Home About International University Project Conferences Courses Lectures Projects Publications Readings Contribute Contact      

home \ lectures \ palermo april 7, 2005 \ riscrivere i poeti nei personaggi di platone

About

International University Project

Conferences

Courses

Lectures

Projects

Publications

Readings

Contribute

Useful links


American Public Philosophy Institute

Centro Ricerche Tommaso d'Aquino

Jacques Maritain Center

Thomas International Center

Associazione Thomas International

 

 

   
 
English version

Palermo

7 aprile 2005

9:30

Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Palermo
Viale delle Scienze

 
 
     
 

 

RISCRIVERE I POETI NEI PERSONAGGI DI PLATONE

 

David K. O'Connor

University of Notre Dame

 

 

Traduzione italiana di

Gisella D'Addelfio

 

  

 

            Platone conferisce profondità ai suoi personaggi scrivendo in tre dimensioni. Nei principali dialoganti della Repubblica - Socrate e i suoi più giovani amici, Glaucone e Adimanto, fratelli di Platone, nella vita reale -, Platone descrive esseri pienamente umani. Innanzitutto alla vista del lettore, vi sono persone che argomentano e argomenti, così la dimensione logica del personaggio, diventa, in modo molto immediato, visibile. Questi uomini, però, non sono mere teste pensanti o menti disincarnate. Essi hanno attorno a loro l'odore della mortalità, con le loro storie individuali, le loro personalità, i loro impegni. Non è soltanto una questione di quali argomenti sono svolti, ma di che tipo di uomo svolgerebbe un particolare argomento, lo accetterebbe, o lo desidererebbe molto. In effetti, Socrate comincia virtualmente la sua conversazione con i fratelli dicendo che risponderebbe ai loro argomenti in modo differente se avesse una differente visione del loro carattere (368a-b). Noi cogliamo qualcosa di questa dimensione etica e psicologica dello scritto di Platone quando, per esempio, Socrate deve scherzosamente difendersi in un finto processo, ricordandoci che un giorno egli sarà processato seriamente, quando Glaucone lascia scorrere una vena erotica che preferirebbe non avere, quando i limiti di Adimanto sono implicitamente rivelati da Socrate che li supera nella conversazione con il suo più brillante fratello.

Così i personaggi di Platone fanno più che rivelare l'esplicita logica di un argomento. La dimensione etica delle parole ci pone sulla pista di segreti moventi e non riconosciute ironie; ma quello che i personaggi significano va oltre qualsiasi cosa i semplici individui Socrate, Glaucone, Adimanto potrebbero dire, a prescindere da quanto logicamente acuto e psicologicamente adeguato lo scritto di Platone possa essere. Infatti, in mano a Platone, Socrate e gli altri non sono soltanto individui; essi diventano rappresentanti ed esemplari delle possibilità umane come tali. Platone investe i suoi personaggi di questa ulteriore dimensione di significato proiettandoli in gigantesche figure del mito.  Per questa proiezione, la Repubblica dipende primariamente dal racconto omerico della discesa di Odisseo nell'oltretomba (Odissea XI), nota come "La visita ai morti" (in greco, Nekuia).

Questa intimità con il mito è, ed è il minimo che si possa dire, non proclamata a suon di tromba nella Repubblica.[1] Nel decimo e ultimo libro di quest'opera, Socrate riflette sulle mancanze dei poeti che sono stati gli educatori della Grecia, specialmente Omero. Egli quasi li esclude dalla sua perfetta città-nel-discorso. Socrate giunge a questo giudizio con un senso di perdita ed una riluttanza quasi imbarazzata. "Una certa affezione e un certo timore reverenziale nutriti fin da giovane nei confronti di Omero mi trattengono dal farlo" egli dice; e ancora "non è lecito aver più rispetto per l'uomo che per la verità" (595b-c). Ma è una verità dura nonostante ciò, e più in là Socrate suggerisce che se qualcuno può fornire un argomento che mostri che la poesia fa bene alla città, "noi saremmo ben felici di accoglierla, perché siamo perfettamente coscienti del fascino che esercita anche su di noi" (607c). [trad. Radice]

A questo punto, i lettori potrebbero pensare che Platone abbia bandito l'amicizia e il fascino dei poeti per sempre; ma se noi teniamo le orecchie bene aperte, la Repubblica in modo discreto riecheggia con i toni di Omero. La più corposa risonanza giunge nella consistente appropriazione di Platone del grande mito della vita dopo la morte che conclude la Repubblica, e il suo riscrivere Omero risuona attraverso tutta l'opera, e dà alla Repubblica il suo carattere a tre dimensioni. 

            Sentire la voce di Platone, lettore dei poeti, risuonare nei personaggi di Platone, scrittore della Repubblica, ci apre alla terza mitica dimensione di questo gigantesco dialogo. Quando Platone crea il suo racconto omerico della "visita ai morti", egli porta nell'analisi logica e nel dramma etico del dialogo, un tono sommesso da commento mitico, commento costruito a partire dagli echi dei suoi esiliati predecessori nell'educazione della Grecia.

 

Noi siamo stati preparati al duro giudizio socratico nel decimo libro dalla sua famigerata discussione con Adimanto sul "censurare" i poeti, nei libri secondo e terzo (376d-398b). Se qualche grande poeta sorge nella città che noi stiamo fondando, dice Socrate, "lo dirotteremmo verso altre città, [.] a noi, che miriamo a quel che è utile, servirebbe un poeta o un narratore di miti, magari meno piacevole, però più serio." (398a-b). Socrate ha in mente il beneficio per l'educazione dei guardiani nella sua città-nel-discorso, e pone l'attenzione sul bisogno di riformare il contenuto della "musica" (che significa specialmente la poesia di Omero), per farne un veicolo di virtù civile e patriottismo. Nel primo passaggio che esaminiamo per comprendere il modo in cui esso ritrae gli umani, Socrate critica la presentazione che Omero fa del destino degli eroi che muoiono in battaglia (386a-d):

"Ma poi, se [i custodi] devono prepararsi ad essee coraggiosi?" [disse Socrate]. "Non si dovranno allora dir loro, insieme con queste cose, altre in grado di far sì che essi temano la morte il meno possibile? [...] Chi ritiene che l'Ade esista e sia tremendo, pensi che  potrà non temere la morte e in battaglia preferire la morte alla sconfitta e all'asservimento?"

"Certo no" [disse Adimanto].

            "Bisogna dunque, a quanto pare, che noi sovrintendiamo anche a coloro che si dedicano a raccontare questo genere di favole, e raccomandiamo loro di non deplorare così semplicemente i fatti dell'Ade, ma piuttosto di lodarli, perché altrimenti direbbero cose non vere e neppure utili a diventare un buon combattente."

            "Bisogna proprio"disse.

