanenza di preferenze soddisfatte su preferenze frustrate per tutti gli individui coinvolti[16]. In questa prospettiva, si adotta appunto un concetto “effettuale” e non “valoriale” di conseguenze, un’unità di misura altrettanto povera della concezione benthamiana di piacere, perché definita in maniera puramente soggettiva. Ecco dunque l’idea[17] di definire le conseguenze in termini valoriali, dando così ben maggiore solidità e pertinenza all’approccio consequenzialista: le conseguenze non sono cose estrinseche da produrre, ma valori da realizzare e disvalori da evitare; la teleologia si fonda dunque su una solida teoria del bene, nella forma di una dispiegata teoria dei valori.

In questo modo, sembra che l’etica teleologica possa da un lato differenziarsi in generale dal consequenzialismo, riconoscendo assolutezza – o quasi-assolutezza — alle norme relative al valore fondamentale della vita, dall’altro differenziarsi in particolare dall’utilitarismo, in quanto rifiuta la sua inadeguata concezione del bene per fondarsi su una solida teoria dei valori. Questo approccio è davvero in grado di ovviare alle critiche che vengono avanzate nei confronti del consequenzialismo? Credo che, per rispondere a questa domanda, si impongano due osservazioni.

In primo luogo, è vero che l’etica teleologica così ricostruita evita il consequenzialismo, ma, come si è già osservato, può farlo solo perché ammette lo stesso tasso di intuizionismo che veniva biasimato nell’approccio “deontologico”: come facciamo, infatti, a sapere che, ad esempio, la conoscenza è un valore mentre, in ipotesi, la sperimentazione delle forme più disparate di esercizio della sessualità non lo è? Di più: quando si dia un conflitto tra diversi valori riconosciuti, ciascuno producibile attraverso diverse scelte disponibili all’agente, come facciamo a sapere quale scelta produrrebbe maggior valore? Che cosa fornisce un’unità di misura atta a rendere comparabili tra loro i valori? A questo riguardo, la teoria teleologica fondata su una concezione valoriale delle conseguenze non può che offrire le sue sensate intuizioni circa l’importanza dell’uno o dell’altro aspetto della vita umana o la priorità dell’uno o dell’altro valore; intuizioni però sufficientemente vaghe da poter essere messe in discussione da intuizioni di segno contrario. L’aspetto attraente di teorie in generale così poco attraenti come l’utili­tarismo edonistico e quello preferenzialista consiste appunto nel fornire un’u­nità di misura comune relativamente agevole da calcolare (il piacere da un lato, la soddisfazione delle preferenze dall’altro) per rendere possibile il calcolo dell’utilità complessiva realizzata mediante le diverse scelte. Più si complica la teoria del bene, ossia del massimizzando nella funzione di utilità, più diventa difficile ordinare gerarchicamente le scelte; prova ne sia la scarsa fortuna arrisa al cosiddetto utilitarismo ideale che, all’ini­zio del ‘900, sembrava poter soppiantare il “grezzo” utilitarismo classico[18].

A questo si potrebbe rispondere, come già osservato, facendo notare che, per la teoria in questione, esiste comunque un valore che va posto in cima alla scala dei valori e ciò consente da un lato di definire in maniera abbastanza affidabile delle regole di priorità, dall’altro di porre un assoluto al centro del sistema normativo. Se diciamo che la vita è il valore supremo, potremo dire che non è mai lecito uccidere; e se si pone il caso in cui si debba uccidere una persona per salvarne un maggior numero, si potrà rispondere che il valore della vita non può essere promosso attraverso una sua diretta violazione. A questo però si può replicare osservando i) che è dubbio che una simile risposta possa esser fatta valere nel contesto di una concezione della razionalità come quella adottata dalle teorie teleologiche: se infatti ciò che è razionale e quindi anche giusto fare è promuovere al massimo grado certi valori, risulta difficile spiegare perché uccidere un’unica persona per salvare la vita ad altre diciannove[19] non costituisca un modo appropriato per tutelare al meglio il valore della vita; inoltre, ii) che è ancor più dubbio che un simile rispetto del valore della vita, del tutto svincolato da considerazioni relative alle conseguenze, possa esser fatto valere in un contesto di tipo teleologico: sembra piuttosto che, per difendere la concezione teleologica, ci si sia arroccati in una posizione di tipo deontologico…; infine, iii) che anche questa, nuovamente, è un’intuizione, e anche un’in­tui­zione discutibile: se davvero la vita è il valore supremo, allora non dovrebbero esistere situazioni in cui sia lecito anteporre ad essa un qualsiasi altro valore; che però così non sia è mostrato ad abundantiam dal caso del martirio[20], vuoi di tipo religioso vuoi di tipo politico-ideale, in cui altri valori vengono posti al di sopra di quello della vita e proprio tale sacrificio del “valore supremo” è oggetto del massimo apprezzamento.

