|  | Per 
                          un dialogo costruttivo. Replica a Chiara Lalli  
                           di Giuseppe Savagnone*   
                        
                         
                          Abbiamo discusso di 
                          persona con Chiara Lalli le questioni che ella riprende 
                          nel suo articolo e ho maturato la convinzione che è 
                          possibile confrontarsi con lei – come del resto con 
                          tanti che in buona fede sono convinti della ragioni 
                          che portano al legittimare l’interruzione volontaria 
                          di gravidanza – senza scadere in quel clima da rissa 
                          che spesso caratterizza  le discussioni su questi 
                          temi.  
                          Vorrei partire dalla 
                          fine: dal punto, cioè, in cui Lalli denuncia giustamente 
                          la sproporzione tra l’impegno di chi è contrario all’aborto 
                          nel combatterlo e i suoi sforzi concreti per consentire 
                          alle famiglie – e in particolare alle madri – in difficoltà 
                          di accogliere e allevare dignitosamente i propri figli. 
                          Partiti e governi che si sono battuti accanitamente 
                          contro l’aborto spesso non hanno puntato con lo stesso 
                          accanimento su una seria politica di sostegno alle famiglie. 
                          Aggiungerei soltanto che la stessa singolare concentrazione 
                          sul problema dell’interruzione della gravidanza, piuttosto 
                          che sulla possibilità di portarla a termine contando 
                          sull’aiuto della società per la cura dei propri bambini, 
                          si constata anche nei fautori della legalizzazione dell’aborto, 
                          che sembrano identificare la tutela della donna nell’assicurarle 
                          il diritto di uccidere i propri figli piuttosto che 
                          nel darle quello di farli nascere e di assicurare loro 
                          le cure necessarie. Da qui battaglie durissime per legalizzare 
                          l’interruzione di gravidanza e la totale insensibilità, 
                          al tempo stesso, per i problemi delle famiglie. Dall’una 
                          e dall’altra parte, insomma, si dà l’impressione che 
                          la battaglia ideologica per la difesa del nascituro 
                          o per quella della libertà della madre ignori le esigenze 
                          effettive di questi soggetti e non si preoccupi affatto 
                          dei loro reali interessi.  
                          Questo rilievo preliminare, 
                          di grande importanza, non esclude, evidentemente, che 
                          ci si confronti sul merito della questione dell’aborto. 
                          Il punto cruciale su cui Chiara Lalli insiste  
                          è la separazione della persona – l’unico soggetto a 
                          cui per comune consenso si deve una tutela giuridica 
                          – dall’essere umano in quanto appartenente alla specie 
                          biologica homo sapiens. È l’argomento centrale 
                          – ma sarebbe più preciso dire: l’unico – di tutte le 
                          difese dell’interruzione volontaria della gravidanza. 
                          Solo così, infatti, si può sostenere che essa riguarda 
                          solo la madre e nessun altro. Per questo invocare la 
                          libertà della donna – come spesso si fa – per legittimare 
                          l’aborto, senza aver prima dimostrato che l’embrione 
                          non è una persona e che quindi il suo gesto non danneggia 
                          nessun altro soggetto, è futile, come lo sarebbe difendere 
                          la libertà del capitalista di sfruttare i propri operai. 
                          Solo se non ci sono altre persone in gioco la libertà 
                          del singolo può essere invocata per giustificare incondizionatamente 
                          i suoi comportamenti dal punto di vista giuridico.   
                          Merito di Lalli è aver 
                          capito lucidamente questo punto e di concentrarsi, conseguentemente, 
                          sulla dimostrazione che l’embrione, pur appartenendo 
                          alla specie homo sapiens, non è una persona. 
                          Il criterio per valutare l’esistenza di quest’ultima 
                          sarebbe infatti, secondo l’A., la presenza o meno di 
                          una «seppur minima capacità mentale (coscienza e autocoscienza)». 
                          Solo che anche lei, come tanti bioeticisti “laici”, 
                          sembra non rendersi conto della posta in gioco. La separazione 
                          tra essere umano e persona non è cosa da poco. Lo sappiamo 
                          bene, perché non si tratta di una novità. La storia 
                          umana è costellata di tentativi di questo genere: sono 
                          stati considerati esseri umani, in senso biologico, 
                          ma non persone (e quindi degni di tutela giuridica) 
                          gli schiavi, gli indigeni, i neri, gli ebrei, le donne. 