            "Cancelleremo dunque, dissi io, a cominciare dai versi che seguono tutte le affermazioni dello stesso genere:

Vorrei esser bifolco, servire un padrone,

un diseredato, che non avesse ricchezza

piuttosto che dominare su tutte l'ombre consunte".

[trad. Vegetti]

            Socrate sta recitando qui un passaggio dell'Odissea di Omero (XI.489-491), dalla famosa sezione chiamata "la visita ai morti". Per compiere il suo ritorno a casa da Troia, Odisseo deve discendere nell'oltretomba per ricevere consigli dall'anima (in greco, psyche) del profeta cieco Tiresia. Mentre si trova lì, egli conversa con le anime di vari altri eroi morti, incluso Achille, il campione greco nella guerra di Troia. Quando Odisseo cerca di incoraggiare il triste Achille - egli è, dopo tutto, morto - ponendo in rilievo il grande onore che ora riceve laggiù, Achille non ne vuole sapere.

"Non abbellirmi, illustre Odisseo, la  morte!" dice questo eroe, "Vorrei da bracciante servire un altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba, piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti."[2]

Socrate critica questo inferno omerico, non tanto perchè la descrizione di Omero sia falsa, ma perchè essa compromette il coraggio e il patriottismo dei soldati della città. Noi non insegneremo lo spirito civico,  dice Socrate ad Adimanto, se lasciamo che Achille, il più glorioso di tutti gli eroi, dichiari che il suo sacrificio è stato uno sbaglio, e che perfino la vita più grande, la vita di chi ha il potere politico, nel regno di Ade non è degna della vita più piccola sulla terra verde.

Circa quattro libri più tardi, nella cosidetta "Allegoria della Caverna" che dà inizio al settimo libro, Socrate fa un commento che risuona stranamente familiare a tutto ciò, questa volta rivolto a Glaucone.  Socrate ha detto a Glaucone che l'uomo che è risalito a contemplare la vera realtà e poi è costretto a tornare alla politica è come un uomo che è risalito ed è dalla caverna e ora è costretto a tornare giù per camminare tra le sue ombre (516d-e):

 

"Pensi" [disse Socrate] "che [l'uomo che è uscito dalla caverna] sarebbe ancora desideroso di ottenerli [degli onori che gli abitanti della caverna si tributavano reciprocamente], o invidioso di quelli che ricevono onori e potere fra i prigionieri, o piuttosto, condividendo quel che dice Omero, preferirebbe di molto "esser bifolco, servire un padrone, un diseredato" e sopportare qualsiasi prova pur di non opinare quelle cose e vivere quella vita?"

"Così" disse [Glaucone] "credo anch'io: tutto accetterebbe di soffrire piuttosto che

 vivere in quel modo".

 

              Questa è la seconda volta in cui Socrate fa riferimento all'anima di Achille, il che ci mette di fronte ad una difficoltà. Infatti, ora Socrate usa le parole di Omero esattamente per compromettere l'attaccamento di un determinato uomo al potere politico e agli affari di una qualsiasi città. Queste precise parole erano state censurate per la loro tendenza a produrre precisamente l'effetto che Socrate vuole produrre qui: esse tendono a compromettere un incondizionato attaccamento del singolo alla politica e alla città. L'orientamento che Socrate dà a Glaucone ora contraddice nettamente la pedagogia su cui egli stesso e Adimanto si erano trovati d'accordo precedentemente. 

Socrate ha criticato il triste inferno di Omero in quanto scoraggia i custodi su cui la città deve fare affidamento proprio per il loro coraggio. Ma tale identificazione socratica della politica con l'inferno non ha forse lo stesso effetto, seppure per ragioni differenti? Socrate sembra essere un cattivo educatore del particolare uomo Glaucone, così come si era detto Omero fosse stato dei custodi. Socrate cita Omero per rendere la scelta tra la filosofia e la politica la scelta tra la vita e la morte. E questo non si coniuga forse questo malamente con l'ottimistica  e radicale ambizione di fondare una città "pura", anche se solo nel discorso?

 

Queste sono domande imbarazzanti. Sono anche domande platoniche?

Alcuni lettori dubiteranno che lo siano. Il fatto che Platone abbia creato questa eco omerica attraverso centotrenta pagine di testo potrebbe dopo tutto essere una coincidenza, un errore, o un'infelicità di poco conto. Tutti gli argomenti dati, tutte le posizioni definite, in breve tutta la complessità logica del dialogo che è intercorsa tra questi due punti potrebbe eclissare il significato della piccola voce omerica, un sussurro di mito perso in un vortice di filosofia. Ma il sussurro comincia molto presto. "Discesi ieri al Pireo in compagnia di Glaucone" recitano le parole di apertura della Repubblica. Questa apertura potrebbe essere irrilevante; portare un amico dalla città di Atene giù fino al suo porto non costituisce in se stesso un evento portentoso, sebbene Socrate sembri non averlo fatto molto spesso. Il suo ospite Cefalo, un uomo anziano ossessionato dalla sua paura della vita dopo la morte si lamenta: "Socrate, non vieni spesso a visitarci scendendo al Pireo" (328c) [trad. Vegetti]. La ripetizione di due forme del termine "discesa" (in greco, katabasis) hanno sfumature mitiche. Infatti, katabasis è la parola usata per indicare un viaggio nell'oltretomba. In particolare, è questa la parola che lo stesso Odisseo usa quanto racconta a sua moglie Penelope la propria "visita ai morti" (Odissea XXIII.252).

La discesa iniziale, che per se stessa potrebbe essere troppo debole come allusione, è richiamata nel "Mito di Er", il mito conclusivo della Repubblica circa la vita dopo la morte. Socrate dice a Glaucone come le anime dei morti ascendono dal castigo sotto la terra o discendono dalla ricompensa nei cieli (614d) e si preparano a scegliere una nuova vita che vivranno quando, di lì a poco, rinasceranno in una nuova incarnazione. Dopo aver tirato a sorte per determinare l'ordine della scelta, le anime cominciano a fare le loro scelte. Molte scelgono in modo non saggio; ma non così l'ultima anima (620c-d):

 

"L'anima di Odisseo," [disse Socrate], "cui la sorte aveva riservato proprio l'ultimo posto di tutti, si avviò alla scelta lasciando da parte ogni desiderio di gloria, memore delle sofferenze della vita precedente; si aggirò pertanto a lungo, alla ricerca della vita di un uomo qualunque senza preoccupazioni,[3] e la trovò a fatica relegata in un angolo, trascurata dagli altri. Non appena la scorse, la prese di buon grado, dicendo che non avrebbe fatto altra scelta neppure se fosse stata sorteggiata per prima."

[trad. Radice]

            É Socrate stesso che sembra essere proiettato in un mesto Odisseo che si ritira a vita privata dal subbuglio delle sue "fatiche" (in greco, ponoi) - parola usata per indicare le avventure i compiti dell'eroe. L'eroe ascenderà e tornerà alla vita con un nuovo modo di vedere che lo tiene puro dall'ambizione politica.

