Sulla fondazione e la validità delle norme morali:
tra deontologia e teleologia
di Massimo Reichlin*
1. Tre significati di “teleologia”
La distinzione tra deontologia e teleologia è più
complessa di quanto generalmente non si pensi. In
primo luogo, perché con tale distinzione si indicano
due scansioni diverse, benché chiaramente correlate.
Da un lato, in ambito filosofico, essa è utilizzata
per distinguere tra teorie morali fondate su un
insieme di proposizioni che definiscono a priori ciò
che è giusto e che vincolano al rispetto di tali
principi la produzione di conseguenze positive, e
teorie morali che invece definiscono il giusto in
funzione della bontà delle conseguenze, ossia per le
quali la validità di ogni principio normativo dipende
dalle conseguenze di aderirvi o non aderirvi in
ciascuna circostanza particolare. D’altro lato, in
ambito teologico, la distinzione è utilizzata per
distinguere due diversi modi di fondare o giustificare
le norme morali materiali: la fondazione deontologica
è basata sull’identificazione della “natura
intrinseca” di certi atti — come ad esempio uccidere o
mentire — che le norme rispettivamente vietano o
impongono come doverosi, la fondazione teleologica è
basata sull’attitudine degli atti vietati o imposti a
promuovere certi valori o evitare certi disvalori.
I due modi di utilizzare
la distinzione non sono identici, ma chiaramente si
richiamano l’un l’altro: se, ad esempio, la norma “non
uccidere” non si fonda — deontologicamente —
sull’intuizione di un’intrinseca immoralità
dell’uccidere, ma — teleologicamente — sul desiderio
di promuovere il valore della vita, è lecito pensare
che la norma stessa possa valere fintantoché e nei
limiti in cui promuove al meglio tale valore. È cioè
naturale ipotizzare che, se si danno casi in cui il
valore della vita sia meglio promosso dall’uccidere
anziché dal non uccidere, possa risultare giusto
uccidere. Tipicamente, questo è il modo in cui un
approccio teleologico giustifica eccezioni al “non
uccidere”, come la legittima difesa o la pena di
morte: in questi casi, uccidere l’ingiusto aggressore
o il reo di crimini efferati protegge meglio (o per lo
meno in misura altrettanto efficace) il valore della
vita rispetto ad astenersi dall’uccisione.
Resta nondimeno possibile
ipotizzare un approccio che accetti il secondo
significato di teleologia senza adottare il primo: un
approccio, quindi, che fondi le norme morali sulla
promozione di certi valori, ma non faccia poi
dipendere la loro osservanza dal livello di promozione
del valore reso possibile nelle diverse circostanze.
In sostanza, si può pensare di introdurre, nel
contesto di una impostazione teleologica, un elemento
a sua volta intuizionista, in base al quale i limiti
di validità di una certa norma non andrebbero
determinati empiricamente o a posteriori, ma
potrebbero essere stabiliti a priori,
indipendentemente dall’esperienza;
ad esempio, si potrebbe dire che un valore come quello
della vita sia fondamentale e perciò vada sempre
preordinato ad ogni altro, in modo da non consentire
bilanciamenti con altri valori.
Proseguendo su questa linea “intuizionista” si
potrebbe ulteriormente affermare che il valore della
vita venga promosso al meglio astenendosi sempre e
comunque dall’uccidere: in questo modo, si potrebbe
escludere il bilanciamento anche all’interno del
valore della vita, quando ad esempio si debba decidere
quale sacrificare tra diverse vite in gioco. La prima
di queste due opzioni configura una teoria teleologica
che, stabilendo una gerarchia intuitiva a priori tra i
valori, rifiuta la piena commensurabilità tra valori
propria di altri approcci teleologici; pur affermando
che la correttezza di un atto dipende unicamente dalle
sue conseguenze, tale teoria fornisce un criterio a
priori per sceverare conseguenze migliori e peggiori e
non sembra esporsi al rischio di poter giustificare
qualsiasi atto. La seconda opzione configura una
teoria teleologica che, attraverso un ulteriore
elemento intuitivo, tende a presentarsi addirittura
come una forma di assolutismo, al pari di certe
concezioni rigidamente deontologiche: in essa,
infatti, c’è almeno una norma — tipicamente, la norma
“non uccidere” — che vale incondizionatamente, ossia
che nessuna circostanza rende lecito violare;
pertanto, tale teoria chiaramente non si espone al
rischio di giustificare qualsiasi atto in nome delle
sue conseguenze.
Una volta distinti questi
due aspetti della scansione tra deontologia e
teleologia, si può ulteriormente osservare che il
termine “teleologia”, o “etica teleologica” può anche
essere inteso in un terzo senso, più ampio dei
precedenti, ossia come atto a indicare ogni approccio
etico che si fondi principalmente su un bene da
compiere, o su un valore o uno scopo da realizzare,
anziché su un dovere da rispettare o su un limite da
non violare. In questo senso, si può definire
teleologica una teoria morale come quella aristotelica
che guarda principalmente ai modi per realizzare il
fine di una vita umana pienamente riuscita e quindi
alle virtù, come tratti di carattere che consentono di
costruire in se stessi un certo tipo umano ideale; in
questo contesto non è affatto in gioco in primo luogo
la fondazione o i limiti di validità dell’una o
dell’altra norma morale, ma l’orientamento più
generale di una prospettiva morale. In questo senso,
la quasi totalità delle etiche antiche e medievali è
teleologica, mentre le teorie etiche moderne sono per
lo più deontologiche, ossia intese a definire
soprattutto una norma, possibilmente di valore
universale, come requisito minimo a fronte del
pluralismo morale e religioso e delle ricorrenti sfide
scettiche.
