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ISSN 1970-7932

Associazione Thomas International
Num. 7 - Settembre 2008 
     
 

Recensioni:

P. BECCHI, Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica giuridica, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 190, € 12,50

 

 

Morte cerebrale e trapianto di organi, di Paolo Becchi, è un volume intrigante. Non solo per la tesi sostenuta, e cioè che i soggetti in stato di morte cerebrale da cui oggi preleviamo gli organi non sono davvero morti (tesi proposta per la prima volta, come è noto, da Hans Jonas), ma anche per il modo in cui viene sostenuta: la scrittura è chiara, l’argomentazione lineare e l’attenzione critica alle posizioni degli interlocutori passati in rassegna sempre rispettosa. Questo accade forse anche per il clima relativamente pacato del dibattito sull’argomento, che non risente dei toni conflittuali e ideologicamente virulenti che caratterizzano invece altre tematiche come l’eutanasia, l’aborto, la fecondazione in vitro ecc. Nel caso della “morte cerebrale”, tuttavia, la tranquillità del dibattito non dipende, secondo Becchi, dal fatto che si riesca ad affrontare serenamente il problema ma dal fatto che si tende a rimuoverlo. E infatti, nonostante da oltre un decennio nella comunità scientifica internazionale sia in atto «un notevole ripensamento» sulla validità dei nostri attuali criteri di accertamento della morte, in Italia vige ancora, almeno su questo, «un patto di ferro tra laici e cattolici che nel tentativo di incrementare il più possibile le donazioni di organi, impedisce una seria discussione sulle condizioni in cui vengono effettuati gli espianti» (p. 97).    

Quali sono queste condizioni? Già Jonas – autore al quale Becchi è particolarmente affezionato, anche per averne curato l’importante Technik, Medizin und Ethik – aveva sostenuto che, in qualche modo, lo stato di morte cerebrale è il prezzo da pagare alle moderne tecniche di rianimazione. Queste, infatti, se a volte consentono di salvare la vita di pazienti che altrimenti sarebbero morti, altre volte finiscono per prolungarne l’agonia, facendoli piombare in una sorta di limbo tra la vita e la morte che pone inquietanti interrogativi. Nel 1968, proponendo di definire “morti” pazienti prima considerati in stato di “coma irreversibile”, il celebre Ad Hoc Committee dell’Università di Harvard ha messo a tacere questi interrogativi dando una svolta epocale alla prassi medica successiva e alle legislazioni di tutti i Paesi del mondo, con la parziale eccezione del Giappone. Il Comitato di Harvard, infatti, impose l’equivalenza tra la morte cerebrale e la morte tout court, e cioè l’idea che si debba essere considerati morti non, come avveniva prima, una volta cessate le attività del c.d. tripode vitale (cuore, cervello e polmoni) ma per l’estinguersi totale e irreversibile delle funzioni dell’encefalo (tronco e corteccia), anche qualora rimangano vitali, con l’ausilio dei macchinari, altre funzioni organiche. In questo modo, di fronte a soggetti in morte c.d. “cerebrale”, fu possibile non solo staccare il respiratore, consentendo al processo avviato di compiersi, ma anche prelevare i loro organi mentre il respiratore è ancora acceso. Benché sia difficile «considerare cadavere un essere umano con temperatura corporea intorno ai 37° C., di colorito roseo, le cui braccia e gambe seppur immobili non sono rigide, il cui torace continua ad alzarsi grazie a una macchina che insuffla aria nei polmoni e il cui cuore batte con regolare frequenza, facendo circolare il sangue nelle arterie», il c.d. “criterio di morte cerebrale” è considerato oggi «un dato scientifico acquisito ormai in modo definitivo» (p. 11). L’interrogativo a cui il volume di Becchi vuole offrire una risposta, pertanto, è il seguente: «come si è giunti a dichiarare cadaveri persone che non presentano quelle caratteristiche che di solito si attribuiscono ai cadaveri? E perché?» (p. 13). Raccogliendo alcune delle più significative posizioni di un dibattito che egli stesso, soprattutto in Italia, ha cercato di animare, Becchi propone la sua tesi, decisamente tranchant e provocatoria: la “morte cerebrale” è stato un abile espediente per considerare “morte” persone che, pur versando in condizioni ormai irreversibili, di fatto sono ancora vive (p. 158). Ciò, si badi, non significa che tali persone vadano tenute in vita comunque anche in questa condizione: «significa soltanto che stacchiamo il respiratore non perché sono già morte, ma per lasciarle morire dignitosamente» (pp. 158-59). E se non stacchiamo il respiratore lo facciamo «affinché il prelievo degli organi avvenga in condizioni ottimali». Ma in questo caso, aggiunge Becchi, «il donatore dovrà essere informato con grande chiarezza sulla condizione in cui avviene il prelievo» (p. 159). Come si può vedere, se la tesi sull’effettiva condizione dei soggetti in morte cerebrale è dirompente, la proposta riguardo a ciò che dovremmo fare nei confronti di questi soggetti è invece rassicurante, perché in linea con la prassi ormai generalmente in uso.