Questa è la mitologizzazione platonica della precedente conversazione di Socrate con Adimanto, che sembrava allora meramente personale ed etica (496a-e):

"Ben piccolo dunque, Adimanto," [disse Socrate,] "resta il numero di coloro si uniscono degnamente alla filosofia. [.] [Il vero filosofo] resta inattivo e attende alle proprie cose [.]. Vedendo gli altri traboccare di illegalità, si ritiene contento di poter vivere almeno la propria vita quaggiù puro d'ingiustizia e di azioni empie, e alla sua fine potrà lasciarla, accompagnato da una bella speranza, con l'animo sereno e disteso"

[trad. Vegetti]

            Socrate usa esplicitamente se stesso come un esempio di questo privato, ritirato filosofo (496c). La discesa iniziale della Repubblica e la sua ascesa  fornisce il commento mitico sulla vita eroica di Socrate e, in particolare, sulla sua assenza dalla politica.

Socrate descrive una "discesa" altre quattro volte nel dialogo, e tutte e quattro rinforzano ed abbelliscono questo tema dell'Odissea. Infatti, tre volte c'è una diretta connessione con il secondo riferimento di Socrate al lamento dell'anima di Achille nella "Allegoria della Caverna" (la quarta, 511 b, è parte dell'immediatamente precedente descrizione della linea divisa). In tutte e tre queste volte, Socrate dice a Glaucone che, anche nella città perfetta, i custodi che completano la loro educazione filosofica vorranno fuggire dalla politica, riconoscendo in essa un mondo dei morti al confronto con la vita della mente, all'esterno della caverna. Ma, dice Socrate, saranno costretti  a "scendere" giù nel mondo della politica e ad occuparsi di tutte le sue insignificanti "fatiche" (ponoi) e dei suoi onori (516e, 519b, 520d, 539e).

 

Fin qui, noi abbiamo considerato Socrate come Odisseo, l'intrepido e intelligente ospite di passaggio, esule in questa terra di fatiche per il bene di altri. (Nella loro descrizione del discorso di difesa di Socrate al suo processo, Platone e Senofonte fanno entrambi  proiettare a Socrate il suo esame dei concittadini come un'eroica fatica; cfr. Platone, Apologia 22a, e Senofonte, Apologia 17.) L'appropriazione di Platone della "visita ai morti" è significativamente più ambigua di quanto non sarebbe questo eroico Socrate. Per vedere questa ambiguità, è di nuovo di aiuto ritornare al passaggio in cui Socrate e Adimanto "correggono" la descrizione omerica della vita oltre la morte.

Infatti, dopo che Socrate e Adimanto hanno censurato il lamento dell'anima di Achille, il successivo passaggio  dell'Odissea che essi disapprovano (Odissea X.494-495) è il consiglio di Circe ad Odisseo di cercare l'anima di Tiresia, il profeta tebano che sarà la guida di Odisseo nell'oltretomba, e il suo consigliere su come ritornare a casa. Tiresia si distingue da tutte le altre ombre per uno speciale dono concessogli da Persefone, la regina del regno dei morti (Socrate cita solo il secondo verso, nel passo 386d):

 

A lui solo Persefone diede anche da morto

la facoltà di esser savio; gli altri sono ombre vacanti.

 

            Questo è l'unico passaggio in cui Omero chiama direttamente le persone dell'oltretomba "ombre" (in greco, skiai). (Odisseo un poco più avanti dice che l'anima di sua madre Anticlea era "come un ombra" quando egli cercava di abbracciarla: Odissea XI.207). Platone, con la sua straordinaria sensibilità come lettore e come scrittore, era colpito dalla parola "ombre". Nella "allegoria della caverna" egli usa "ombra" otto volte in tre pagine per descrivere ciò che l'anima non filosofica vede. (515a-517d). Questa densità delle ombre platoniche risuona con la conversazione di Odisseo con Achille, che rinforza l'appropriazione del mito omerico da parte di Platone. (Anche Socrate usa "ombre" una mezza dozzina di volte per descrivere i livelli più bassi della linea divisa, nei passi 509d-510d e 532b-c, esattamente come usa "discesa" sia a proposito della linea sia della caverna.)

            Queste ombre, però, aggiungono anche una nota potenzialmente discordante alla discesa, con l'intrusione di Tiresia. Altri dialoghi sfruttano questa proiezione di Socrate del personaggio omerico di Tiresia che guida la discesa di Odisseo, in particolare il Protagora (315b9 e c8) e il Menone (100a5). Quando pensiamo a Socrate stesso che discende e ascende, noi abbiamo una proiezione mitica; ma quando noi lo proiettiamo invece sul profeta cieco e accorto, che guida qualcun altro attraverso la discesa e, ancor di più, attraverso l'ascesa che egli stesso non potrebbe fare, Socrate assume un carattere mitico molto diverso. "Discesi" ha cominciato Socrate; ma "insieme con Glaucone" ha continuato. La proiezione di Socrate, come carismatico compagno di Glaucone, più che egli stesso guida, si adatta molto bene all'azione drammatica dell'apertura della Repubblica. La figura di un vecchio, che si distingue per il suo ingegno e la sua saggezza, conduce un protagonista più giovane, più fragile e lo aiuta a trovare la sua strada nel mondo delle ombre. La trama richiede che l'eroe risalga il percorso di nuovo. Ma la guida cieca potrebbe cadere sul margine della strada, non importa con quanta forza egli si appoggi al suo bastone.

             Platone sviluppa il tema di Tiresia nella stessa sezione in cui ricapitola il lamento di Achille, all'interno della "allegoria della caverna"; infatti quest'ultima non è il racconto di un qualche eroe autosufficiente che, solo grazie ai suoi propri sforzi, fugge verso la luce. Essa è concepita primariamente come il racconto di una "educazione" (514a), di una "conversione" (518b-d). Questa conversione non è piacevole, né è pienamente volontaria. I prigionieri nella caverna sono liberati solo dietro il fastidioso pungolo di una guida che li "trascinerà" su (515e). Questa spiacevole guida opera "costringendoli a rispondere alle sue domande" (514d). Quando i prigionieri vedono come la guida confonda uno di loro cercando di "liberarlo e condurlo su" vorranno persino ucciderlo (515d, 517a). Come il riferimento al lamento di Achille, questa introduzione da parte di Glaucone e di Socrate al tema di una guida nell'oltretomba aggiunge una dimensione mitica ad una conversazione precedente con Adimanto. Supponi che qualcuno persuada un giovane di talento, aveva detto Socrate ad Adimanto, a rigettare l'influenza corruttrice dei suoi amici e lacchè, e "lo faccia voltare e trascini verso la filosofia" Questi amici e lacchè non faranno forse tutto ciò che è in loro potere per distruggere un tale uomo, "complottando contro di lui in privato e attaccandolo in pubblico?" (495e). Il processo e l'esecuzione di Socrate per la sua influenza su giovani di talento sono previsti con Adimanto, poi resi con il mito con Glaucone.