Di fronte a questa
complessità, può essere utile cercare di portare
chiarezza introducendo una ulteriore distinzione
lessicale. Si può cioè accettare il suggerimento di
Elizabeth Anscombe di definire “consequenzialiste”
quelle teorie che limitano la validità delle norme
morali in ragione delle loro conseguenze;
quelle teorie, dunque, per le quali qualsiasi atto può
essere giustificato dalla considerazione delle sue
conseguenze, o dalla considerazione delle conseguenze
derivanti dal rifiuto di compierlo. Se si ridefinisce
in questo modo il primo dei due modi di intendere la
teleologia identificati all’inizio, si possono
distinguere teorie teleologiche di orientamento
consequenzialista e teorie teleologiche di
orientamento non consequenzialista: ad esempio, la
teoria aristotelica è senza dubbio teleologica, ma è
molto dubbio che possa definirsi consequenzialista;
anzi, sembra proprio che si debba definire non
consequenzialista, giacché afferma esplicitamente
l’esistenza di atti che non si addicono, in quanto
tali, allo spoudàios, e che quindi non possono
essere giustificati dalle conseguenze derivanti dal
rifiuto di compierli in certe circostanze.
Lo stesso — e a maggior ragione — si potrebbe dire per
la teoria morale di Tommaso d’Aquino.
D’altro canto, l’utilitarismo è paradigmaticamente una
teoria teleologica consequenzialista; non solo addita
il fine ultimo della felicità universale come
prospettiva generale cui deve tendere la vita morale,
ma ritiene altresì che qualsiasi atto possa essere
reso giusto dalle sue conseguenze in circostanze
particolari, ossia che nessun atto possa essere
escluso a priori, ma che tutti possano essere
giustificati e perfino richiesti in vista della
produzione della massima felicità aggregata.
Abbiamo qui dunque un
nuovo termine per dire l’aspetto più immediatamente
normativo collegato a certe prospettive teleologiche,
mentre non abbiamo che un corrispettivo negativo (non
consequenzialismo) per le teorie deontologiche. In
effetti, alla complessità della questione va ancora
aggiunta la singolare e ambigua vicenda del termine
“deontologia” o “deontologismo”, vicenda che rende in
generale problematico l’uso di questo termine. Come è
noto ai più attenti — mentre la maggior parte non si
rende conto dell’ironia intrinseca a questa vicenda
lessicale — il termine deontology fu creato da
quell’instancabile creatore di neologismi che fu
Jeremy Bentham:
vale a dire, il fondatore ufficiale dell’utilitarismo,
ossia di quella scuola di pensiero che più di ogni
altra ha inteso rappresentare l’alternativa alla
canonizzazione delle norme morali tradizionali e
all’assolutismo implicito nella morale di senso comune
— in altri termini, il fondatore della scuola più di
ogni altra opposta al deontologismo! Bentham intendeva
con deontology, in maniera etimologicamente del
tutto appropriata, la scienza dei doveri, e in
particolare la morale privata, da contrapporre
all’etica politica presentata nell’Introduzione
ai principi della morale e della legislazione,
ossia ai principi da porre a fondamento della riforma
del diritto. In seguito, soprattutto grazie
all’influenza di Henry Sidgwick, il termine divenne
tuttavia sinonimo di “intuizionismo”, ossia di quel
particolare “metodo dell’etica” in base al quale «noi
abbiamo la capacità di vedere con chiarezza che certi
tipi di azione sono giusti e ragionevoli in sé,
indipendentemente dalle loro conseguenze»;
si tratta, come è evidente, di un particolare tipo di
teoria non consequenzialista, una teoria che
effettivamente rappresentava l’unica vera alternativa
all’utilitarismo nel dibattito anglosassone a
cavallo tra ottocento e novecento,
ma che certamente non può ambire a rappresentare in
generale ogni teoria che si oppone al
consequenzialismo. Infine, nel 1930 Charles Broad
canonizzò la distinzione denotologia/teleologia,
intendendo con il secondo termine l’utilitarismo e le
altre forme di quel che poi Anscombe chiamerà
“consequenzialismo” e con il primo qualsiasi teoria
che si contrapponga ad esso.
In sostanza, l’uso invalso del termine “deontologia”
risente del dibattito di inizio novecento successivo
alla pubblicazione dei Principia Ethica di
Moore, in cui si dava per scontato che l’agire
razionale fosse quello produttivo delle migliori
conseguenze, ed è perciò rimasto per lo più a indicare
un “irrazionale” attaccamento alle norme, ovvero il
rifiuto di produrre conseguenze aggregate migliori in
nome di un autocompiaciuto desiderio di integrità
morale, o ancora il semplice desiderio di non
“sporcarsi le mani” nascosto dietro pretese ragioni
agente-relative.
In altri termini, l’accezione odierna del termine
“deontologia” nasce per differenza dall’idea
utilitarista di una razionalità strumentale e
massimizzante e sembra inestricabilmente legato ad una
unilaterale insistenza sulle norme o sui diritti
individuali, unita al rifiuto della pertinenza delle
nozioni di fine, di bene e di virtù. Perciò, come si
vedrà, è discutibile che le migliori alternative al
consequenzialismo possano definirsi mediante questo
termine.