L’indagine di Becchi, che si muove su un registro sia medico-scientifico sia etico-giuridico, si apre attraverso un percorso storico (Cap. I. Quando moriamo? La nuova definizione di morte e le sue giustificazioni, pp. 9-35), in cui l’Autore ricostruisce l’antefatto di Harvard e gli argomenti utilizzati fin dall’inizio dai difensori del criterio cerebrale. Questi si basano sull’idea che la morte non sia il venir meno di tutto l’organismo ma dell’organismo come un tutto. Singoli organi o funzioni vitali, come la circolazione sanguigna, possono perciò proseguire anche dopo che l’organismo ha cessato definitivamente di funzionare come una totalità integrata. E poiché il funzionamento integrato dell’organismo dipende dall’encefalo, dobbiamo concludere che la distruzione dell’encefalo equivale, di fatto, alla distruzione dell’intero organismo, dunque non alla morte del solo encefalo ma alla morte tout court. Se pertanto l’organismo è un sistema complesso formato da vari sottosistemi, si dovrà riconoscere che tra questi non c’è una semplice equivalenza e che l’encefalo (o anche il solo tronco encefalico, come si pensa nella legislazione britannica) è il vero “sistema critico”. Il criterio cerebrale, in tal senso, non costituisce un nuovo criterio di accertamento della morte ma un affinamento del criterio tradizionale, quello cardio-polmonare (come sostiene, tra gli altri, il filosofo inglese David Lamb). L’unica differenza consisterebbe nel fatto che mentre il criterio tradizionale consentiva una constatazione indiretta dell’assenza di funzionalità encefalica (indicata come già avvenuta a partire dall’arresto cardiaco), il nuovo criterio consente una constatazione diretta di quell’assenza mediante l’impiego di esami mirati (p. 24). L’intento di questa teoria, detta dell’«integratore centrale», è perciò quello di «unificare due diversi criteri per l’accertamento della morte, definito in termini di perdita irrimediabile dell’integrazione corporea» (p. 27). Una conferma che la morte cerebrale è la morte tout court e non una morte diversa da quella tradizionalmente associata all’arresto cardiaco, consisterebbe nel fatto che pazienti cerebralmente morti subiscono un arresto cardiaco in un breve lasso di tempo. Anche se con questa tesi, come fa notare Becchi, si finisce per dimostrare l’esatto contrario di quello che si vuole sostenere: dire che in seguito alla morte cerebrale l’arresto cardiaco è imminente significa, infatti, dire che il paziente sta per morire e non che è già morto (p. 104).