            L'azione drammatica di Socrate che racconta a Glaucone "l'allegoria della Caverna" rappresenta la precisa storia dell'educazione raccontata nella "allegoria". Socrate ha il ruolo di guida di Glaucone nell'ascesa dalla caverna dell'ambizione politica. Egli enfatizza dinanzi a Glaucone che uno che sia salito fino alla luce non tornerebbe di nuovo giù nella caverna delle ombre, a meno che non fosse costretto da qualche necessità. Il mondo della politica assume il significato mitico di essere il mondo dei morti, un mondo di mere anime. L'identità di Socrate come mentore assume l'ulteriore significato mitico di profeta, la guida delle anime attraverso l'oltretomba, ed egli circoscrive la sua implicita pretesa di uno speciale discernimento in un regno altrimenti abitato da vuote ombre. 

            Supponi che Socrate stia svolgendo il ruolo di Tiresia nei confronti di Glaucone-Odisseo, così come di Odisseo stesso. Questa duplice identità mitica sarebbe la versione della Repubblica della decisiva ambiguità al cuore delle socratiche dichiarazioni e smentite di conoscenza presenti in così tanti dialoghi di Platone. Socrate stesso ha il tipo di conoscenza richiesta per un'ascesa fuori dalla caverna, oppure egli può solo indicare la via d'uscita per qualcun altro. La cosa che più assomiglia ad una risposta nella Repubblica è all'inizio di una delle sue sezioni più problematiche, la discussione sull'idea del Bene. Questo Bene assoluto, dice Socrate ad Adimanto, è quello che

"ogni anima persegue e al quale finalizza ogni azione, col presentimento[4] che pur abbia un valore - e tuttavia in questo essa è nel dubbio [...] quell'ideale di tale portata e rilevanza saremmo disposti a tollerare che resti nell'ombra anche per quelli che eccellono nello Stato e nelle cui mani senza riserve ci consegniamo?" (505e-506a).

[trad. Vegetti]

         I lettori condividono l'attesa di Adimanto che la risposta di Socrate sia "No" e in modo naturale pensano egli sia sul punto di rimuovere il dubbio (in greco, aporia) e l'oscurità, fornendo qualcosa di più chiaro di una divinazione (parola con la stessa radice della parola "profeta"). Ma non è così.

"Predìco"  prosegue Socrate, "che prima di saperlo nessuno potrà adeguatamente conoscere quelle stesse cose [le cose giuste e belle]" (506a). [trad. Vegetti] [5]

        

         La ripetizione risuona; anche Socrate soltanto "predice" cosa è questo Bene assoluto? Quando Adimanto e Glaucone premono su di lui perché spieghi questo misterioso bene, Socrate rimanda. E in modo criptico dice a Glaucone: "la possibilità di giungere a quello che io ne penso ora mi sembra superiore a ciò che miriamo al presente" lasciando nell'oscurità se il suo rifiuto è provocato da limiti suoi o degli altri (506e). La sua esitazione finale è altrettanto discreta, quando cioè Glaucone gli chiede di mettere da parte l'immagine della caverna e di dire chiaramente come si ottiene questa conoscenza salvifica:

 "Non scorgeresti più un'immagine di ciò di cui parliamo, ma la verità stessa, almeno come essa mi appare. Se è realmente così, oppure no, non è il caso di affermarlo recisamente: ma che qualcosa di tal genere sia da vedere, questo va sostenuto." (533a)

 

            Socrate percepisce che c'è qualcosa da vedere, ma non dice che egli la vede.

            Platone ha escogitato un silenzio molto eloquente per tenere sospesa la soddisfazione della curiosità dei suoi ascoltatori. Ma entrambi i fratelli non sono trattati meglio da Socrate.

 

Che tipo di guida diventa Socrate per Glaucone? Questo dipende da dove riteniamo Glaucone parta. Platone descrive Glaucone con considerevoli particolari psicologici. Socrate percepisce in lui una estrema virilità (357a), nota il suo coraggio militare (368a), un talento per la musica (398e) e una forte passione erotica (402d-e, 468b-c, 474d-475a; vedi anche 458d). Glaucone inoltre mostra, attraverso tutto il dialogo, un intelletto penetrante, per non parlare di un ingegno qualche volta sarcastico a spese di Socrate (per esempio, 509c, 547a-b, 595c e 596d). Alla fine, il suo interesse a fondare una città, anche se solo nel discorso, ci indica la molto intensa passione politica di Glaucone (un'indicazione confermata da Senofonte, contemporaneo di Platone, in Memorabili III.6). Egli combina l'amore per l'onore caratteristica dell'ambizione politica e militare con tratti più musicali ed erotici, una combinazione che si trova raramente  (cfr. 375c-376c, 475a-b, 485b, 548d-e). In breve, Glaucone sembra avere proprio le doti naturali che egli e Socrate enumerano quando descrivono i custodi e i filosofi nella loro città ideale (474b-487a). O forse più precisamente, questa descrizione della natura filosofica ideale è anche un'idealizzazione di Glaucone, un'attenzione sulla sua aspirazione piuttosto che semplicemente una analisi del suo presente sé. Deve essere con una qualche euforia che, poi, alla fine di questo passaggio il Glaucone reale sente Socrate dire del potenziale Glaucone, "Allora quando questi [uomini] abbiano raggiunto la maturità, non solo nell'età, ma anche nella formazione non affideresti a loro, e solo a loro, la responsabilità dello Stato?" (487a).

            Ma Glaucone non ha la possibilità di dare a questa domanda l'enfatico "Sì" che deve avere avuto sulle labbra, per non dire nel suo cuore.  Adimanto interrompe con una sfida che complica l'ottimismo circa il modo in cui un uomo come Glaucone potrebbe passare dal suo sé reale al suo sé perfetto, diventando in questo processo un filosofo-re. Tutto questo va bene in teoria, dice Adimanto, ma non è vero in pratica. Quando giunge alla politica, la filosofia rende quelli che "vi hanno insistito troppo a lungo" politicamente inutili, o persino malvagi (487b-d). Con la sorpresa dei fratelli, Socrate non cerca di respingere questa accusa. Egli persino la radicalizza, dicendo che la maggior parte  sono resi malvagi (489d, 490e). "Ognuna delle qualità che abbiamo lodate in questa natura può perdere l'anima che la possiede e distoglierla dalla filosofia", dice Socrate, e lo stesso fanno doti quali la ricchezza e la buona sorte (491b, 495a). [trad.Vegetti] Le stesse doti naturali che sono necessari prerequisiti per la filosofia espongono anche l'uomo a tentazioni quasi irresistibili verso la tirannia. Il peggio può solo venire dalla corruzione del meglio (491d-e); il potenziale filosofo è anche il potenziale tiranno. Noi ci aspetteremmo di vedere che Socrate si associa ai giovani uomini che trovano qualcosa di affascinante nella tirannia, i quali sono aperti alle sue seduzioni,esattamente come ci aspetteremmo di vederlo unirsi con quelli con un talento per la filosofia. 