Sembra perciò discutibile che la teoria dei valori consenta alla posizione teleologica in questione di evitare il consequenzialismo. In ogni caso, essa sembra vulnerabile ad una seconda osservazione critica; si tratta del fatto che questa forma di consequenzialismo valoriale condivide con il consequenzialismo standard una concezione “impersonale” dell’obbligo morale, in forza della quale i nostri doveri riguarderebbero certi stati di cose da produrre, ovvero lo stato finale del mondo realizzato mediante la nostra azione. In altri termini, ciò cui dovremmo sentirci obbligati è il fatto che, a seguito del nostro agire, il mondo contenga maggior valore di quanto non ne contenesse prima, che ci sia in esso maggiore solidarietà, più amicizia, o più rispetto per la vita di quanto non ce ne fosse prima. Non solo, come detto, questa concezione sembra necessariamente esposta alla deriva massimizzante ­— per cui di un valore si può comunque dire che più ce n’è, meglio è — ma essa sembra altresì scarsamente fedele alla fenomenologia dell’e­sperienza morale; quest’ultima sembra attestare la nascita dell’obbligo morale nel contesto di una relazione tra persone che si guardano con cura e si riconoscono vicendevolmente. La morale nasce dalle forme delle relazioni primarie di accudimento, al­l’in­­terno delle quali si esperisce il senso di essere dapprima oggetto di cura e quindi oggetto di attese di comportamenti di reciprocazione. L’obbligo morale è necessariamente personale, nel senso che non posso contrarlo nei confronti di uno stato del mondo impersonalmente considerato, ma soltanto nei confronti di qualcuno che posso guardare negli occhi e che mi può guardare chiedendo attenzione, rispetto, aiuto. È vero, naturalmente, che solo gli esseri umani realizzano valori e sono portatori di valori, ma lo stesso può dirsi del piacere e soprattutto delle preferenze; valori, stati mentali e preferenze hanno tutti a che vedere con gli esseri umani, ma se hanno importanza dal punto di vista morale è perché sono importanti in prima istanza i loro possessori; se è giusto e doveroso promuovere i valori umani e realizzare, ove possibile, interessi e preferenze altrui, è perché le persone sono realtà morali fondamentali, ossia le fonti di ogni altro valore, in quanto valori in sé, non scambiabili o commensurabili con altro. Se c’è qualcosa che ha valore, è perché ci sono le persone che non hanno valore (inteso come qualcosa di suscettibile di un più e un meno e quindi anche di essere scambiato), ma dignità, ossia trascendono ogni prezzo.

 

3. L’etica del rispetto per le persone

 

La posizione morale che ho cercato di elaborare in vari scritti — e in particolare in quello discusso da Cognato — muove da queste considerazioni di fondo per elaborare una prospettiva normativa che si ponga a distanza sia dal consequenzialismo, in tutte le sue forme, sia dal deontologismo intuizionista. Il primo, come detto, da un lato misconosce la natura profondamente interpersonale dell’obbligo morale, ipotizzando doveri nei confronti di stati finali del mondo, dall’altro finisce col relativizzare tutte le prescrizioni, rendendo ipotetico ogni dovere concreto e assolutizzando solo l’impe­ra­tivo di massimizzare l’utilità aggregata. Il secondo sembra invece fare eccessivamente leva sulla “natura metafisica” di certi atti e si espone al problema del conflitto tra principi. In effetti, le principali forme di deontologismo contemporaneo non offrono alcun criterio per dirimere i conflitti tra doveri considerati tutti prima facie[21]; come ha osservato Rawls, queste teorie «non includono né un metodo esplicito né regole di priorità per valutare questi principi l’uno rispetto all’altro: si può soltanto tracciare un equilibrio intuitivo, per mezzo di ciò che ci sembra approssimativamente più giusto»[22]. È vero, perciò, che tali prospettive si distinguono dall’utilitarismo, in quanto riconoscono diverse caratteristiche che rendono lecita un’azione, oltre a quella di produrre conseguenze benefiche: tuttavia, all’atto pratico è forte il rischio, per queste prospettive, di ricadere in una sorta di consequenzialismo di secondo livello nel momento in cui si tratti di dirimere i conflitti tra diversi doveri prima facie. In questi casi, sembra che queste prospettive non possano far altro che indirizzare al compimento del dovere “più forte” o che si presenta alla coscienza “con più urgenza”, il che, se non costituisce una caduta nel soggettivismo di un’ipotetica “percezione morale”[23], sembra doversi interpretare sostanzialmente come un appello a “pesare” le conseguenze[24].

L’idea che ho cercato di sviluppare — sulla scia di un’interpretazione senza dubbio non canonica dell’etica kantiana[25] — è quella di muovere dall’idea della natura personale dell’obbligo morale e cioè dalla peculiare “natura” delle persone, che le rende appunto dei soggetti morali. Dalla considerazione del valore incondizionato delle persone — un valore, o meglio, una dignità che non può essere stricto sensu dimostrata, ma che può essere ammessa sulla scorta di considerazioni altamente ragionevoli — segue il principio fondamentale dell’etica che, riprendendo una formulazione kantiana ed esplicitandone il valore tutt’altro che meramente formale, impone di rispettare le persone come fini in sé, ossia come realtà che, con la loro semplice esistenza, impongono vincoli al perseguimento di ogni scopo, fosse anche lo scopo “morale” della realizzazione di certi valori, ovvero della realizzazione di stati del mondo contenenti certe quantità di valore. Il principio, in altri termini afferma che, nel pur doveroso sforzo di realizzare una pluralità di scopi e di valori umani, devono essere escluse quelle azioni nelle quali una o più persone vengono trattati come meri mezzi in vista di tali scopi, ossia vengono strumentalizzati, ridotti dalla loro dignità di persone al rango di pure cose, in nome del perseguimento di un certo fine.

In questa prospettiva, dire che certe azioni sono sbagliate indipendentemente dal calcolo delle loro conseguenze in un caso specifico non significa adottare una tesi deontologica nel senso intuizionistico che è stato indicato. Al contrario, l’etica del rispetto per le persone è a suo modo una prospettiva teleologica, nel terzo dei sensi individuati[26]. Essa muove da una concezione del problema morale come questione in prima persona relativa a come si dovrebbe vivere e risponde che si deve mirare a vivere una vita buona; definisce quindi buona una vita vissuta in pieno accordo con la ragione e perciò stesso degna o meritevole di essere felice; passa quindi a ricercare il criterio razionale per essere meritevoli di tale felicità e lo individua nello sviluppare un piano di vita e quindi ricercare la felicità per sé e per chi ci è più vicino vincolando tale scopo al rispetto dell’umanità in se stessi e in ogni altra persona. Non c’è dunque, in primo luogo, la prospettiva del dovere in quanto tale, ma piuttosto la prospettiva di una vita buona che non può essere tale se non riconosce l’altro da sé come un altro sé, ossia come una persona meritevole di rispetto al pari di sé e con cui relazionarsi positivamente per accedere ad un senso pienamente umano della vita. Anche per l’etica del rispetto per le persone c’è dunque la prospettiva della ricerca di una vita buona, ma vincolata al rispetto per l’umanità come un fine in sé[27]. D’altro canto, va sottolineato che se l’idea di una vita buona è in certo senso un fine che può essere prodotto e concretamente realizzato, il senso in cui le persone sono in se stesse dei fini è radicalmente diverso, giacché non si tratta di scopi nel senso di qualcosa che possa essere prodotto o realizzato, ma piuttosto di una realtà pre-esistente che deve essere rispet­tata. Un fine in sé, in altri termini, orienta l’azione non come un oggetto del fare e del produrre, ma come una causa finale pre-esistente, ossia come ciò in vista di cui mette conto agire e ricercare ogni altro fine[28].