                          L’argomentazione logica è sempre stata la stessa che 
                          oggi viene utilizzata per negare il carattere personale 
                          dell’embrione: non basta una realtà biologica indiscutibilmente 
                          umana per essere persone, perché per questo è indispensabile 
                          un carattere x, stabilito a tavolino da qualcuno che 
                          evidentemente ritiene di averlo e che lo pone come condizione 
                          perché si sia al suo livello: la libertà, alcuni requisiti 
                          di civiltà, un certo colore della pelle, etc.  
                          Lalli, per dimostrare 
                          la legittimità di questa distinzione, porta come argomento 
                          una prassi – il prelievo di organi da un individuo in 
                          stato di morte cerebrale – che in realtà non implica 
                          ciò che lei afferma. Posto che il  problema del 
                          momento della morte rimane complesso (e non è questa 
                          la sede per affrontarlo), si prelevano gli organi da 
                          un soggetto perché ormai – pur rimanendo funzionali 
                          quei singoli organi – lo si ritiene morto sia come uomo 
                          che come persona.  Lalli sembra voler dire che, 
                          essendo venuta meno l’attività mentale, non c’è più 
                          la persona, anche se rimane l’identità del soggetto 
                          biologico. Ma la prassi a cui ella allude non parte 
                          affatto da questo presupposto (quella che lei chiama 
                          «premessa fondamentale»). Tanto è vero che  nessuno 
                          pensa di prelevare gli organi da individui  privi 
                          di coscienza, come i malati di Alzheimer o uomini e 
                          donne affetti di altre gravi turbe che ne bloccano l’attività 
                          mentale.  
                          Si potrà obiettare 
                          che la capacità mentale è veramente un requisito essenziale 
                          per distinguere l’essere umano da altre specie. Non 
                          diceva Aristotele che l’uomo è un «animale razionale»? 
                          Verissimo. Si tratta però di chiarire in che cosa consista 
                          la suddetta «capacità mentale». Lalli la esclude nell’embrione 
                          perché questi non ha ancora un sistema nervoso che gli 
                          consenta di esercitarla. Basta però risalire al Dna 
                          – al progetto genetico – dell’embrione stesso per rendersi 
                          conto che esso implica sia il sistema nervoso che la 
                          conseguente facoltà di pensare e di essere cosciente. 
                          Il problema è di stabilire, allora, se davvero per affermare 
                          che un essere ha una capacità mentale – e dunque, secondo 
                          la definizione della Lalli, si possa considerare “persona” 
                          – si debba puntare sul suo esercizio effettivo oppure 
                          sia sufficiente che essa sia presente in potenza. In 
                          realtà tutti i bioeticisti laici – da Tooley a Singer 
                          a Engelhardt a Harris – sostengono fermamente che soltanto 
                          nel primo caso si può parlare di persona e squalificano 
                          la seconda ipotesi riducendola al rango di mera “possibilità”.  
                          Su questo punto Lalli 
                          li segue pedissequamente, cadendo negli stessi equivoci. 
                          Primo equivoco: l’A. crede (come i bioeticisti sopra 
                          citati) che chi invoca l’argomento della potenzialità 
                          sostenga che «l’embrione è potenzialmente una persona, 
                          quindi l’embrione è una persona». In realtà chi afferma 
                          l’illegittimità morale e giuridica dell’aborto sostiene 
                          che l’embrione è una persona in atto (non in potenza) 
                          perché possiede in potenza, nel suo corredo genetico 
                          di essere umano, tutti i requisiti che lo rendono persona, 
                          compresa la coscienza.    
                          Secondo equivoco: Lalli 
                          crede (come i bioeticisti sopra citati) che la potenzialità 
                          coincida con la possibilità e che, di conseguenza, sia 
                          assurdo farla coincidere con l’effettivo possesso di 
                          ciò che, per definizione, è solo possibile. In realtà 
                          la potenzialità è qualcosa di molto diverso – già secondo 
                          Aristotele – dalla pura e semplice possibilità. Quest’ultima, 
                          infatti, comporta  soltanto che qualcosa non sia 
                          assurdo.  Una cassetta vuota “può” contenere una 
                          rara esecuzione della settima sinfonia di Beethoven 
                          diretta da Claudio Abbado. Resta il fatto che non la 
                          contiene ancora e che distruggendo la cassetta non si 
                          cancella questa rara esecuzione. Un giovane che non 
                          ha mai studiato l’inglese “può”, in linea di principio, 
                          parlare in questa lingua, ma prima dovrebbe apprenderla 
                          e, a chi gli chiedesse in un colloquio di lavoro, se 
                          la parla, dovrebbe onestamente rispondere di no. La 
                          potenzialità, invece, comporta che qualcosa sia già 
                          effettivamente presente, anche se ancora non in forma 
                          compiuta e manifesta. Se la cassetta contiene l’esecuzione 
                          della settima sinfonia, quest’ultima, anche se si trova 
                          presente in potenza, perché non risuona effettivamente, 
                          è già realmente in essa. E chi conosce bene l’inglese 
                          può rispondere tranquillamente “sì” a chi glielo chiede, 
                          senza tema di essere smentito immediatamente (“ma lei 
                          mi ha risposto in italiano!”) perché, in potenza, lo 
                          parla. Così come non è assurdo dire di un uomo che dorme 
                          che parla dodici lingue, anche se in quel momento sta 
                          solo russando.  