A questo proposito nel volume viene evidenziata una significativa convergenza tra la posizione conservatrice di Jonas e quella radicale di Peter Singer (Cap. II. Due posizioni filosofiche alternative a confronto, pp. 37-95). Entrambi, infatti, ritengono che il Comitato di Harvard abbia confuso due questioni diverse, e cioè da un lato «quando smettere di prolungare il processo del morire di un paziente in coma irreversibile» e, dall’altro lato, «quando considerare quel processo concluso» (p. 41). Che al cospetto di questi pazienti la morte sia qualcosa che non bisogna più impedire non ci autorizza a trasformarla in qualcosa di già avvenuto, confondendo il piano etico-pratico con quello teorico-scientifico (pp. 43-44). E invece, trasformando una «prognosi infausta» in una «diagnosi di morte», i membri del Comitato ci hanno autorizzati a sospettare che il vero movente dell’operazione non sia stato quello di capire se questi pazienti fossero vivi o morti, ma la volontà di rendere lecito il prelievo dei loro organi. La morte cerebrale sarebbe dunque, per Jonas e Singer, «un falso scientifico». Ma mentre per Jonas smascherare questa falsità significa denunciare l’immoralità del prelievo di organi, «dal momento che in questo caso sarebbe proprio il prelievo di organi a uccidere il paziente» (p. 92), per Singer significa invece dimostrarne la piena liceità, visto che nell’utilitarismo sposato dal filosofo australiano è moralmente lecito uccidere un uomo che non può ricavare più alcun beneficio dalla vita a favore di altri che, viceversa, potrebbero avvantaggiarsi dei suoi organi.

Al di là del sospetto che la definizione di Harvard sia stata un mero escamotage, è comunque possibile, secondo Becchi, dimostrare che gli odierni criteri di morte cerebrale falliscono proprio in ciò che vantano, e cioè la possibilità di accertare la perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali (Cap. III. Il dibattito medico-scientifico intorno alla morte cerebrale, pp. 97-111). A questo riguardo vengono citati i principali risultati di alcune ricerche e osservazioni cliniche, «in contro tendenza alle voci più ascoltate» (p. 97), che mostrano casi di pazienti diagnosticati come cerebralmente morti, i quali, al contrario, presentano funzioni cerebrali ancora attive. Una delle osservazioni più inquietanti, riportate dai medici Robert Troug e James Fackler, è che «alcuni pazienti continuano insospettatamente a reagire agli stimoli esterni, come dimostra ad esempio l’aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna a seguito dell’incisione chirurgica prima del prelievo degli organi» (p. 99). Il neurologo statunitense Alan Shewmon, considerato uno dei «più implacabili critici» dell’identificazione della morte umana con la morte cerebrale, contesta, tra l’altro, anche l’idea che «la distruzione del tronco encefalico di per sé comporti necessariamente la perdita della capacità di coscienza e di capacità respiratoria» (p. 106). A voler utilizzare una metafora, in effetti, «la distruzione di un collegamento elettrico non comporta la perdita della capacità di illuminazione di una lampada» ma soltanto che «quella lampada non riceve più corrente». Allo stesso modo, «la distruzione del tronco encefalico impedisce la manifestazione di funzioni coscienti, in quanto il sistema [...] contenuto nel tronco non stimola più gli emisferi cerebrali, ma ciò non implica la perdita della capacità di coscienza» (pp. 106-107). E anche nel caso della respirazione, si deve dire che la distruzione del tronco encefalico «comporta la perdita della spontaneità dell’atto respiratorio» e non della «capacità respiratoria», intesa «come capacità di effettuare scambi gassosi a livello di tessuti e organi» (p. 107). Se questa capacità non vi fosse, infatti, lo stesso respiratore artificiale, una volta collegato al paziente, non potrebbe ossigenarne meccanicamente il sangue.