Se dunque l’etica del rispetto per le persone presenta indubbiamente aspetti teleologici, si tratta di una teleologia del tutto differente rispetto a quella canonicamente elaborata dal consequenzialismo, per il quale il bene è sempre qualcosa da produrre e quanto maggiore è il bene prodotto, tanto migliore risulta l’azione; in questo caso, invece, la relazione corretta nei confronti del fine non è quella di produrlo, né tanto meno di massimizzarlo, ma quella di trattarlo con rispetto, ossia aver cura del suo valore e del­la sua dignità pre-esistenti. Questo implica, in particolare, che assumere l’umanità o la dignità umana come fine in sé non significa puntare a produrre uno stato del mon­do in cui tale dignità è maggiormente promossa o meno violata rispetto ad altri stati del mondo possibili, perché ciò sarebbe compatibile con l’accettare di infliggere violazioni minori al fine di evitarne di maggiori; assumere la dignità umana come fine in sé significa invece considerare il rispetto per le persone come un vincolo collaterale (side-constraint) alle azioni e agli scopi da perseguire, e non come uno scopo tra altri da promuovere.

Nella prospettiva che è stata sinteticamente abbozzata, le diverse regole morali vengono tutte derivate dal principio fondamentale del rispetto. “Non rubare”, “non mentire” o “mantieni le promesse” sono tutte determinazioni più specifiche e concrete del­l’im­perativo fondamentale del rispetto per le persone; tale imperativo non si declina unicamente nella dimensione negativa della presa di distanza e dell’astensione dal­l’interferenza, ma anche in quella positiva della promozione, della tutela e della benevolenza[29]: rispettare la dignità personale come un fine in sé significa necessariamente im­pegnarsi a promuovere le condizioni perché le persone possano svilupparsi e “fiorire” in tutte le loro dimensioni, inclusa quella ricerca del bene attraverso un proprio specifico piano di vita che reca il marchio dell’individualità di ciascuno. In questo senso, le singole norme morali non sono giustificate dall’intuizione di una caratteristica “metafisica” di certi atti, ma dal fatto che certi atti sono espressioni inequivocabili di certi tipo di rapporto tra le persone. Ad esempio, la norma “non mentire” non è giustificata dal fatto che la menzogna contraddirebbe la presunta natura e il presunto fine del linguaggio e della comunicazione umana, ossia la comunicazione della verità e la manifestazione ad altri del proprio pensiero; è invece giustificata dal fatto che la menzogna, sia che intenda indurre nell’altro credenze false per meglio perseguire certi scopi sia che si limiti a prendersene gioco, tratta l’altro come uno strumento al servizio degli scopi del mentitore: in questo senso, si tratta di un atto irrispettoso, che non corrisponde adeguatamente all’umanità che è nell’altro, ma la abbassa indebitamente.

Si potrebbe osservare che anche questa posizione conserva un elemento “intuitivo”; è mediante l’intuizione, infatti, che si può specificare il principio fondamentale, indicando quali atteggiamenti e relazioni interpersonali siano coerenti con esso e quali non lo siano. Tuttavia, ci sono almeno due aspetti che pongono l’etica del rispetto per le persone in una posizione migliore rispetto all’intuizionismo. In primo luogo il fatto che, nella prospettiva qui delineata, ogni pretesa “intuizione” è sottoposta al vaglio del principio del rispetto: o meglio, mentre l’intuizionismo adotta le varie norme come proposizioni immediatamente vere, senza offrire un criterio per distinguere le intuizioni affidabili da quelle che non lo sono, l’etica del rispetto per le persone giustifica le norme in quanto interpretazioni più o meno affidabili del requisito del rispetto, ossia di che cosa comporti il riconoscimento della persona come realtà dotata di una dignità che merita di essere promossa e che non deve in nessun caso essere strumentalizzata, offre. In secondo luogo, il rimando al principio del rispetto offre altresì un criterio per dirimere i conflitti tra le diverse norme o fonti di obbligazione; in linea generale, infatti, le norme negative, che proibiscono comportamenti direttamente lesivi della dignità personale, hanno la precedenza su quelle positive, che impongono di perseguire scopi atti a promuovere il benessere o la felicità delle persone.

Questo, d’altro canto, non significa che i cosiddetti “doveri perfetti” prevalgano in ogni caso su quelli imperfetti. Come accade nell’esempio classico, discusso tra gli altri da Kant[30], dal delinquente che bussi alla porta cercando la sua vittima, possono darsi situazioni in cui un dovere imperfetto come quello di salvare la vita di un altro da un pericolo imminente entri in conflitto con un dovere perfetto come quello di non mentire. Che cosa giustifica il fatto che, in casi come questi, sia lecito mentire, come la coscienza morale di ciascuno concordemente afferma? Non il fatto che, ad una comparazione di costi e benefici, risulti che il danno determinato dall’esistenza nel mondo di una menzogna in più, unito a quello che si ipotizza possa derivare dalla perdita di fiducia nella veridicità delle persone sia inferiore a quello che sarebbe derivato dal­l’uc­cisione della vittima da parte del delinquente. Ciò che giustifica la menzogna in questo caso è invece il fatto che, come lo stesso Kant aveva inizialmente riconosciuto[31], il delinquente non ha diritto alla verità e non può legittimamente attendersi che gli venga detta; in senso stretto, quindi, il dovere perfetto non si applica perché la relazione è già pregiudicata dalla violenza minacciata dall’aggressore[32]. Anzi, il rispetto per la mia persona e per la persona della vittima impongono che si menta al delinquente: in caso contrario, a) la mia stessa veridicità verrebbe strumentalizzata dal delinquente per un fine direttamente contrario al rispetto per le persone; b) lo scopo positivo di difendere e promuovere la vita umana da pericoli esterni, scopo che pure segue dal principio del rispetto[33], non verrebbe adeguatamente promosso.