Glaucone vuole detestare i tiranni, ma sente il loro fascino ed è il potente per quanto riluttante erede della concezione della tirannia proposta (nel primo libro) da Trasimaco e condannata da Socrate. I sofisti erano affascinati troppo facilmente, dice Glaucone, come un serpente (358b) ed egli chiede a Socrate una più convincente confutazione della vita del tiranno, basata su un desiderio sfrenato.  Il suo discorso (all'inizio del secondo libro) rimette brillantemente il serpente in libertà. Egli protesta, anche un po' troppo: egli "rinnova" la tirannia solo per amore di chiarezza 

"[.] benché Socrate questa non sia proprio la mia opinione. Mi trovo però in difficoltà". (358 c) [trad. Vegetti]

 

Questo presunta "difficoltà" (aporia) ha un vago odore di marcio, come un profumo dolce su un fetido sudore, e il suo rinnovamento è acre della intimità con la sua nascosta passione.

Il vigore virile di Glaucone (cfr. 359b con 357a e 359a con 361d) nella difesa del tiranno è soprattutto esposto nell'esperimento mentale, che egli ha composto: "l'anello di Gige"(359c-360b). Una volta, un antenato di Creso, Gige, si stava occupando delle pecore, dove egli "serviva" (359d; la stessa espressione usata da Achille nel suo lamento) del re. Una grande tempesta ed un terremoto squarciarono la terra, aprendo una voragine, in cui egli scese. Lì egli vide molte cose meravigliose degne di un mito (359d) e recuperò un anello magico. Quando scoprì che questo anello aveva il potere di rendere invisibile colui che lo indossava, il pastore usò questo potere per uccidere il re, commettere adulterio con sua moglie e assumere il trono. Glaucone chiede ai suoi ascoltatori di considerare se avrebbero agito in modo differente, nel caso in cui avessero avuto un tale anello al dito. L'invisibilità è rivelatrice di una nascosta passione. L'uomo giusto e quello ingiusto "non farebbero nulla di diverso l'uno dall'altro, ma entrambi andrebbero nella stessa direzione" (360c). [trad. Vegetti, parz. mod.] Questa morale immorale, qualunque sia la sua generale applicabilità, certamente ci dice molto su quello che Glaucone trova dentro di sé. La ragione per cui egli si sente "confuso" da argomenti in lode della tirannia è che una parte di lui è in accordo con questi argomenti. Il suo esperimento mentale scopre quello che egli preferirebbe dissimulare, e di cui forse vorrebbe sbarazzarsi completamente.

La sua confusione è causata da un insieme di ossessione e disgusto, portato molto vicino alla superficie quando il decimo libro mette a nudo la natura erotica del tiranno.Questo aiuta a motivare la riluttanza di Glaucone a riconoscere il suo temperamento manifestamente erotico. Quando Socrate lo cita come un'autorità su ciò che un "uomo che ama" direbbe, Glaucone si mette sulla difensiva: "Se vuoi riferirti a me, disse, quando dici che gli innamorati si comportano così, te lo concedono per amore della discussione" (474d-475a) [trad. Vegetti]. Ma il suo esperimento mentale ha avuto successo per questo stratagemma. Perché, d'altra parte, nel racconto, egli pone tutta questa enfasi sull'adulterio e, più in generale, sulla sregolatezza sessuale (360b)? É per la stessa ragione che, quando Socrate suggerisce che i giovani e i ragazzi dovrebbero ricompensare i soldati coraggiosi con corone, strette di mano e baci, Glaucone suggerisce andando oltre:

"A nessuno [dei coraggiosi soldati] sia concesso di respingere chi vorrà baciarlo, cosicché se qualcuno è innamorato di un maschio o di una femmina, sia più motivato a conquistare i primi posti nella gara del coraggio"(468b-c). [trad. Radice]

 

La passione erotica è una parte profonda di Glaucone come qualsiasi cosa potrebbe essere. Essa è una parte centrale di ciò che lo rende un uomo giusto per la filosofia (cfr. specialmente 474c-d), ma allo stesso tempo è ciò che minaccia di renderlo meno uomo.

            Glaucone potrebbe con successo evitare di confrontarsi con il suo sé erotico, se egli non avesse cattivi sogni.  Socrate e Adimanto riconoscono nei nostri sogni senza difesa una prova del nostro sé nascosto, sogni che adombrano gli studi classici greci sul tirannico e sul tragico: incesto, parricidio e cannibalismo (571c-d). "Le leggi e le buone intenzioni, con l'opera della ragione" possono indebolire questi cattivi desideri, ma ancora essi sono presenti "in ciascuno di noi, anche in quelli che all'apparenza sono più controllati" (571b, 572b). [trad. Radice]

Il massimo che noi possiamo fare è calmare questi desideri nella speranza di svegliare una parte differente di noi. Socrate chiama questa migliore parte di noi la parte "calcolatrice" o "pensante", ma il suo lavoro nel sonno e nel sogno ci dà lo shock di un riconoscimento:

"[la parte migliore dell'anima] dovrà essere lasciata libera di indagare in perfetta solitudine e di tendere al coglimento di ciò che ancora non conosce delle cose passate, presenti o future. [...] E in tale stato sai bene che egli [un uomo] attinge in grado massimo alla verità e quelle visioni di sono gli appaiono allora assai meno conturbanti". (571e-572b) [trad. Radice]

 

Socrate sembra descrivere la stessa facoltà che egli precedentemente ha descritto come divinazione del Bene: l'anima "ha il presentimento" che esso "pur abbia un valore, e tuttavia è nel dubbio, per il fatto che non ha la capacità di cogliere con sufficiente chiarezza l'essenza del Bene" (505e). Opposta alla sregolatezza del desiderio erotico è non la sicurezza della conoscenza, ma l'oscura intuizione del profeta. Questo passaggio ci ricorda come le facoltà profetiche di Cefalo a proposito della vita dopo la morte (330d-e) erano state svegliate solo quando egli, come Sofocle, era divenuto sufficientemente anziano da essere sessualmente impotente, sfuggendo a "molti folli padroni" che anche affascinano il tiranno (329b-d e 573a-c). Anche in Glaucone, il sé erotico è in competizione con il sé profetico ed egli non ha la saggezza che viene dall'essere vecchio. Nessuna meraviglia, dunque, se nella sua confusione ha bisogno di un Tiresia.