Da queste e da altre indagini emerge, dunque, quanto sia discutibile l’idea su cui finora si è basata la credibilità del criterio cerebrale di morte, e cioè che l’encefalo sia «l’organo responsabile dell’integrazione delle parti corporee che rendono l’organismo un tutto organizzato e funzionante» (p. 107). In realtà, come sostiene Shewmon (ma anche Jonas sulla scorta di Aristotele), «l’unità integrativa non è un’imposizione dall’alto di un “integratore centrale” a un conglomerato di organi altrimenti non integrato. (Se lo fosse, anche il corpo in salute sarebbe privo di una vera unità, ma consisterebbe piuttosto di un encefalo portato in giro e tenuto vivo da parti corporee microgestite in modo per così dire dittatoriale.) Essa è invece una caratteristica non localizzata, olistica fondata sulla mutua interazione di tutte le parti del corpo» (p. 108). Da qui la ricorrente critica – a dire il vero non sempre giustificata – rivolta ai sostenitori della morte cerebrale: affermare che la persona non esiste più quando il suo cervello non funziona è un’indebita riduzione della persona alle sue attività cerebrali.

Vengono in mente, al riguardo, le provocazioni di Singer, soprattutto quelle lanciate alla Chiesa cattolica. Riferendosi ad alcuni discorsi di Pio XII e di Giovanni Paolo II, in cui si approva la pratica dei trapianti d’organo, Singer si dichiara sorpreso del fatto che accettando l’equivalenza tra morte di fatto e morte cerebrale la Chiesa si sia poi rifiutata di estenderla anche ai neonati anencefalici. E, in effetti, se la mera vita biologica del soggetto cerebralmente morto ci autorizza a espiantare i suoi organi, perché non possiamo fare lo stesso con la vita biologica del neonato anencefalico, condannato, anch’egli, a morire in breve tempo? Becchi fa notare, però, che è proprio questa premessa a essere respinta dalla Chiesa: una volta accertata la morte cerebrale, infatti, non saremmo più in presenza di una vita biologica ma di un cadavere. Insomma, dal momento che per la Chiesa «la perdita irreversibile delle funzioni di tutto l’encefalo è il dato scientifico che ci consentirebbe con sicurezza di stabilire la morte, chi ha subìto tale perdita è morto; non così invece il neonato anencefalico che, pur privo di corteccia cerebrale, possiede tuttavia un tronco encefalico in qualche modo ancora funzionante» (p. 70). Qui il neonato anencefalico è paragonabile, semmai, al soggetto in stato vegetativo e non a un soggetto dichiarato cerebralmente morto. In tal senso la posizione della Chiesa, «si voglia condividerla o meno», ha per Becchi «una sua coerenza» e «diventa estremamente problematica solo nel momento in cui ammettiamo che, in realtà, il morto cerebrale non è di fatto ancora morto» (p. 70).