 

4. La norma “non uccidere”: valore e limiti

 

Veniamo dunque, nello specifico, alla norma “non uccidere” che è oggetto della citata discussione di Cognato. Uno degli obiettivi dello scritto discusso da Cognato è mostrare come, in molte discussioni contemporanee sulla vita e la morte, si muova da una concezione fuorviante del perché è sbagliato uccidere; uccidere − ho sostenuto[34] − non è sbagliato per via del male che infligge all’individuo che viene ucciso o ai suoi familiari: questa può certamente essere una considerazione aggiuntiva non irrilevante, ma altrettanto certamente non è la ragione principale per cui uccidere è sbagliato. Se infatti valesse tale ragione consequenzialista, si dovrebbe dire che un’uccisione è tanto più sbagliata quanto più lunga e di valore si può presupporre che sarebbe stata la vita della vittima; con conseguenze difficili da accettare, come quella per cui uccidere un anziano diventa moralmente più accettabile che uccidere un giovane e quella per cui uccidere un individuo affetto da una patologia tale da rendere la sua vita futura un tormento non può in nessun modo essere sbagliato. A questa interpretazione consequenzialista del “non uccidere” ho contrapposto un’interpretazione basata sulla concezione personale dell’obbligo che sta alla base dell’etica del rispetto per le persone. In questa prospettiva la norma “non uccidere” è particolarmente rilevante perché proibisce quella che è senza dubbio l’espressione più inequivoca e paradigmatica di un atteggiamento moralmente ingiustificabile. Uccidere l’altro significa infatti realizzarne la massima strumentalizzazione, negarne in maniera radicale e definitiva la dignità, ridurre il rilievo e l’importanza della sua presenza a semplice intralcio nel perseguimento dei miei progetti. Se è vero che ogni norma morale negativa può essere riespressa in positivo, la norma che esprime in positivo il contenuto morale del “non uccidere” potrebbe essere solo lo stesso principio fondamentale del rispetto per la persona. Perciò, è chiaro che si tratta di un’esigenza morale del massimo valore che tendenzialmente non ammette eccezioni.

Nondimeno, sappiamo anche che eccezioni a questa norma sono sempre state ammesse nella tradizione morale; in particolare, le tre eccezioni relative all’uccisione per legittima difesa, all’uccisione nel contesto di una guerra giusta e alla pena di morte. Se la norma “non uccidere” è la prima e più importante specificazione del principio fondamentale, che cosa può giustificare che la si violi? Essenzialmente, un ragionamento analogo a quello già avanzato a proposito della norma “non mentire”. Infatti, ciò che giustifica l’uccisione per legittima difesa non è un calcolo comparativo dei beni che così verrebbero promossi, per ipotesi maggiori rispetto a quelli realizzabili accettando la mia morte. Se così fosse, sarebbe giustificato ad uccidere l’ingiusto aggressore solo chi disponesse di argomenti sufficienti a sostenere che la propria morte sarebbe un male maggiore della morte del suo aggressore; il che naturalmente è ben difficile da stabilire e presupporrebbe un calcolo notevolmente complesso, implicante anche le relazioni che ciascuno dei due intrattiene, il rispettivo contributo dei due al benessere dell’uma­ni­tà e molte altre considerazioni empiriche. In realtà, tutto ciò è irrilevante; ciò che giustifica l’uccisione è il fatto che, come nel caso del delinquente e della menzogna, l’aggressore ha già violato con la sua aggressione il rispetto per le persone, ponendomi nella condizione di scegliere tra lasciargli perseguire i suoi scopi fino all’eventuale soppressione della mia vita e reagire all’aggressione, eventualmente fino a sopprimere la sua vita. Ciò che giustifica l’uccisione è dunque: a) il fatto che l’uccisione si configuri come una reazione ad una violazione del rispetto già realizzata dall’aggressore; b) il fatto che non ci sia una terza possibilità alternativa tra correre il rischio di morire e correre quello di uccidere. In ogni caso, la legittima difesa deve costituire una extrema ratio, ossia può spingersi a infliggere dolore, sofferenza o morte all’altro solo nel caso in cui sia strettamente necessario per evitare un rischio paragonabile in termini di dolore, sofferenza o morte.

È questa una differenza essenziale che intercorre tra la legittima difesa e la guerra giusta − nei casi in cui si configuri appunto come guerra difensiva, ossia come reazione ad un’iniziativa bellicosa già in atto in mancanza di reali alternative −  da un lato, e la pena di morte dall’altro: quest’ultimo caso non sembra essere giustificato, giacché, in presenza di validi mezzi alternativi per evitare il reiterarsi delle violazioni del rispetto, l’uccisione assume un significato puramente retributivo e vendicativo. D’altro canto, vi è un’ulteriore importante distinzione: nel caso della legittima difesa e in quello della guerra giusta, la reazione è volta ad impedire che l’ingiusto aggressore realizzi effettivamente quegli obiettivi moralmente ingiustificati che si propone e che non ha ancora realizzato (o per lo meno non pienamente, nel caso della guerra giusta); nel caso della pena di morte, invece, il delinquente ha già realizzato i propri obiettivi e non c’è nulla che possa impedirgli di portarli a termine: ciò che la pena di morte consente di fare, a parte operare una vendetta postuma, è semmai di impedirgli di reiterare i propri delitti − ciò che per l’appunto può fare anche l’istituto del carcere a vita, che però ha il vantaggio di consentire di sperare in una progressiva reintegrazione sociale del reo.