2. Contro le impostazioni teleologiche
Torniamo alla
contrapposizione iniziale che può ora essere
riespressa come un contrasto tra intuizionismo e
consequenzialismo: da un lato, l’idea che alcune norme
fondamentali colgano intuitivamente la natura
intrinseca di certi atti che perciò comandano
incondizionatamente di compiere o (più spesso) di
evitare; dall’altro, l’idea che tutte le norme abbiano
un valore solo ipotetico e condizionale, il loro
valore effettivo dipendendo in ogni caso dalle
circostanze, ossia dal valore delle conseguenze
derivanti dalla loro osservanza in ogni situazione
specifica. Ora, è chiaro che la prima prospettiva si
presta a significative obiezioni. Come è possibile
pensare di cogliere una supposta natura metafisica di
un atto umano come ad esempio la menzogna? E come
pensare che tale natura sia di per sé tale da vietare
in ogni caso che un atto simile possa essere compiuto?
E infine, come pensare che tra diversi precetti
incondizionati così ricavabili possa non verificarsi
mai un conflitto tale da obbligare ad una scelta, ad
un bilanciamento tra opposte esigenze? È chiara perciò
la pertinenza della posizione consequenzialista, e in
particolar modo dell’utilitarismo: esso fornisce una
misura comune per valutare le conseguenze e quindi ad
un tempo per giustificare l’adozione di certe norme e
per definirne i limiti di validità in ciascuna
situazione. Una norma — ad esempio, “non uccidere” — è
giustificata in quanto è in grado di produrre certe
conseguenze positive per una comunità di esseri umani
in cui venga riconosciuta e per lo più rispettata e
può essere violata o limitata nel suo valore nei casi
in cui tale violazione prometta di realizzare
conseguenze complessive più positive rispetto al suo
rispetto; in questo modo, si evita il ricorso a
improbabili intuizioni metafisiche, si mostra la
ragionevolezza intrinseca del seguire le norme morali
e si evitano in linea di principio dilemmi morali
insolubili derivanti dal conflitto tra norme
incondizionate: se tutte le norme sono condizionate,
non c’è mai un vero dilemma perché vale
incondizionatamente solo il dovere di produrre le
migliori conseguenze possibili.
La posizione utilitarista
ha però gravi inconvenienti. Uno — cui allude anche P.
Cognato nel discutere un testo di chi scrive
— è senz’altro la concezione relativamente povera di
“conseguenze” da essa messa in gioco. Nella
formulazione ottocentesca, l’utilitarismo adottava
una concezione edonista del bene: l’unica cosa che
vale in sé, ossia che non viene ricercata come mezzo
in vista di qualcosa d’altro, è il piacere, da
intendersi nel senso più ampio di uno stato di
soddisfazione o di benessere derivante dalle più varie
esperienze fisiche, psicologiche e spirituali. Questa
teoria è oggi largamente screditata — anche se non
manca chi ancora la sostiene in qualche raffinata
versione
— e infatti gli utilitaristi contemporanei tendono per
lo più a sostituirla con una teoria del tutto neutra,
che fa leva sulle preferenze: il nome del bene, in
questa prospettiva, non è definibile, ma va lasciato
alla libera scelta di ciascuno; ciò che un
utilitarista coscienzioso deve massimizzare non è
dunque il piacere o la felicità ma le preferenze, o
meglio, la rimanenza di preferenze soddisfatte su
preferenze frustrate per tutti gli individui coinvolti.
In questa prospettiva, si adotta appunto un concetto
“effettuale” e non “valoriale” di conseguenze,
un’unità di misura altrettanto povera della concezione
benthamiana di piacere, perché definita in maniera
puramente soggettiva. Ecco dunque l’idea
di definire le conseguenze in termini valoriali, dando
così ben maggiore solidità e pertinenza all’approccio
consequenzialista: le conseguenze non sono cose
estrinseche da produrre, ma valori da realizzare e
disvalori da evitare; la teleologia si fonda dunque su
una solida teoria del bene, nella forma di una
dispiegata teoria dei valori.
In questo modo, sembra che l’etica teleologica possa
da un lato differenziarsi in generale dal
consequenzialismo, riconoscendo assolutezza – o
quasi-assolutezza — alle norme relative al valore
fondamentale della vita, dall’altro differenziarsi in
particolare dall’utilitarismo, in quanto rifiuta la
sua inadeguata concezione del bene per fondarsi su una
solida teoria dei valori. Questo approccio è davvero
in grado di ovviare alle critiche che vengono avanzate
nei confronti del consequenzialismo? Credo che, per
rispondere a questa domanda, si impongano due
osservazioni.
In primo luogo, è vero che l’etica teleologica così
ricostruita evita il consequenzialismo, ma, come si è
già osservato, può farlo solo perché ammette lo stesso
tasso di intuizionismo che veniva biasimato
nell’approccio “deontologico”: come facciamo, infatti,
a sapere che, ad esempio, la conoscenza è un valore
mentre, in ipotesi, la sperimentazione delle forme più
disparate di esercizio della sessualità non lo è? Di
più: quando si dia un conflitto tra diversi valori
riconosciuti, ciascuno producibile attraverso diverse
scelte disponibili all’agente, come facciamo a sapere
quale scelta produrrebbe maggior valore? Che cosa
fornisce un’unità di misura atta a rendere comparabili
tra loro i valori? A questo riguardo, la teoria
teleologica fondata su una concezione valoriale delle
conseguenze non può che offrire le sue sensate
intuizioni circa l’importanza dell’uno o dell’altro
aspetto della vita umana o la priorità dell’uno o
dell’altro valore; intuizioni però sufficientemente
vaghe da poter essere messe in discussione da
intuizioni di segno contrario. L’aspetto attraente di
teorie in generale così poco attraenti come
l’utilitarismo edonistico e quello preferenzialista
consiste appunto nel fornire un’unità di misura
comune relativamente agevole da calcolare (il piacere
da un lato, la soddisfazione delle preferenze
dall’altro) per rendere possibile il calcolo
dell’utilità complessiva realizzata mediante le
diverse scelte. Più si complica la teoria del bene,
ossia del massimizzando nella funzione di utilità, più
diventa difficile ordinare gerarchicamente le scelte;
prova ne sia la scarsa fortuna arrisa al cosiddetto
utilitarismo ideale che, all’inizio del ‘900,
sembrava poter soppiantare il “grezzo” utilitarismo
classico.