Proprio alla dottrina cattolica sull’argomento viene dedicato un intero capitolo (Cap. IV. Le ambiguità della Chiesa cattolica, pp. 113-138). Becchi nota, giustamente, che «se si analizzano alcuni documenti (peraltro piuttosto scarsi) del Magistero cattolico la posizione della Chiesa è [...] molto più problematica di quanto non appaia a prima vista» (p. 115). Citando alcuni importanti testi del Magistero oltre a significative e autorevoli prese di posizione come quelle del cardinale di Colonia Joachim Meisner e dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, Becchi mostra come nella Chiesa vi sia attualmente una propensione ad accettare la pratica del prelievo dei trapianti da cadavere, subordinando tale pratica a due fondamentali condizioni: il consenso del donatore o dei suoi aventi diritto e il pieno accertamento della sua «morte reale» (e non “clinica”, come precisa Becchi commentando l’espressione, che si trova nel recente Compendio del Catechismo). Definendo «piuttosto difensiva e ambigua» questa posizione per il fatto che in essa «non si menziona mai la condizione clinica a partire dalla quale è lecito il prelievo» (p. 135), Becchi sembra tuttavia smentire quanto aveva scritto in precedenza, presentando la posizione cattolica come una posizione che considera la morte cerebrale «un dato scientifico definitivamente acquisito» (p. 70). E a ben vedere le cose non stanno propriamente così, come in parte anche Becchi mostra nel suo testo. La Chiesa non è infatti una comunità scientifica, e tutto quello che può fare in casi come questi, e lo hanno fatto i diversi Pontefici da Pio XII in poi, è farsi interprete e custode di quanto la coscienza morale spontaneamente intuisce, e cioè che un espianto di organi può essere moralmente lecito solo da cadaveri dimostrati tali a tutti gli effetti. Così, per es., Giovanni Paolo II ha affermato che «di fronte agli odierni parametri di accertamento della morte la Chiesa non fa opzioni scientifiche» (cit. a p. 127), limitandosi a considerare il criterio neurologico-cerebrale come un criterio che «non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica» (p. 128). Se questo criterio è valido, dunque, non lo è perché è “cerebrale”, “cardio-respiratorio” ecc., ma «in quanto considerato segno della perduta capacità di integrazione dell’organismo individuale come tale». La Chiesa, in altri termini, sposa non tanto il criterio di morte cerebrale quanto l’idea di morte come disintegrazione completa che ad esso soggiace. Non è escluso, pertanto, che il criterio cardio-polmonare esprima meglio di quello cerebrale questa idea di totale disintegrazione. Anzi, stando al celebre discorso di Pio XII sulla rianimazione, si può dire che in esso fosse già contenuto addirittura un rifiuto ante litteram del criterio cerebrale, visto che il Papa dichiarò allora che «considerazioni di ordine generale permettono di credere che la vita umana continua fino a che le sue funzioni vitali – a differenza della semplice vita degli organi – si manifestano spontaneamente o sia pure con l’aiuto di procedimenti artificiali» (Risposte ad alcuni importanti quesiti sulla “rianimazione”, cit. p. 117). Sono di questo avviso, per es., quasi tutti gli studiosi cattolici intervenuti nella recente raccolta di saggi Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, che contiene un contributo dello stesso Becchi. Se a ciò si aggiunge che nel discorso precedentemente citato Giovanni Paolo II ha fatto riferimento al consenso della comunità scientifica come significativo parametro per valutare l’affidabilità del criterio in gioco, si dovrebbe concludere che, qualora mancasse tale consenso – e oggi manca, come evidenzia Becchi, sempre di più – allora verrebbe meno uno dei requisiti che rendono attualmente credibile il criterio cerebrale.

A prescindere dal prelievo di organi, sulla prassi medica nei confronti dei pazienti in morte cerebrale, come è risaputo, è unanime il consenso circa l’opportunità di sospendere la terapia intensiva. Va ricordato, però, che per la posizione cattolica ad autorizzare l’interruzione della ventilazione artificiale di un paziente non è l’impossibilità che egli ritorni alla vita cosciente, come sembra attribuirle Becchi (p. 118), ma la prognosi infausta, e cioè l’imminenza dell’arresto cardiaco spontaneo che il respiratore si limiterebbe a rinviare senza poter scongiurare. In ogni caso, e qui la posizione della Chiesa e di Pio XII è in perfetta sintonia con quella di Jonas, nell’impossibilità di determinare con assoluta certezza il confine tra la vita e la morte vale il principio in dubio pro vita: non possiamo prelevare gli organi di un uomo, magari solo perché lo vediamo sdraiato e immobile, senza avere la certezza che egli sia effettivamente morto.