Se dunque l’uccisione per legittima difesa e quella nel contesto di una guerra giusta sono moralmente giustificabili, non si può dire che la norma “non uccidere” abbia un valore materialmente assoluto, ossia che non vi siano casi in cui essa ammetta eccezioni. Questo lo si può dire tutt’al più della norma “non uccidere persone innocenti”. Si può peraltro osservare che questa riformulazione tradizionale non implica affatto che chi è “non innocente” per ciò stesso possa essere ucciso; in linea generale, infatti, anche chi è colpevole è protetto dalla norma “non uccidere” e, come si è visto, questo vale anche di chi è colpevole di crimini efferati. È solo nel caso in cui a) si tratti di ostacolare il colpevole nel compimento del crimine e b) non vi siano possibilità alternative per farlo, che l’uccisione del colpevole è giustificata. Dunque, la noma “non uccidere” vale anche a proteggere i colpevoli; tuttavia, trova almeno due eccezioni che restringono la sua assolutezza. Essa è dunque materialmente non assoluta. In Aborto. La morale oltre il diritto ho affermato che, poiché si lega così strettamente al principio del rispetto, la norma “non uccidere” – anche senza la tradizionale qualificazione che vi aggiunge “persone innocenti” – è tuttavia “simbolicamente” assoluta[35]; che cosa si deve intendere con questa espressione? Questa espressione va intesa nel senso che incondizionato deve essere l’atteggiamento di rispetto per la persona, di cui appunto la norma “non uccidere” è espressione eminente e paradigmatica. Ciò significa, in primo luogo, che si dovrebbe avere la massima prudenza nell’accettare eccezioni alla norma; in secondo luogo, che si dovrebbe avere la massima attenzione la valutare l’inesistenza di possibilità alternative; in terzo luogo, che si dovrebbe in ogni caso continuare a rispettare la dignità anche di colui che viene ucciso. Quest’ultimo punto è particolarmente importante, giacché nella riflessione tradizionale si è spesso affermato che il reo perde la propria dignità di persona tout court e può pertanto essere trattato né più né meno come una bestia[36]. Ciò è del tutto fuorviante nel caso della pena di morte, che per i motivi detti, non può essere moralmente giustificata; ma è altresì sbagliato nel caso della legittima difesa e nei casi di guerra giusta ad essa analoghi, giacché la liceità di uccidere non significa liceità di usare ogni tipo di violenza, né tanto meno di torturare e nemmeno di infliggere qualunque tipo di sofferenza che non sia strettamente necessaria all’unico obiettivo moralmente appropriato, ossia quello di porre l’altro in condizioni di non nuocere. In questo senso, si può dire che il principio del rispetto continui a valere e non debba essere violato anche nel caso in cui l’uccisione sia giustificata; l’altro resta comunque un individuo la cui dignità lo rende meritevole di un’attenzione particolare: può essere posto in condizioni di non nuocere, se necessario uccidendolo, ma non può essere violentato o ridotto ad una cosa. È il valore stesso della persona, valore certamente offuscato ma non per questo estinto nell’ingiusto aggressore, che giustifica l’uccisione; infatti, uccido per preservare la mia stessa dignità di persona, giacché non sono obbligato a rispettare (o ad amare) l’altro più di me stesso, ma solo quanto me stesso. Perciò, tale valore, che è nella persona altrui come nella mia, deve essere rispettato nel momento stesso in cui riconosco la necessità di porre fine alla sua vita[37]. In questo senso, l’atteggiamento espresso dalla norma “non uccidere” non può mai cessare di farsi valere e di orientare le scelte di un individuo coscienzioso; questo è ciò che si intendeva, forse in maniera non del tutto perspicua, parlando dell’assolutezza “simbolica” del “non uccidere”.

 

5. Conclusioni

 

In conclusione, l’etica del rispetto per le persone respinge con forza il consequenzialismo, in quanto riconosce l’esistenza di atti che non possono essere giustificati da nessuna quantità di bene che ne potrebbe derivare; si tratta degli atti in cui una persona viene trattata come un semplice mezzo. In particolare, ciò si traduce nella particolare forza che deve essere attribuita alla norma “non uccidere”. Tale forza non impedisce però che, nei casi in cui una persona sia attualmente responsabile di un grave pericolo per altri, ci si opponga ad essa con la forza, giungendo anche ad ucciderla se non vi sono alternative. L’incondizionatezza vera e propria vale non tanto per l’espressione specifica del principio nelle diverse norme materiali – tranne quelle relative all’inflizione diretta e gratuita di sofferenze a individui innocenti, come nel caso della tortura, della violenza sessuale e della riduzione in schiavitù – ma per il principio stesso, che comanda di rispettare le persone anche quando non si può evitare di intervenire per impedire loro di causare gravi danni ad altri. D’altro canto, l’etica del rispetto per le persone ha il vantaggio, rispetto al deontologismo intuizionistico standard, di fare minor affidamento sull’intui­zio­ne di pretese proprietà essenziali degli atti, e di fornire un principio sovraordinato rispetto alle varie norme materiali, per giudicare eventuali conflitti tra di esse[38]. Infine, l’etica del rispetto per le persone non è un’etica deontologica in senso tradizionale; è sen­z’altro un’etica non consequenzialista, ma fonda i vincoli alla produzione di buone conseguenze su una concezione a sua volta teleologica: da un lato, sull’idea di una vita buona, intesa come una vita razionale e meritevole di essere felice, dall’altro sulla nozione di fine in sé, ossia di un fine non da produrre ma da rispettare[39].

 


 


* Professore Associato di Etica della vita, Facoltà di Filosofia, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano.