A questo si potrebbe rispondere, come già osservato,
facendo notare che, per la teoria in questione, esiste
comunque un valore che va posto in cima alla scala dei
valori e ciò consente da un lato di definire in
maniera abbastanza affidabile delle regole di
priorità, dall’altro di porre un assoluto al centro
del sistema normativo. Se diciamo che la vita è il
valore supremo, potremo dire che non è mai lecito
uccidere; e se si pone il caso in cui si debba
uccidere una persona per salvarne un maggior numero,
si potrà rispondere che il valore della vita non può
essere promosso attraverso una sua diretta violazione.
A questo però si può replicare osservando i) che è
dubbio che una simile risposta possa esser fatta
valere nel contesto di una concezione della
razionalità come quella adottata dalle teorie
teleologiche: se infatti ciò che è razionale e quindi
anche giusto fare è promuovere al massimo grado certi
valori, risulta difficile spiegare perché uccidere
un’unica persona per salvare la vita ad altre
diciannove
non costituisca un modo appropriato per tutelare al
meglio il valore della vita; inoltre, ii) che è ancor
più dubbio che un simile rispetto del valore della
vita, del tutto svincolato da considerazioni relative
alle conseguenze, possa esser fatto valere in un
contesto di tipo teleologico: sembra piuttosto che,
per difendere la concezione teleologica, ci si sia
arroccati in una posizione di tipo deontologico…;
infine, iii) che anche questa, nuovamente, è
un’intuizione, e anche un’intuizione discutibile: se
davvero la vita è il valore supremo, allora non
dovrebbero esistere situazioni in cui sia lecito
anteporre ad essa un qualsiasi altro valore; che però
così non sia è mostrato ad abundantiam dal caso
del martirio,
vuoi di tipo religioso vuoi di tipo politico-ideale,
in cui altri valori vengono posti al di sopra di
quello della vita e proprio tale sacrificio del
“valore supremo” è oggetto del massimo apprezzamento.
Sembra perciò discutibile che la teoria dei valori
consenta alla posizione teleologica in questione di
evitare il consequenzialismo. In ogni caso, essa
sembra vulnerabile ad una seconda osservazione
critica; si tratta del fatto che questa forma di
consequenzialismo valoriale condivide con il
consequenzialismo standard una concezione
“impersonale” dell’obbligo morale, in forza della
quale i nostri doveri riguarderebbero certi stati di
cose da produrre, ovvero lo stato finale del mondo
realizzato mediante la nostra azione. In altri
termini, ciò cui dovremmo sentirci obbligati è il
fatto che, a seguito del nostro agire, il mondo
contenga maggior valore di quanto non ne contenesse
prima, che ci sia in esso maggiore solidarietà, più
amicizia, o più rispetto per la vita di quanto non ce
ne fosse prima. Non solo, come detto, questa
concezione sembra necessariamente esposta alla deriva
massimizzante — per cui di un valore si può comunque
dire che più ce n’è, meglio è — ma essa sembra altresì
scarsamente fedele alla fenomenologia dell’esperienza
morale; quest’ultima sembra attestare la nascita
dell’obbligo morale nel contesto di una relazione tra
persone che si guardano con cura e si riconoscono
vicendevolmente. La morale nasce dalle forme delle
relazioni primarie di accudimento, all’interno
delle quali si esperisce il senso di essere dapprima
oggetto di cura e quindi oggetto di attese di
comportamenti di reciprocazione. L’obbligo morale è
necessariamente personale, nel senso che non posso
contrarlo nei confronti di uno stato del mondo
impersonalmente considerato, ma soltanto nei confronti
di qualcuno che posso guardare negli occhi e che mi
può guardare chiedendo attenzione, rispetto, aiuto. È
vero, naturalmente, che solo gli esseri umani
realizzano valori e sono portatori di valori, ma lo
stesso può dirsi del piacere e soprattutto delle
preferenze; valori, stati mentali e preferenze hanno
tutti a che vedere con gli esseri umani, ma se hanno
importanza dal punto di vista morale è perché sono
importanti in prima istanza i loro possessori; se è
giusto e doveroso promuovere i valori umani e
realizzare, ove possibile, interessi e preferenze
altrui, è perché le persone sono realtà morali
fondamentali, ossia le fonti di ogni altro valore, in
quanto valori in sé, non scambiabili o commensurabili
con altro. Se c’è qualcosa che ha valore, è perché ci
sono le persone che non hanno valore (inteso come
qualcosa di suscettibile di un più e un meno e quindi
anche di essere scambiato), ma dignità, ossia
trascendono ogni prezzo.