 

           Supponi di essere "sceso" a causa di "una tempesta e un terremoto" (359d) in una caverna aperta nella terra, nella silenziosa magnificenza di una tomba dove risiede l'anello dell'invisibilità. Dove saresti? Socrate risponde alla domanda verso la fine del dialogo quando dice a Glaucone:

 

"Dunque nel nostro discorso," [Socrate] disse, "abbiamo posto in evidenza tutti gli altri temi, ma non abbiamo ancora magnificato né le ricompense, né la fama che toccano alla giustizia, come, a vostro dire, avrebbero fatto Esiodo e Omero. Tuttavia non abbiamo forse scoperto che la giustizia costituisce il bene più prezioso per l'anima in quanto tale, la quale, quindi, deve fare ciò che è onesto, sia che abbia, sia che non abbia l'anello di Gige e, oltre a questo anello, anche l'elmo dell'Ade?"                                      (612a-b) [trad. Radice]

 

            Socrate sta tornando a riferirsi ad una lamentela che Adimanto, non Glaucone, aveva fatto contro Esiodo e Omero (363a; Glaucone aveva fatto questa lamentela solo contro "i più", 358a), dando alla sua risposta una dimensione mitica. Se la tua invisibilità rivelasse i desideri che Glaucone ha suggerito, il tuo anello e il tuo elmo potrebbero essere doni del diavolo; perché tu sei all'inferno. La risonanza mitica dell'esperimento mentale di Glaucone completa la sua penetrazione psicologica.

É facile sentire, nella "discesa" nella voragine del tirannico pastore, tutte le altre discese e tutte le altre caverne del dialogo. E "tempesta e terremoto" che squarciano la terra hanno anch'essi i loro echi omerici. Alla fine dell'opera (621b), "tempesta e terremoto" segnano l'ascesa delle anime reincarnate dall'oltretomba platonico. Più singolare che, nel secondo passaggio omerico che Adimanto disapprova per la sua descrizione dell'oltretomba (nel passo 386d, che cita Iliade XX.64-65), Ade si preoccupa del fatto che la terra è stata squarciata, esponendo il mondo dei morti alla vista dei vivi, dalla contesa tra il tuono di Zeus dall'alto e lo scuotimento della terra dal basso ad opera di Poseidone (XX.55-63). Ancora una volta, quello che Adimanto disapprova come pedagogia, Glaucone rappresenta come mito. Quest'eco spiegherebbe la singolarità di questo particolare passaggio omerico tra i sette riuniti da Socrate in una lista (386c-387a). Degli altri sei, tre riguardano la discesa nell'oltretomba narrata nell'Odissea e tre la morte di Patroclo, l'amato amico di Achille, nell'Iliade; tutti hanno una più ovvia connessione con la dimensione mitica del dialogo. 

 

La tensione nel carattere erotico di Glaucone lascia il lettore con una mente duplice, o meglio, con due stati d'animo rispetto ai consigli che Socrate dà a Glaucone. Socrate promuove uno stato d'animo riformista, attivista, che ha un'alta considerazione di una politica purificata. Questo raggiunge il suo più alto sviluppo proprio quando a Socrate non può, a causa interruzione di Adimanto, rivolgersi alla città-nel-discorso con Glaucone.  Da questo punto, Socrate desta uno stato d'animo rinunciatario, ritirato che svaluta il potere politico comparandolo con il governare nell'inferno piuttosto che con il vivere alla luce del sole. Quando Socrate recita il lamento di Achille una seconda volta, siamo costretti a riferire un sorriso ironico al suo precedente allevare l'ambizione di radicale di Glaucone?

Io credo sia un errore lasciare che lo stato d'animo rinunciatario eclissi la sua più positiva valutazione della politica. Sebbene questi suoi stati d'animo potrebbero non credere l'uno nell'altro, essi non si contraddicono a vicenda. Ma la sfumatura originaria dello stato d'animo riformatore viene messo in difficoltà da un pallido proiettarsi del dubbio, dubbio sul fatto che la riforma possa mai aspettarsi di guadagnare il nome di azione. Al centro tematico del dialogo (473c-e), Socrate suggerisce che i mali umani cesseranno solamente quando o i filosofi diverranno re o i re filosofi. Mentre è solo appena possibile che questa benedizione dovrebbe realizzarsi - Socrate dice che essa "non è interamente una mera preghiera" (540d; veda anche 499b-c) -, non è neanche qualcosa che qualcuno potrebbe portare a compimento soltanto attraverso una decisione. La più grande benedizione politica possibile per esseri umani è una questione di coincidenza (473d), sorte (499b), o di un'ispirazione divina (499c).

 

Questa bruta resistenza dei più alti obiettivi politici al controllo umano non sembra così importante se si è nello stato d'animo rinunciatario. Infatti l'essere del tutto privati di ogni opportunità di governare è solamente per evitare una distrazione, e la percezione che questa mancanza comporterebbe una perdita reale risulta attenuata, o del tutto soppressa. Ma io sento anche un tipo di rimpianto nella Repubblica, come per qualcosa di bello da cui è stato necessario astenersi.  Questo rimpianto è ciò che si produce quando il riformatore comprende che la riforma è fuori dal suo controllo.

Socrate esprime in modo memorabile il rimpianto del riformatore quando discute con Adimanto circa l'attitudine del vero filosofo verso la politica, dati i suoi pericoli e la sua corruzione (496d-497a):

            Vedendo gli altri traboccare di illegalità, si ritiene contento di poter vivere almeno la propria vita quaggiù puro d'ingiustizia e di azioni empie, e alla sua fine potrà lasciarla, accompagnato da una bella speranza, con l'animo sereno e disteso"

            "Non è davvero poco". [Adimanto] disse "quello che avrebbe ottenuto prima d'andarsene"

            "Ma neppure il massimo" [Socrate] disse, "perché non gli è toccata la città adatta a lui: in una adatta egli stesso avrebbe eccelso e avrebbe salvato, insieme con il proprio, anche il bene comune"

[trad. Vegetti]

         Qui una politica riformata non costituisce una qualche necessità da evitare con gioia. Socrate riconosce che governare una città bene significa servire il bene privato del governante. La "crescita" che il governante sperimenta è un bene intrinseco, non soltanto il bene strumentale per evitare il governo di persone malvagie.  Ma è una crescita che non può essere perseguita; noi dobbiamo aspettare una qualche sorte divina per farne esperienza. Lo stato d'animo dominante è la rassegnazione ad una inevitabile perdita, illuminata solo dalla gratitudine per una straordinaria bellezza.