 

[1] O anche, come avviene in certe forme di utilitarismo delle regole, come una sintesi dell’esperienza, sintesi che però non può essere posta in discussione nelle singole circostanze da ciascun agente, ma che va semplicemente applicata.

[2] Questa opzione è chiaramente presente, ad esempio, nel saggio di P. Cognato, La vita e l’etica: per una congiunzione bioetica, «Questioni di bioetica», 2007, n. 4, centrato appunto sulla dignità fondamentale della vita e non della persona.

[3] Questa seconda opzione non è invece adottata da P. Cognato, per il quale l’assolutezza etica si colloca solo sul piano meta-etico e non su quello della norma morale; vedi in proposito Assoluto etico e norme morali. A proposito della struttura dicotomica della bioetica, «βio-ethoς», 1, 2007, pp. 7-16.

[4] La proposta fu avanzata nel noto articolo programmatico Modern Moral Philosophy, «Philosophy», 33, 1958, pp. 1-19.

[5] Scrive ad esempio Aristotele: «non ogni azione né ogni passione ammette la medietà: alcune, infatti, implicano già nel nome la malvagità, come la malevolenza, l’impudenza, l’invidia, e, tra le azioni, l’a­dul­te­rio, il furto, l’omicidio. […] Dunque, non è mai possibile, riguardo ad esse, agire rettamente, ma si è sempre in errore» (Etica Nicomachea, II, 6, 1107a, trad. it. Rusconi, Milano 1987, p. 133). E ancora: «ad alcuni atti, senza dubbio, non è possibile lasciarsi costringere, ma piuttosto bisogna morire pur tra terribili sofferenze» (Ibid., III, 1, 1110a, p. 149).

[6] In Tommaso, in effetti, ad una struttura teleologica fondata sull’idea di un fine (la duplice beatitudo, perfecta e imperfecta) da conseguire e di principi interni che abilitano a raggiungerlo (le virtù morali), si associa chiaramente l’elemento deontologico dei principi esterni (la legge e la grazia) che da un lato definiscono i vincoli entro cui perseguire il bene, dall’altro aiutano concretamente ad agire in maniera retta. Si veda in particolare la struttura della Summa Theologiae I-II.

[7] Deontology è il titolo dell’opera incompiuta cui Bentham lavorò a più riprese dal 1814 al 1831; è stata pubblicata postuma nel 1834 da J. Bowring, in una versione fortemente manomessa dell’editore, e in versione critica solo nel 1983; si veda la trad. it. Deontologia, La Nuova Italia, Firenze 2000.

[8] J. Bentham, Introduction to the Principles of Morals and Legislation (1789), trad. it. Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Utet, Torino 1998.

[9] H. Sidgwick, The Methods of Ethics (1874), Macmillan, London 19077; trad. it. I metodi dell’etica, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 232.

[10] In particolare nelle formulazioni fornite da autori come H. Prichard, Does Moral Philosophy Rest on A Mistake?, «Mind», 21, 1912, pp. 21-37 (rist. in Id., Moral Obligation, Clarendon Press, Oxford 1949, pp. 1-17) e W. D. Ross, The Right and the Good, Clarendon Press, Oxford 1930; trad. it. Il giu­sto e il bene, Bompiani, Milano 2004.

[11] Vedi C. B. Broad, Five Types of Ethical Theories, Routledge & Kegan Paul, London 1930.

[12] Sull’accusa di autocompiacimento, vedi B. Williams Utilitarianism and Moral Self-Indulgence, in H. D. Lewis (a cura di), Contemporary British Philosophy, Allen and Unwin, London 1976, pp. 306-321 (trad. it. Utilitarismo e autocompiacimento morale, in Sorte mo­rale, Il Saggiatore, Milano 1987, pp. 59-75); sulle ragioni agente-relative, vedi T. Nagel, The View From Nowhere, Oxford University Press, New York 1986 (trad. it. Uno sguardo da nessun luogo, Il Sag­gia­tore, Milano 1991).

[13] È questa, tuttavia, la conclusione tradizionale. Nei termini di Tommaso: «Mendacium autem est malum ex genere. Est enim actus cadens super indebitam materiam, cum enim voces sint signa naturaliter intellectuum, innaturale est et indebitum quod aliquis voce significet id quod non habet in mente» (Summa Theologiae, II-II, q. 110, art. 3, resp.); il che significa, come sosterrà poi anche Kant, che non è lecito mentire (ma, eventualmente, solo dissimulare) nemmeno per salvare qualcun altro: «Non licet autem aliqua illicita inordinatione uti ad impediendum nocumenta et defectus aliorum […]. Et ideo non est licitum mendacium dicere ad hoc quod aliquis alium a quocumque periculo liberet. Licet tamen veritatem occultare prudenter sub aliqua dissimulatione, ut Augustinus dicit, contra mendacium» (Ibid., ad 4um).

[14] Vedi P. Cognato, recensione del volume Aborto. La morale oltre il diritto, «Questioni di Bioetica», 2008, n. 5.

[15] Vedi ad esempio J. J. C. Smart, An Outline of a System of Utilitarian Ethics, in J. J. C. Smart, B. Williams, Utilitarian­ism: For and Against, Cam­bridge Uni­ver­sity Press, Cam­brid­ge 1973 (trad. it. Li­nea­menti di un sistema etico-uti­li­tari­sta, in Utilitarismo: un confronto, Bibliopo­lis, Na­po­li 1985, pp. 33-97) e R. B. Brandt, Two Concepts of Utility, in Morality, Utilitarianism and Rights, Cambridge University Press, Cambridge 1992, pp. 158-175.

[16] Così, tra gli altri, R. M. Hare, Moral Thinking. Levels, Method, and Point, Clarendon Press, Oxford 1981 (trad. it. Il pensiero morale. Livelli, metodo, scopi, il Mulino, Bologna 1989) e J. C. Harsanyi, nei saggi raccolti in L’utilitarismo, Il Saggiatore, Milano 1988.