3. L’etica del rispetto
per le persone
La posizione morale che ho
cercato di elaborare in vari scritti — e in
particolare in quello discusso da Cognato — muove da
queste considerazioni di fondo per elaborare una
prospettiva normativa che si ponga a distanza sia dal
consequenzialismo, in tutte le sue forme, sia dal
deontologismo intuizionista. Il primo, come detto, da
un lato misconosce la natura profondamente
interpersonale dell’obbligo morale, ipotizzando doveri
nei confronti di stati finali del mondo, dall’altro
finisce col relativizzare tutte le prescrizioni,
rendendo ipotetico ogni dovere concreto e
assolutizzando solo l’imperativo di massimizzare
l’utilità aggregata. Il secondo sembra invece fare
eccessivamente leva sulla “natura metafisica” di certi
atti e si espone al problema del conflitto tra
principi. In effetti, le principali forme di
deontologismo contemporaneo non offrono alcun criterio
per dirimere i conflitti tra doveri considerati tutti
prima facie;
come ha osservato Rawls, queste teorie «non includono
né un metodo esplicito né regole di priorità per
valutare questi principi l’uno rispetto all’altro: si
può soltanto tracciare un equilibrio intuitivo, per
mezzo di ciò che ci sembra approssimativamente più
giusto».
È vero, perciò, che tali prospettive si distinguono
dall’utilitarismo, in quanto riconoscono diverse
caratteristiche che rendono lecita un’azione, oltre a
quella di produrre conseguenze benefiche: tuttavia,
all’atto pratico è forte il rischio, per queste
prospettive, di ricadere in una sorta di
consequenzialismo di secondo livello nel momento in
cui si tratti di dirimere i conflitti tra diversi
doveri prima facie. In questi casi, sembra che
queste prospettive non possano far altro che
indirizzare al compimento del dovere “più forte” o che
si presenta alla coscienza “con più urgenza”, il che,
se non costituisce una caduta nel soggettivismo di
un’ipotetica “percezione morale”,
sembra doversi interpretare sostanzialmente come un
appello a “pesare” le conseguenze.
L’idea che ho cercato di
sviluppare — sulla scia di un’interpretazione senza
dubbio non canonica dell’etica kantiana
— è quella di muovere dall’idea della natura personale
dell’obbligo morale e cioè dalla peculiare “natura”
delle persone, che le rende appunto dei soggetti
morali. Dalla considerazione del valore incondizionato
delle persone — un valore, o meglio, una dignità che
non può essere stricto sensu dimostrata, ma che
può essere ammessa sulla scorta di considerazioni
altamente ragionevoli — segue il principio
fondamentale dell’etica che, riprendendo una
formulazione kantiana ed esplicitandone il valore
tutt’altro che meramente formale, impone di rispettare
le persone come fini in sé, ossia come realtà che, con
la loro semplice esistenza, impongono vincoli al
perseguimento di ogni scopo, fosse anche lo scopo
“morale” della realizzazione di certi valori, ovvero
della realizzazione di stati del mondo contenenti
certe quantità di valore. Il principio, in altri
termini afferma che, nel pur doveroso sforzo di
realizzare una pluralità di scopi e di valori umani,
devono essere escluse quelle azioni nelle quali una o
più persone vengono trattati come meri mezzi in vista
di tali scopi, ossia vengono strumentalizzati, ridotti
dalla loro dignità di persone al rango di pure cose,
in nome del perseguimento di un certo fine.
In questa prospettiva,
dire che certe azioni sono sbagliate indipendentemente
dal calcolo delle loro conseguenze in un caso
specifico non significa adottare una tesi deontologica
nel senso intuizionistico che è stato indicato. Al
contrario, l’etica del rispetto per le persone è a suo
modo una prospettiva teleologica, nel terzo dei sensi
individuati.
Essa muove da una concezione del problema morale come
questione in prima persona relativa a come si dovrebbe
vivere e risponde che si deve mirare a vivere una vita
buona; definisce quindi buona una vita vissuta in
pieno accordo con la ragione e perciò stesso degna
o meritevole di essere felice; passa quindi a
ricercare il criterio razionale per essere meritevoli
di tale felicità e lo individua nello sviluppare un
piano di vita e quindi ricercare la felicità per sé e
per chi ci è più vicino vincolando tale scopo al
rispetto dell’umanità in se stessi e in ogni altra
persona. Non c’è dunque, in primo luogo, la
prospettiva del dovere in quanto tale, ma piuttosto la
prospettiva di una vita buona che non può essere tale
se non riconosce l’altro da sé come un altro sé, ossia
come una persona meritevole di rispetto al pari di sé
e con cui relazionarsi positivamente per accedere ad
un senso pienamente umano della vita. Anche per
l’etica del rispetto per le persone c’è dunque la
prospettiva della ricerca di una vita buona, ma
vincolata al rispetto per l’umanità come un fine in sé.
D’altro canto, va sottolineato che se l’idea di una
vita buona è in certo senso un fine che può essere
prodotto e concretamente realizzato, il senso in cui
le persone sono in se stesse dei fini è radicalmente
diverso, giacché non si tratta di scopi nel senso di
qualcosa che possa essere prodotto o realizzato, ma
piuttosto di una realtà pre-esistente che deve essere
rispettata. Un fine in sé, in altri termini, orienta
l’azione non come un oggetto del fare e del produrre,
ma come una causa finale pre-esistente, ossia come
ciò in vista di cui mette conto agire e
ricercare ogni altro fine.
Se dunque l’etica del
rispetto per le persone presenta indubbiamente aspetti
teleologici, si tratta di una teleologia del tutto
differente rispetto a quella canonicamente elaborata
dal consequenzialismo, per il quale il bene è sempre
qualcosa da produrre e quanto maggiore è il bene
prodotto, tanto migliore risulta l’azione; in questo
caso, invece, la relazione corretta nei confronti del
fine non è quella di produrlo, né tanto meno di
massimizzarlo, ma quella di trattarlo con rispetto,
ossia aver cura del suo valore e della sua dignità
pre-esistenti. Questo implica, in particolare, che
assumere l’umanità o la dignità umana come fine in sé
non significa puntare a produrre uno stato del mondo
in cui tale dignità è maggiormente promossa o meno
violata rispetto ad altri stati del mondo possibili,
perché ciò sarebbe compatibile con l’accettare di
infliggere violazioni minori al fine di evitarne di
maggiori; assumere la dignità umana come fine in sé
significa invece considerare il rispetto per le
persone come un vincolo collaterale (side-constraint)
alle azioni e agli scopi da perseguire, e non come uno
scopo tra altri da promuovere.