                          Quando dunque si dice 
                          che l’embrione è una persona si vuole dire che lo è 
                          già (non in potenza, ma in atto), perché, in quanto 
                          essere umano, possiede un corredo genetico che ha in 
                          potenza, insieme al sesso, al colore degli occhi e dei 
                          capelli, alle funzioni digestive, anche la capacità 
                          mentale che fa di lui un “animale razionale”. L’essere 
                          persona, per l’embrione, non è, come dice Lalli, una 
                          «futura proprietà», ma una proprietà attuale, anche 
                          se sono future – ma già realmente presenti in potenza 
                          – le manifestazioni in cui questo essere persona si 
                          concretizzerà e si manifesterà.    
                          L’esempio di John Harris 
                          – il fatto che siamo potenzialmente morti non autorizza 
                          a trattarci già adesso come morti – è solo un frutto 
                          dell’equivoco che abbiamo evidenziato: l’embrione non 
                          va trattato come persona perché lo è potenzialmente, 
                          ma perché lo è già in atto. Ciò che è in potenza sono 
                          una serie di caratteri, racchiusi fin da ora nel suo 
                          Dna, che sono fin da ora ben determinati (a differenza 
                          della possibilità, che è indeterminata), e che è solo 
                          questione di tempo perché  si attuino. Sono fiducioso 
                          che Lalli si renda conto che la «crepa argomentativa» 
                          non è nel ragionamento dei critici dell’aborto!  
                          Quanto all’argomento 
                          del violinista, francamente mi sembra che le differenze 
                          siano tante da rendere impraticabile il paragone. Basti 
                          pensare al fatto che nel caso dell’embrione esso è stato 
                          posto in vita dai genitori, e quindi anche dalla madre, 
                          che se ne è assunta in qualche modo la responsabilità.  
                          La stessa differenza vale in pieno per l’esempio che 
                          tira in ballo Henry Fonda. In entrambi i casi, si prescinde 
                          dal fatto che – mentre nessuno può dirsi responsabile, 
                          neppure in senso meramente oggettivo, del suo trovarsi 
                          collegato a un violinista moribondo o del bisogno che 
                          qualcuno possa avere del tocco della nostra fredda mano 
                          -  nel caso della generazione di altri esseri umani 
                          vi è un concorso, almeno oggettivo, dei genitori (non 
                          solo della madre!). Senza dire che, anche al di là di 
                          questa decisiva considerazione, questi argomenti delineano 
                          un modello di comunità umana totalmente individualista, 
                          in cui nessuno risponde a nessuno delle sue scelte, 
                          su cui sono convinto che anche Lalli potrebbe avere 
                          delle forti riserve.  
                          Quanto, infine, allo 
                          scenario paradossale in cui la donna debba rispondere 
                          di omicidio per delle normali attività che hanno messo 
                          oggettivamente in pericolo la vita dell’embrione, si 
                          può semplicemente osservare, seguendo il buon senso, 
                          che neppure la madre che, in un incidente d’auto, causi 
                          indirettamente la morte del figlioletto già nato viene 
                          trattata come una infanticida (e questo non nasce dal 
                          fatto che il figlioletto già nato non è una persona). 
                           
                      Sono risposte che 
                      nascono, “a caldo” dalla lettura dell’articolo di Chiara 
                      Lalli. Non sono sicuro di averla convinta delle mie tesi. 
                      Ma ho la speranza, fondata sulla stima che ho nei suoi 
                      confronti, di averla aiutata a mettere meglio a fuoco le 
                      sue in un cammino di ricerca che credo ci accomuni. 
                        
                         
                          * 
                          Docente di Storia e Filosofia nei Licei statali, già 
                          componente del Comitato Nazionale di Bioetica |  |