[17] Vedi P. Cognato La vita e l’etica: per una congiunzione bioetica, cit., nonché la recensione citata alla nota 13.

[18] L’espressione “utilitarismo ideale” è spesso associata alla teoria presentata da G. E. Moore nei Principia Ethica (Cambridge University Press, Cambridge 1903; trad. it. Principia Ethica, Bompiani, Milano 1964), anche se si tratta di un’etichetta introdotta qualche anno dopo da H. Rashdall, A Theory of the Good and the Right, Clarendon Press, Oxford 1907 (2 voll.).

[19] Come si ipotizza nel noto caso discusso da B. Williams, A Critique of Utilitarianism, in J. J. C. Smart, B. Williams, Utilitarianism: For and against, cit.; trad. it. Una critica dell’utilitarismo, in Utilitarismo: un con­fronto, cit., pp. 103-168.

[20] Come è ammesso anche da P. Cognato, La vita e l’etica: per una congiunzione bioetica, cit.

[21] Il riferimento principale è nuovamente a W. D. Ross, Il giusto e il bene, cit.

[22] J. Rawls, A Theory of Justice, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge 1971; trad. it. Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Mi­la­no 1982, p. 45.

[23] Vedi in proposito la deriva “particolarista”, ossia favorevole ad un puro deontologismo dell’atto e contraria alle norme generali (pur nel contesto di una metaetica realista), di neointuizionisti recenti come J. Dancy, Ethics Without Principles, Oxford University Press, Oxford 2004. Il riferimento al «senso del nostro dovere nelle particolari circostanze» come «unica guida che abbiamo per il nostro dovere» è già presente in Ross (Il giusto e il bene, cit., p. 52), con riferimento ad Aristotele (Etica Nicomachea, II, 9, 1109 b e IV, 5, 1126 b; in verità, in entrambi i passi Aristotele lascia alla sensazione il giudizio sul giusto mezzo nell’e­ser­cizio della virtù, mentre riconosce, come detto, che ci sono azioni e passioni in cui non va ricercata la medietà, in quanto sono in se stesse malvagie).

[24] Questo appello è peraltro a sua volta incline al soggettivismo, se si considera la notevole difficoltà, tradizionalmente avanzata nei confronti dell’utilitarismo, collegata al computo delle conseguenze: non esistendo alcun metodo scientifico di previsione, occorre basarsi sulla rilevazione delle conseguenze attese, cioè probabili; ma la stessa distinzione tra probabilità e improbabilità non può essere tracciata scientificamente e risente della percezione soggettiva: in ogni caso, l’inopinato realizzarsi di una conseguenza improbabile può spesso ribaltare totalmente le previsioni e rendere ciò che ex ante pareva giusto radicalmente sbagliato ex post.

[25] Ma non per questo priva di buone ragioni storiografiche: vedi in proposito A. W. Wood, Kant’s Ethical Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1999; Id., Kantian Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 2008.

[26] Cfr. B. Herman, Leaving Dentology Behind, in The Practice of Moral Judgment, Harvard University Press, Cam­bridge 1993, pp. 208-240.

[27] Come scrive Kant: «per ciò che concerne la materia, la dottrina della virtù non deve essere considerata unicamente come una dottrina del dovere in generale, ma anche come una teleologia: l’uomo è obbligato infatti a concepire se stesso e a concepire inoltre tutti gli altri uomini come un suo proprio fine» (Metaphysik der Sitten [1797]; trad. it. Metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 264). E ancora: «l’etica si può anche definire il sistema dei fini della ragion pura pratica» (Ibid., p. 229).

[28] La distinzione tra le due forme di teleologia è stata chiarita nella maniera più efficace da A. Donagan, Human Ends and Human Actions: An Exploration in St. Tho­mas’s Treat­ment, Aquinas Lecture Series, Mar­quette University Press, Milwau­kee 1985 (rist. in Id., Reflections on Philosophy and Religion, Oxford Uni­versity Press, Oxford 1999, pp. 81-97). Cfr. A. W. Wood, Kantian Ethics, cit., pp. 85-87.

[29] Come avviene anche in Kant, per il quale l’atteggiamento nei confronti degli altri uomini è definito dai due principi del rispetto e dell’amore, che si richiamano vicendevolmente: «Grazie al principio dell’a­mo­re reciproco gli uomini sono destinati ad avvicinarsi l’un l’altro continuamente, e grazie al rispetto, che essi si debbono vicendevolmente, a tenersi a una certa distanza l’uno dall’altro; e se mai una di queste due gran­di forze morali venisse a mancare, allora “il nulla (dell’immoralità) inghiottirebbe nelle sue fauci l’in­tero regno degli esseri (morali), come una goccia d’acqua”, se mi è lecito adoperare qui parole di Haller adattate al mio caso» (Metafisica dei costumi, cit., p. 316).

[30] Si veda il noto saggio Über ein vermeintes Recht aus Menschliebe zu lügen [1797], trad. it. Sopra un preteso diritto di mentire per amore dell’umanità, in I. Kant, Scritti di storia, di politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 209-214.

[31] Se si deve prestare fede a quanto riportato in Eine Vorlesung Kants über Ethik, Pan Verlag Rolf Heise, Berlin; trad. it. Lezioni di etica, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 260.

[32] F. Allegri ha obiettato ad un’analoga difesa qualificata dell’assolutismo, da me svolta in altro contesto, che essa renderebbe doveroso dire la verità ad un paziente con un tumore maligno cui restano pochi anni da vivere (vedi Le ragioni del pluralismo morale. William David Ross e le teorie dei doveri prima facie, Carocci, Roma 2005, pp. 50-51); l’obiezione è del tutto priva di efficacia, dal momento che proprio tale diritto alla verità — sia pure nei modi e nei tempi più appropriati e meno traumatizzanti — è stato rivendicato a gran voce nella bioetica contemporanea.