Nella prospettiva che è
stata sinteticamente abbozzata, le diverse regole
morali vengono tutte derivate dal principio
fondamentale del rispetto. “Non rubare”, “non mentire”
o “mantieni le promesse” sono tutte determinazioni più
specifiche e concrete dell’imperativo fondamentale
del rispetto per le persone; tale imperativo non si
declina unicamente nella dimensione negativa della
presa di distanza e dell’astensione dall’interferenza,
ma anche in quella positiva della promozione, della
tutela e della benevolenza:
rispettare la dignità personale come un fine in sé
significa necessariamente impegnarsi a promuovere le
condizioni perché le persone possano svilupparsi e
“fiorire” in tutte le loro dimensioni, inclusa quella
ricerca del bene attraverso un proprio specifico piano
di vita che reca il marchio dell’individualità di
ciascuno. In questo senso, le singole norme morali non
sono giustificate dall’intuizione di una
caratteristica “metafisica” di certi atti, ma dal
fatto che certi atti sono espressioni inequivocabili
di certi tipo di rapporto tra le persone. Ad esempio,
la norma “non mentire” non è giustificata dal fatto
che la menzogna contraddirebbe la presunta natura e il
presunto fine del linguaggio e della comunicazione
umana, ossia la comunicazione della verità e la
manifestazione ad altri del proprio pensiero; è invece
giustificata dal fatto che la menzogna, sia che
intenda indurre nell’altro credenze false per meglio
perseguire certi scopi sia che si limiti a prendersene
gioco, tratta l’altro come uno strumento al servizio
degli scopi del mentitore: in questo senso, si tratta
di un atto irrispettoso, che non corrisponde
adeguatamente all’umanità che è nell’altro, ma la
abbassa indebitamente.
Si potrebbe osservare che
anche questa posizione conserva un elemento
“intuitivo”; è mediante l’intuizione, infatti, che si
può specificare il principio fondamentale, indicando
quali atteggiamenti e relazioni interpersonali siano
coerenti con esso e quali non lo siano. Tuttavia, ci
sono almeno due aspetti che pongono l’etica del
rispetto per le persone in una posizione migliore
rispetto all’intuizionismo. In primo luogo il fatto
che, nella prospettiva qui delineata, ogni pretesa
“intuizione” è sottoposta al vaglio del principio del
rispetto: o meglio, mentre l’intuizionismo adotta le
varie norme come proposizioni immediatamente vere,
senza offrire un criterio per distinguere le
intuizioni affidabili da quelle che non lo sono,
l’etica del rispetto per le persone giustifica le
norme in quanto interpretazioni più o meno affidabili
del requisito del rispetto, ossia di che cosa comporti
il riconoscimento della persona come realtà dotata di
una dignità che merita di essere promossa e che non
deve in nessun caso essere strumentalizzata, offre. In
secondo luogo, il rimando al principio del rispetto
offre altresì un criterio per dirimere i conflitti tra
le diverse norme o fonti di obbligazione; in linea
generale, infatti, le norme negative, che proibiscono
comportamenti direttamente lesivi della dignità
personale, hanno la precedenza su quelle positive, che
impongono di perseguire scopi atti a promuovere il
benessere o la felicità delle persone.
Questo, d’altro canto, non
significa che i cosiddetti “doveri perfetti”
prevalgano in ogni caso su quelli imperfetti. Come
accade nell’esempio classico, discusso tra gli altri
da Kant,
dal delinquente che bussi alla porta cercando la sua
vittima, possono darsi situazioni in cui un dovere
imperfetto come quello di salvare la vita di un altro
da un pericolo imminente entri in conflitto con un
dovere perfetto come quello di non mentire. Che cosa
giustifica il fatto che, in casi come questi, sia
lecito mentire, come la coscienza morale di ciascuno
concordemente afferma? Non il fatto che, ad una
comparazione di costi e benefici, risulti che il danno
determinato dall’esistenza nel mondo di una menzogna
in più, unito a quello che si ipotizza possa derivare
dalla perdita di fiducia nella veridicità delle
persone sia inferiore a quello che sarebbe derivato
dall’uccisione della vittima da parte del
delinquente. Ciò che giustifica la menzogna in questo
caso è invece il fatto che, come lo stesso Kant aveva
inizialmente riconosciuto,
il delinquente non ha diritto alla verità e non può
legittimamente attendersi che gli venga detta; in
senso stretto, quindi, il dovere perfetto non si
applica perché la relazione è già pregiudicata dalla
violenza minacciata dall’aggressore.
Anzi, il rispetto per la mia persona e per la persona
della vittima impongono che si menta al
delinquente: in caso contrario, a) la mia stessa
veridicità verrebbe strumentalizzata dal delinquente
per un fine direttamente contrario al rispetto per le
persone; b) lo scopo positivo di difendere e
promuovere la vita umana da pericoli esterni, scopo
che pure segue dal principio del rispetto,
non verrebbe adeguatamente promosso.