            Il motivo di Tiresia nella Repubblica, quindi, getta un manto di rimpianto e di rassegnazione sulla ambizione politica di Glaucone. Socrate condurrà Glaucone ad essere troppo terreno per abbandonare la politica e troppo ultraterreno per aver fiducia nella possibilità di riformarla. Il sé erotico non è stato armonizzato con il sé profetico. Questa non è l'unica parola di Platone sulla relazione tra il profetico e l'erotico, e forse non è l'ultima parola. Per esempio, il Simposio (che induce ad un centinaio di paragoni, non ultimo attraverso il fatto che il dialogo inizia con Glaucone che riferisce il suo stesso intenso interesse verso l'argomento) certamente suggerisce una relazione molto più stretta tra l'erotico e il profetico. (cfr. 192d e 202e) Ma qui si tratta della fine del racconto di Glaucone nella Repubblica.

 

            La famosa allegoria della caverna è molte cose. Ma la più importante tra queste, è il fatto che essa è una riscrittura di Omero. Socrate ha guidato Glaucone verso una nuova identità mitica, da un ambizioso Achille ad un mesto Odisseo.

           Ma questa riscrittura ha complicato ed elaborato la stessa proiezione mitica di Socrate, verso quella di un trionfante eroe. I termini della riscrittura ci proibiscono di affermare che Socrate semplicemente è o semplicemente non è l'eroe di questo poema epico in prosa. Egli è l'intrepido Odisseo stesso, eroe di un poema epico filosofico con la sua nostalgia per una casa celeste (cfr. 592a-b); oppure è Tiresia, la guida dell'eroe, intelligente e profetico ma ancora essenzialmente cieco, e avente solo una divinazione della strada dell'eroe? Il mito di Platone ci nega la soddisfazione dell'Odissea di Omero, poiché noi non possiamo dire se il personaggio principale alla fine abbia trovato, attraverso molte fatiche, la strada verso casa, o sia rimasto arenato nel mondo dei morti della politica e dell'ambizione, e abbia salvato altri sebbene lui non potesse salvarsi. È difficile vedere un accidente in un'ambiguità così sottilmente composta.

 

            Avendo abituato l'orecchio del lettore a questi due temi omerici, Platone ci offre una coda divertente. Socrate ed Adimanto censurano un ultimo passaggio dell'Odissea per il modo scoraggiante in cui presenta il mondo dei morti (387a). Odisseo era ritornato a casa e si era preso la sua vendetta sui cosiddetti pretendenti di sua moglie Penelope. Quando loro furono morti, Hermes lo Psicagogo (colui che conduce le anime) li chiamò giù all'inferno. Nella descrizione omerica che Socrate ed Adimanto disapprovano (Odissea XXIV.6-7), costoro si affliggono e si agitano dietro alla divina guida.

            Come nel fondo d'un orrido antro stridevano svolazzando i pipistrelli,

             se dalla roccia ne cade qualcuno

           Questa citazione è accorta nelle sue assonanze quanto le precedenti. Come era solo nel passaggio circa Tiresia che Omero aveva chiamato le anime "ombre", così questo è il solo passaggio dove egli esplicitamente collega l'oltretomba ad una caverna. Ma questo passaggio prefigura un ultimo aspetto della dimensione mitica del Socrate dell'oltretomba. Egli diventa anche uno psicagogo (dal greco psyche "anima" e agagein "condurre"), il sacerdote che conduce gli altri in un rituale di iniziazione e purificazione, nei misteri della vita dopo la morte.

           Tali rituali di iniziazione, dei quali i misteri eleusini sono i più famosi, erano centrali nella vita religiosa greca. Essi comportavano tipicamente un viaggio rituale durante il quale il sacerdote che presiedeva insegnava dottrine segrete agli iniziati, per purificarli e proteggerli nell'oltretomba (la partecipazione spesso comportava anche una spesa considerevole.) L'iniziazione culminava nell'improvvisa rivelazione di un oggetto di culto, una visione sacra tale da essere contemplata solo dal purificato. La Repubblica si appropria delle profondità spirituali di queste idee religiose. Questo è ovvio nel grande mito finale, dove l'anima è condotta attraverso un viaggio purificatore (611c) che culmina in una visione di una pura colonna di luce al centro del cuore profondo del mondo (616b). Ma ugualmente singolare è il modo in cui Platone pone ad anello i cambiamenti sullo schema di una guida che conduce un iniziato al contemplare (in greco, basato sulla radice the- da cui derivano anche i vocaboli inglesi "theater" e "theory") una visione improvvisa, raggiungendo un crescendo nella "Allegoria della Caverna."

            Questo chiaramente era un mito che Platone ha inteso nutrire. Nel Fedone, la filosofia stessa è presentata come un rito di purificazione (69b e 82d; in greco, katharmoi), ed il tono del dialogo è dato dal sapere religioso pitagorico. Il Simposio è anche più vicino alla Repubblica. Nel suo discorso centrale, la profetessa Diotima fa un uso elaborato del vocabolario di un'iniziazione ad un mistero (209e-210a), condotta da una guida (210a, 210e) ad una visione improvvisa (210e; in greco, exaiphnes "improvviso" e kathoran "vedere intensamente"). Nella Repubblica, questi temi ricevono la loro prima asserzione nelle frasi d'apertura di Socrate (327a-b, corsivo dell'autore):

"Discesi ieri al Pireo insieme con Glaucone, figlio di Aristone, sia con l'intenzione di offrire la mia preghiera alla dea, sia perché volevo al tempo stesso osservare in qual modo avreb-bero organizzato gli spettacoli che ora per la prima volta tenevano [.] Dopo aver offerto preghiere e aver osservato la processione della gente del posto, ripartimmo verso la città".[6]

[trad. Vegetti]

        Polemarco, il figlio di Cefalo interrompe la loro partenza, e lui ed Adeimanto inducono Glaucone e Socrate a visitare la casa di Cefalo con la promessa di qualche cosa "degna di essere vista". Quando loro arrivano, il vecchio Cefalo, che ha appena fatto un sacrificio, rimprovera Socrate per il fatto di non scendere più spesso, e presto se ne va per andare a svolgere altri sacrifici.  (328c e 331d). Egli racconta del suo passato come un uomo con una coscienza colpevole, in cerca di una qualche rassicurazione che può essere comprata e può essere venduta ed egli parla di una speciale visione delle cose dell'oltretomba, specialmente delle sue punizioni (330d-331b). Noi apprezziamo pienamente come sia compatta l'introduzione di questi temi da parte di Platone, quando impariamo che le divinità onorata nel culto nuovo che viene svolto, erano le Bendidie, divinità della Tracia, legate a Persefone, regina dell'oltretomba (354a).