            Nell’ultimo capitolo (V. Profili legislativi e giurisprudenziali sulla morte cerebrale, pp. 139-164) vengono infine evidenziate alcune implicazioni giuridiche a partire dalla normativa italiana, che identifica la morte con la «cessazione di tutte le funzioni dell’encefalo» (Legge n. 578/1993, art. 1, 1). Poiché però, come si è visto, i criteri utilizzati per accertare la morte cerebrale non sono in grado di rilevare la cessazione di tutte le funzioni dell’encefalo, «se ne dovrebbe concludere che – a rigor di legge – i prelievi degli organi oggi in Italia avvengono non post mortem, ma quando la persona potrebbe essere ancora viva» (p. 152). La nuova disposizione secondo cui i criteri cerebrali valgono per tutti, e dunque non solo per i potenziali donatori, è stata escogitata, secondo Becchi, per fugare ogni sospetto che il vero motivo della legge fosse quello di legittimare il prelievo di organi. Così, una volta accertata la morte cerebrale, è previsto che il medico stacchi comunque la spina del respiratore, anche in caso di non donatore. E «per rafforzare l’idea che abbiamo con certezza a che fare con cadaveri», ricorda Becchi, sarà anzi obbligato a farlo senza possibilità di avanzare obiezione di coscienza (p. 140). In questo modo, però, la legge avalla un’ingiustizia, esercitando pressione sui non donatori per dissuaderli dalla loro scelta «con l’argomento che tanto non potranno contare su quel trattamento differenziato (il respiratore accesso in attesa dell’arresto cardiocircolatorio) che  la precedente legge n. 644 del 1975 loro ancora garantiva» (p. 140). 

            Becchi conclude la sua indagine con «una proposta ragionevole» (pp. 162-165). Si è detto che un soggetto cerebralmente morto non è (ancora) un cadavere. Questo non ci impedisce però l’espianto dei suoi organi, aggiunge Becchi, che sarebbe moralmente giustificato – benché provochi la morte del donatore – allo stesso modo in cui è pienamente giustificata la sospensione di un trattamento ormai inutile, che prolunga penosamente il processo del morire. Così, come non parliamo di “eutanasia” in quest’ultimo caso, non dovremmo parlare di eutanasia neanche nel caso del prelievo di organi. Il caso classico dell’eutanasia, infatti, «è quello di un malato terminale cosciente che chiede al suo medico di porre termine alla sua vita con una iniezione letale, ma questa situazione non è in alcun modo paragonabile all’azione del medico quando procede al prelievo degli organi da un morto cerebrale. Egli non sta uccidendo qualcuno che tra mille sofferenze continuerebbe a vivere, ma pone soltanto fine ad un processo che, dopo l’accertamento della morte cerebrale, sarebbe comunque lecito interrompere, sospendendo la terapia intensiva» (p. 94). Questa soluzione, tuttavia, sembra non tenere in dovuta considerazione il complesso problema della differenza tra “uccidere” e “lasciar morire”, che caratterizza, come è noto, tutte le questioni etiche di fine vita. E in effetti, se i pazienti in morte cerebrale sono vivi, “lasciarli morire” sospendendo la ventilazione artificiale è moralmente diverso dal provocare la loro morte espiantandone gli organi: nel primo caso accettiamo la loro morte, nel secondo caso invece li uccidiamo noi. Sembra che qui Becchi compia la stessa mossa che Jonas rimproverava al Comitato di Harvard, e cioè quella di coprire, dietro la nobile finalità del gesto, la sua natura intrinseca: prelevare organi da un paziente in morte cerebrale – se questo paziente, come ritiene Becchi, è vivo – significa infatti ucciderlo e non soltanto salvare un altro paziente bisognoso di trapianto. Si potrebbe obiettare che se il morto cerebrale non è ancora un cadavere è però iniziato un processo irreversibile che lo condurrà alla morte. Visto però che questo processo può durare mesi e perfino anni (come dimostrano i casi illustrati dallo stesso Becchi), come sarà possibile distinguerlo dalla vita che non è lecito interrompere? Anche la vita, infatti, è un processo irreversibile che conduce alla morte. Un giorno di più è sempre un giorno di meno. Introdurre l’idea di un consenso anticipato, informando il potenziale donatore «che il prelievo, pur non procurandogli alcun danno, avverrà in un momento in cui il processo del morire è già cominciato ma non ancora finito» (p. 95) non risolve la cosa. Tra quest’ultimo caso e quello di eutanasia del malato terminale, infatti, non ci sarebbe la differenza che invece a Becchi sta a cuore mantenere: se i soggetti cerebralmente morti che hanno rilasciato un precedente consenso non sono cadaveri ma moribondi irreversibili, allora considerare lecito il prelievo dei loro organi non è diverso dal considerare lecita anche l’eutanasia volontaria dei malati terminali (magari per finalità umanitarie come liberare un posto letto per altri pazienti con prospettive di guarigione).  