4. La norma “non uccidere”: valore e limiti
Veniamo dunque, nello
specifico, alla norma “non uccidere” che è oggetto
della citata discussione di Cognato. Uno degli
obiettivi dello scritto discusso da Cognato è mostrare
come, in molte discussioni contemporanee sulla vita e
la morte, si muova da una concezione fuorviante del
perché è sbagliato uccidere; uccidere − ho sostenuto
− non è sbagliato per via del male che infligge
all’individuo che viene ucciso o ai suoi familiari:
questa può certamente essere una considerazione
aggiuntiva non irrilevante, ma altrettanto certamente
non è la ragione principale per cui uccidere è
sbagliato. Se infatti valesse tale ragione
consequenzialista, si dovrebbe dire che un’uccisione è
tanto più sbagliata quanto più lunga e di valore si
può presupporre che sarebbe stata la vita della
vittima; con conseguenze difficili da accettare, come
quella per cui uccidere un anziano diventa moralmente
più accettabile che uccidere un giovane e quella per
cui uccidere un individuo affetto da una patologia
tale da rendere la sua vita futura un tormento non può
in nessun modo essere sbagliato. A questa
interpretazione consequenzialista del “non uccidere”
ho contrapposto un’interpretazione basata sulla
concezione personale dell’obbligo che sta alla base
dell’etica del rispetto per le persone. In questa
prospettiva la norma “non uccidere” è particolarmente
rilevante perché proibisce quella che è senza dubbio
l’espressione più inequivoca e paradigmatica di un
atteggiamento moralmente ingiustificabile. Uccidere
l’altro significa infatti realizzarne la massima
strumentalizzazione, negarne in maniera radicale e
definitiva la dignità, ridurre il rilievo e
l’importanza della sua presenza a semplice intralcio
nel perseguimento dei miei progetti. Se è vero che
ogni norma morale negativa può essere riespressa in
positivo, la norma che esprime in positivo il
contenuto morale del “non uccidere” potrebbe essere
solo lo stesso principio fondamentale del rispetto per
la persona. Perciò, è chiaro che si tratta di
un’esigenza morale del massimo valore che
tendenzialmente non ammette eccezioni.
Nondimeno, sappiamo anche
che eccezioni a questa norma sono sempre state ammesse
nella tradizione morale; in particolare, le tre
eccezioni relative all’uccisione per legittima difesa,
all’uccisione nel contesto di una guerra giusta e alla
pena di morte. Se la norma “non uccidere” è la prima e
più importante specificazione del principio
fondamentale, che cosa può giustificare che la si
violi? Essenzialmente, un ragionamento analogo a
quello già avanzato a proposito della norma “non
mentire”. Infatti, ciò che giustifica l’uccisione per
legittima difesa non è un calcolo comparativo dei beni
che così verrebbero promossi, per ipotesi maggiori
rispetto a quelli realizzabili accettando la mia
morte. Se così fosse, sarebbe giustificato ad uccidere
l’ingiusto aggressore solo chi disponesse di argomenti
sufficienti a sostenere che la propria morte sarebbe
un male maggiore della morte del suo aggressore; il
che naturalmente è ben difficile da stabilire e
presupporrebbe un calcolo notevolmente complesso,
implicante anche le relazioni che ciascuno dei due
intrattiene, il rispettivo contributo dei due al
benessere dell’umanità e molte altre considerazioni
empiriche. In realtà, tutto ciò è irrilevante; ciò che
giustifica l’uccisione è il fatto che, come nel caso
del delinquente e della menzogna, l’aggressore ha già
violato con la sua aggressione il rispetto per le
persone, ponendomi nella condizione di scegliere tra
lasciargli perseguire i suoi scopi fino all’eventuale
soppressione della mia vita e reagire all’aggressione,
eventualmente fino a sopprimere la sua vita. Ciò che
giustifica l’uccisione è dunque: a) il fatto che
l’uccisione si configuri come una reazione ad una
violazione del rispetto già realizzata
dall’aggressore; b) il fatto che non ci sia una terza
possibilità alternativa tra correre il rischio di
morire e correre quello di uccidere. In ogni caso, la
legittima difesa deve costituire una extrema ratio,
ossia può spingersi a infliggere dolore, sofferenza o
morte all’altro solo nel caso in cui sia strettamente
necessario per evitare un rischio paragonabile in
termini di dolore, sofferenza o morte.
È questa una differenza
essenziale che intercorre tra la legittima difesa e la
guerra giusta − nei casi in cui si configuri appunto
come guerra difensiva, ossia come reazione ad
un’iniziativa bellicosa già in atto in mancanza di
reali alternative − da un lato, e la pena di morte
dall’altro: quest’ultimo caso non sembra essere
giustificato, giacché, in presenza di validi mezzi
alternativi per evitare il reiterarsi delle violazioni
del rispetto, l’uccisione assume un significato
puramente retributivo e vendicativo. D’altro canto, vi
è un’ulteriore importante distinzione: nel caso della
legittima difesa e in quello della guerra giusta, la
reazione è volta ad impedire che l’ingiusto aggressore
realizzi effettivamente quegli obiettivi moralmente
ingiustificati che si propone e che non ha ancora
realizzato (o per lo meno non pienamente, nel caso
della guerra giusta); nel caso della pena di morte,
invece, il delinquente ha già realizzato i
propri obiettivi e non c’è nulla che possa impedirgli
di portarli a termine: ciò che la pena di morte
consente di fare, a parte operare una vendetta
postuma, è semmai di impedirgli di reiterare i propri
delitti − ciò che per l’appunto può fare anche
l’istituto del carcere a vita, che però ha il
vantaggio di consentire di sperare in una progressiva
reintegrazione sociale del reo.