 

         Questi temi sono ripresi ancora con una speciale enfasi da Adimanto. Dopo che Glaucone rinnova la lode fatta dal Trasimaco del tiranno con "L'Anello di Gige", un discorso che rivela in modo scomodo la sua propria ambivalenza erotica, è la volta di suo fratello. Ma gli argomenti di cui Adimanto desidera tanto sentire da Socrate rispondono ad ansie diverse. È il fantasma di Cefalo che Adimanto ricorda, l'invocazione piena di paura del vecchio uomo dei tormenti nella vita ultraterrena. "Chi dunque scopre nella propria vita molte ingiustizie spesso si risveglia dal sonno, in preda al terrore" dice il padre Cefalo (330e, trad. Vegetti), ed almeno una parte di Adimanto eredita questa preoccupazione per che tipo di sogni può venire. Adimanto ritiene che queste storie che disturbano - Cefalo li chiama "miti" (330d) - sono letterarie in origine, ed egli le attribuisce ai poeti Orfeo, Museo, ed il figlio di Museo, Eumolpo il fondatore dei misteri eleusini (363c, 363e 364e). Adimanto è ansioso circa tutto questo sapere orfico religioso. Egli è specialmente critico nei confronti del più grande conforto di Cefalo, il sacrificio compensativo (364b-e). Ma egli disapprova anche le descrizioni di un essere condotto (agagein; 363c) nell'Ade attraverso iniziazioni (365a, 366a), purificazioni (364e), e rituali di "liberazione" dalla punizione (in greco, lusis; 364e, 365a 366a). In ciò si intende richiamare la fantasia di Glaucone sul potere dell'anello che diede licenza per "liberare da catene" chiunque, noi vogliamo (360b)? Con Adimanto, la manipolazione della "liberazione" è un incubo religioso; con Glaucone, è un sogno politico. In ogni caso, Adimanto è simile a suo fratello nel negare ogni personale attaccamento alla posizione che egli così vigorosamente costruirà perché Socrate la butti giù.  Altri svolgerebbero questi argomenti in modo serio, egli vorrebbe che Socrate sapesse: "io però - non ho bisogno di nasconderti nulla - sto parlando con il maggiore impegno possibile perché desidero ascoltare da te la tesi contraria" (367a-b). Un uomo non soffoca come questo a meno che non abbia qualche cosa da ingoiare.

 

            Platone ritorna sui temi di Adimanto con il suo caratteristico schema di elaborazione.  Quello che Adimanto rifiuta diventa la pietra angolare di un mito che Socrate e Glaucone rappresentano nella caverna.  I prigionieri sono "liberati dalle loro catene" (lusis; 515c, 517a, 532b) da un misterioso "qualcuno", ovviamente raffigurazione di Socrate (cfr. 515d, 517a). Questa liberazione richiede che essi siano riorientati e voltati verso, o più letteralmente "condotti a girarsi" (in greco, agagein con peri "intorno"; 514a, 515c, 518c, 518d, 521c). Socrate invita Glaucone a considerare "come li si possa guidare verso la luce, proprio come quelli di cui si dice siano ascesi dall'Ade fino agli dei" e aggiunge che questo condurre sarà "una conversione dell'anima da una sorta di giorno notturno al giorno verso, cioè dell'ascesa verso ciò che è, e questa ascesa diremo essere la vera filosofia (521c). Così essere condotti a volgersi è allo stesso tempo un essere condotti in alto, un'ascesa forzata.

            Questa conversione dall'oscurità alla luce, noi impariamo, è all'inizio accecante, quando i prigionieri rilasciati tentano "improvvisamente" di adattare la loro "visione" a quello che la luce illumina sopra.  Similmente, saranno altrettanto ciechi se cercheranno di tornare giù per una "visione improvvisa" nelle ombre (515c, 515e 516a, 516e 518a). Il passaggio caratterizza ripetutamente i prigionieri liberati dal loro "contemplare", ciò che è dei cieli (516a), ciò che è illuminato (516b), l'intelligibile (517b), il divino (517d), ed il reale (518c). Le ombre della Caverna sono dense dell'eco che viene da Adimanto e dal vecchio.

             Alla fine, la descrizione di un'educazione filosofica e matematica che segue la "Allegoria della Caverna" continua la risonanza orfica. Socrate e Glaucone considerano come noi siamo "condotti a contemplare" le cose più alte, rivolgendoci all'unità (524e), al numero (525c), alla geometria (526e), all'astronomia (529a). "Tutto il lavoro sulle tecniche che abbiamo passato in rassegna", ricapitola Socrate, "ha questa capacità di elevare la parte migliore dell'anima verso la contemplazione di ciò che vi è di migliore tra le cose che sono quello che è migliore di quello che esiste" (532b-c). Dopo questo lungo "preludio", Glaucone chiede a Socrate "la canzone stessa", una descrizione della vera arte filosofica, la dialettica (532d), che sarebbe la piena realizzazione dell'iniziazione di Glaucone. In risposta, Socrate fa di nuovo suo un precedente passaggio della censura esplicita di Adimanto. Adimanto si era lamentato del fatto che nei loro scritti i poeti orfici "seppelliscono gli empi e gli ingiusti nelle fangose profondità di Ade" (363d).

            Ora, risulta, questo è lo stesso fato a partire dal quale la dialettica guadagnerà la nostra liberazione:

"davvero essa trae dolcemente l'occhio dell'anima" dice Socrate, "da quel barbaro pantano in cui è sprofondato e lo riconduce verso l'alto, valendosi in questa conversione dell'ausilio delle tecniche che abbiamo passato in rassegna" (533c-d).

 

Quando Socrate dice che c'è realmente o letterariamente un " barbaro pantano " che copre l'occhio dell'anima, lui sta ricordando certamente lo stesso tema orfico come Adimanto, e forse lo specifico linguaggio di un particolare testo.

 

            "Io discesi": eco misteriose davvero. La piccola campana fatta suonare nella prima parola risuona come un carillon in una caverna.

 

 


 


[1] I passi della Repubblica qui riportati sono citati alcuni dalla traduzione italiana di R.Radice (in Platone. Tutti gli scritti, a cura di G.Reale, Bompiani Milano 2000, altri dalla traduzione di M.Vegetti (Bibliopolis, Brescia, 1998). Verrà indicata per ciascuna citazione la traduzione cui si fa riferimento.

[2] I passi dell'Odissea sono citati dalla traduzione di G. A Privitera (Mondadori, Milano 1991)

[3] La traduzione inglese dell'autore suona "the life of an apolitical private man"

[4] O'Connor traduce: "The soul divines that this Good.."

[5] O'Connor: "I divine that no one will adequately know what is just or noble before knowing this Good".

[6] O'Connor: "I descended to Piraeus yesterday with Glaucon, son of Ariston, wanting to pray to the goddess, and to gaze on how they would put on the cult celebration, since they were leading it for the first time. After we had prayed and gazed on the spectacle..."

 
   

CENTRO RICERCHE TOMMASO D'AQUINO

Collegio Universitario ARCES

 

DIPARTIMENTO DI STUDI GRECI E LATINI

Università degli Studi di Palermo