            Pensare che il prelievo di organi sia immorale per il semplice fatto che i morti cerebrali non sono veramente morti, tuttavia, significa per Becchi cadere in un equivoco analogo a quello in cui è caduto il Comitato di Harvard: «L’errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica. E se noi oggi concludessimo che, poiché la definizione si è rivelata falsa, viene meno anche la possibilità del trapianto faremmo, sia pure al contrario, lo stesso errato ragionamento di coloro che sulla base di quella definizione avevano giustificato i trapianti. Il problema etico-giuridico dei trapianti non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte» (p. 163). In effetti le definizioni scientifiche sono solo una condizione necessaria, e non anche sufficiente, per risolvere un problema etico. Se pertanto è vero che un agire responsabile non può basarsi direttamente sulla validità o meno delle nostre definizioni, è però anche vero che queste definizioni sono lo strumento interpretativo di un’esperienza (anche di senso comune) che è poi il criterio che ci induce a considerarle valide o meno. È dunque a quest’esperienza che occorre guardare, per evitare che il rifiuto di risolvere i nostri problemi morali basandoci sulle definizioni diventi un irresponsabile distogliere lo sguardo dalla realtà che esse cercano di esprimere. In altri termini: se dalla contestazione della definizione medico-scientifica di Harvard viene meno la possibilità dei trapianti questo non accade perché la definizione si è rivelata falsa, ma perché le persone alle quali è stata erroneamente applicata potrebbero essere vive. Ma se le cose stanno così, delle due l’una: o si accetta la validità scientifica del criterio di Harvard e dunque anche la liceità morale dei trapianti, oppure si rifiuta tale validità, ma allora non si possono più giustificare i trapianti. La pur condivisibile affermazione che “il problema etico-giuridico dei trapianti non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte” qui rischia, come si può vedere, di proteggere da ogni possibile smentita la soluzione che si è già deciso di dare al problema. E, in effetti, sembra che Becchi dia per scontata la liceità morale dei trapianti qualunque sia la validità del criterio di morte utilizzato. Lo si evince dai suoi commenti finali sulla prospettiva di Shewmon. Il fatto che secondo il neurologo statunitense si possa disattivare la ventilazione artificiale solo dopo la cessazione completa delle funzioni del tripode vitale (non soltanto del cervello, dunque, ma anche del cuore e dei polmoni), e il fatto che l’impossibilità di una ripresa spontanea delle funzioni vitali sia certificabile solo dopo venti minuti di attesa, sarebbero un criterio di morte insoddisfacente, secondo il nostro Autore, perché non ci consente di affrontare «in modo adeguato il problema relativo all’eventuale ricerca di nuove procedure di prelievo per sostituire quella attualmente in uso» (p. 109). Da un cadavere di venti minuti, in effetti, non si possono prelevare organi in buone condizioni. Questo, però, non è un argomento contro la tesi di Shewmon. Lo sarebbe solo se la validità dei criteri di accertamento della morte dipendesse dalla loro capacità di giustificare moralmente l’espianto di organi. Che però è esattamente l’idea che Becchi contesta in tutto il suo lavoro. In attesa di saperne di più, la proposta più ragionevole rimane ancora quella di Hans Jonas e di Pio XII: in dubio pro vita.  

 

  

Luciano Sesta

 
     
     
 
 
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