Se dunque l’uccisione per
legittima difesa e quella nel contesto di una guerra
giusta sono moralmente giustificabili, non si può dire
che la norma “non uccidere” abbia un valore
materialmente assoluto, ossia che non vi siano casi in
cui essa ammetta eccezioni. Questo lo si può dire
tutt’al più della norma “non uccidere persone
innocenti”. Si può peraltro osservare che questa
riformulazione tradizionale non implica affatto che
chi è “non innocente” per ciò stesso possa essere
ucciso; in linea generale, infatti, anche chi è
colpevole è protetto dalla norma “non uccidere” e,
come si è visto, questo vale anche di chi è colpevole
di crimini efferati. È solo nel caso in cui a) si
tratti di ostacolare il colpevole nel compimento del
crimine e b) non vi siano possibilità alternative per
farlo, che l’uccisione del colpevole è giustificata.
Dunque, la noma “non uccidere” vale anche a proteggere
i colpevoli; tuttavia, trova almeno due eccezioni che
restringono la sua assolutezza. Essa è dunque
materialmente non assoluta. In Aborto. La morale
oltre il diritto ho affermato che, poiché si lega
così strettamente al principio del rispetto, la norma
“non uccidere” – anche senza la tradizionale
qualificazione che vi aggiunge “persone innocenti” – è
tuttavia “simbolicamente” assoluta;
che cosa si deve intendere con questa espressione?
Questa espressione va intesa nel senso che
incondizionato deve essere l’atteggiamento di rispetto
per la persona, di cui appunto la norma “non uccidere”
è espressione eminente e paradigmatica. Ciò significa,
in primo luogo, che si dovrebbe avere la massima
prudenza nell’accettare eccezioni alla norma; in
secondo luogo, che si dovrebbe avere la massima
attenzione la valutare l’inesistenza di possibilità
alternative; in terzo luogo, che si dovrebbe in ogni
caso continuare a rispettare la dignità anche di colui
che viene ucciso. Quest’ultimo punto è particolarmente
importante, giacché nella riflessione tradizionale si
è spesso affermato che il reo perde la propria dignità
di persona tout court e può pertanto essere
trattato né più né meno come una bestia.
Ciò è del tutto fuorviante nel caso della pena di
morte, che per i motivi detti, non può essere
moralmente giustificata; ma è altresì sbagliato nel
caso della legittima difesa e nei casi di guerra
giusta ad essa analoghi, giacché la liceità di
uccidere non significa liceità di usare ogni tipo di
violenza, né tanto meno di torturare e nemmeno di
infliggere qualunque tipo di sofferenza che non sia
strettamente necessaria all’unico obiettivo moralmente
appropriato, ossia quello di porre l’altro in
condizioni di non nuocere. In questo senso, si può
dire che il principio del rispetto continui a valere e
non debba essere violato anche nel caso in cui
l’uccisione sia giustificata; l’altro resta comunque
un individuo la cui dignità lo rende meritevole di
un’attenzione particolare: può essere posto in
condizioni di non nuocere, se necessario uccidendolo,
ma non può essere violentato o ridotto ad una cosa. È
il valore stesso della persona, valore certamente
offuscato ma non per questo estinto nell’ingiusto
aggressore, che giustifica l’uccisione; infatti,
uccido per preservare la mia stessa dignità di
persona, giacché non sono obbligato a rispettare (o ad
amare) l’altro più di me stesso, ma solo
quanto me stesso. Perciò, tale valore, che è nella
persona altrui come nella mia, deve essere rispettato
nel momento stesso in cui riconosco la necessità di
porre fine alla sua vita.
In questo senso, l’atteggiamento espresso dalla norma
“non uccidere” non può mai cessare di farsi valere e
di orientare le scelte di un individuo coscienzioso;
questo è ciò che si intendeva, forse in maniera non
del tutto perspicua, parlando dell’assolutezza
“simbolica” del “non uccidere”.
5. Conclusioni
In conclusione, l’etica
del rispetto per le persone respinge con forza il
consequenzialismo, in quanto riconosce l’esistenza di
atti che non possono essere giustificati da nessuna
quantità di bene che ne potrebbe derivare; si tratta
degli atti in cui una persona viene trattata come un
semplice mezzo. In particolare, ciò si traduce nella
particolare forza che deve essere attribuita alla
norma “non uccidere”. Tale forza non impedisce però
che, nei casi in cui una persona sia attualmente
responsabile di un grave pericolo per altri, ci si
opponga ad essa con la forza, giungendo anche ad
ucciderla se non vi sono alternative. L’incondizionatezza
vera e propria vale non tanto per l’espressione
specifica del principio nelle diverse norme materiali
– tranne quelle relative all’inflizione diretta e
gratuita di sofferenze a individui innocenti, come nel
caso della tortura, della violenza sessuale e della
riduzione in schiavitù – ma per il principio stesso,
che comanda di rispettare le persone anche quando non
si può evitare di intervenire per impedire loro di
causare gravi danni ad altri. D’altro canto, l’etica
del rispetto per le persone ha il vantaggio, rispetto
al deontologismo intuizionistico standard, di fare
minor affidamento sull’intuizione di pretese
proprietà essenziali degli atti, e di fornire un
principio sovraordinato rispetto alle varie norme
materiali, per giudicare eventuali conflitti tra di
esse.
Infine, l’etica del rispetto per le persone non è
un’etica deontologica in senso tradizionale; è senz’altro
un’etica non consequenzialista, ma fonda i vincoli
alla produzione di buone conseguenze su una concezione
a sua volta teleologica: da un lato, sull’idea di una
vita buona, intesa come una vita razionale e
meritevole di essere felice, dall’altro sulla nozione
di fine in sé, ossia di un fine non da produrre ma da
rispettare.