[33] Come è noto, nella Metafisica dei costumi Kant afferma che nel concetto della ragione pratica rientrano due fini – intesi come scopi da promuovere – che delineano una teleologia oggettiva o morale, ossia non indicano scopi «che l’uomo si propone secondo gli impulsi della sua natura sensibile, ma degli oggetti del libero arbitrio esercitantesi secondo le proprie leggi, e che l’uomo deve proporsi come fini» (Metafisica dei costumi, cit., p. 234). Tali fini, ossia la perfezione propria e la felicità altrui, sono all’origine dei doveri imperfetti, di obbligazione larga, caratteristici della dottrina della virtù. Perciò, mi sembra scorretto dire – come fa L. Sesta, Quali conseguenze? A proposito del modello etico teleologico adottato in “La vita e l’etica: per una congiunzione bioetica” di Pietro Cognato, «Questioni di bioetica», 2007, n. 4, sulla scia di R. Spaemann, Das Natürliche und das Vernüftige. Aufsätze zur Antropologie, Piper, München 1987 (trad. it. Natura e ragione. Saggi di antropologia, EDUSC, Roma 2006) – che la dignità umana indica solo ciò che non dobbiamo mai fare per non violarla e non ciò che dobbiamo fare per promuoverla; è vero che la dignità è un limite già dato e non un obiettivo da realizzare, ma è altrettanto vero che restano sempre da realizzare condizioni di vita individuale e sociale che corrispondano adeguatamente alla dignità già da sempre sussistente in ogni uomo: perciò, la dignità umana sta alla base non solo di doveri negativi, ma anche di doveri positivi.

[34] Si veda in proposito Aborto. La morale oltre il diritto, cit., pp. 24-32.

[35] Ibid., p. 31.

[36] Questo soprattutto nel contesto della discussione sulla pena di morte. Vedi in particolare Tommaso d’Aquino: «homo peccando ab ordine rationis recedit, et ideo decidit a dignitate humana, prout scilicet homo est naturaliter liber et propter seipsum existens, et incidit quodammodo in servitutem bestiarum, ut scilicet de ipso ordinetur secundum quod est utile aliis […]. Et ideo quamvis hominem in sua dignitate manentem occidere sit secundum se malum, tamen hominem peccatorem occidere potest esse bonum, sicut occidere bestiam, peior enim est malus homo bestia, et plus nocet» (Summa Theologiae, II-II, q. 64, art. 2, ad 3um). Va detto che in queste espressioni tommasiane, obiettivamente “scandalose” per una sensibilità contemporanea, gioca un ruolo molto rilevante la concezione “sacralizzata” del potere civile che lo riconduce direttamente a Dio; Tommaso probabilmente non avrebbe detto nulla di simile in riferimento al diritto di una qualsiasi cittadino alla legittima difesa.

[37] Resta peraltro sempre aperta la possibilità di una testimonianza straordinaria della dignità umana dell’altro attuata mediante la rinuncia volontaria al diritto alla legittima difesa, quando il pericolo riguardi solo la propria persona. Su questo punto vedi le riflessioni di M. Chiodi, Etica della vita. Le sfide della pratica e le questioni teoriche, Glossa, Milano 2006, pp. 293-298.

[38] Più complesso il discorso per quanto riguarda la teoria giusnaturalistica classica. Questa, almeno nella formulazione dovuta a Finnis, Grisez e Boyle, condivide l’intento anticonsequenzialista della teoria kantiana; tuttavia, volendo evitare la classica accusa di naturalismo, appoggia la formulazione delle norme materiali sull’individuazione di alcuni beni umani fondamentali che costituirebbero ragioni per agire da rispettare sempre e che non possono mai essere violate (vedi ad esempio J. M. Finnis, Natural Law and Natural Rights (1980), Clarendon Press, Oxford 19927; trad. it. Legge naturale e diritti naturali, Giappichelli, Torino 1996 e G. Grisez, J. Boyle, J. M. Finnis, Practical Principles, Moral Truth, and Ultimate Ends, «Ame­rican Journal of Jurisprudence», 32, 1987, pp. 99-151). Da un lato, questa teoria sembra far ricorso all’intuizione in misura pressoché analoga al deontologismo intuizionista, dall’altro essa sembra indebitamente indirizzare il rispetto, anziché alla persona, ai beni umani fondamentali, di cui peraltro afferma problematicamente l’incommensurabilità e l’incomparabilità. Dal nostro punto di vista, se la vita è un valore moralmente impegnativo non lo è in quanto tale o astrattamente, ma in quanto si tratta della vita di un essere umano; ciò che merita rispetto è l’umanità nella persona dell’altro, che ha dignità e non valore; se la vita, come gli altri beni individuati dalla teoria neoclassica, ha valore è perché la persona è all’origine di ogni valore. Il rimando alla norma fondamentale di rispettare le persone dà un criterio per la soluzione di quelli che appaiono come conflitti tra i beni umani che la teoria neoclassica, avendone negato la comparabilità, deve trattare attraverso strumenti tradizionali e altamente problematici come il principio del duplice effetto. Una posizione intermedia tra la prospettiva kantiana e quella giusnaturalista sembra all’opera nell’im­por­tante e profondo saggio di L. Sesta, Quali conseguenze?, cit.; Sesta fa ampio riferimento a Finnis e alla prospettiva neoclassica nell’ottica della critica al teleologismo, ma poi conclude affermando la centralità della dignità della persona, anziché del valore della vita, in piena convergenza con il principio kantiano del rispetto.

[39] Questo scritto trae origine dalla discussione svolta nell’incontro dedicato a Quale fondazione per la norma “non uccidere”?, svoltosi a Palermo l’8 maggio 2008 e organizzato dall’As­sociazione Thomas International; l’autore desidera ringraziare in particolare P. Cognato, L. Sesta e G. Palumbo per le osservazioni critiche avanzate in quella sede.

 
     
     
     
 
 
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