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SAN TOMMASO D'AQUINO

 

SULLA LEGGE

 

SOMMA TEOLOGICA

PRIMA SECUNDAE (I-II)

(Trad. Giuseppina D'Addelfio)

QUAESTIO 105

Sulla natura dei precetti giudiziali

ARTICOLO 2

 

Furono dati in maniera appropriata i precetti giudiziali riguardo ai rapporti sociali del popolo?

 

 

Circa il secondo punto procediamo così. Sembra che non in modo appropriato siano stati dati precetti giudiziali relativi ai rapporti sociali del popolo. Infatti gli uomini non possono convivere pacificamente, se uno prende le cose che sono di un altro. Ma questo sembra indotto proprio dalla legge; dice infatti il Deuteronomio: «Se entri nella vigna del tuo prossimo, potrai mangiare quanta uva ti piacerà» (23, 24). Dunque la legge antica non provvedeva in maniera appropriata alla pace tra gli uomini.

 

2. Inoltre, molte città e molti regni venivano distrutte a causa del fatto che i possessi finivano nelle mani delle donne, come dice Aristotele nella Politica (2, 6). Ma proprio questo fu introdotto nella legge antica; dice infatti la Scrittura: «Quando uno sarà morto senza lasciare un figlio maschio, farete passare la sua eredità alla figlia» (Num. 27, 8). Dunque la legge non provvide in maniera appropriata alla pace tra gli uomini.

 

3. Inoltre, la società umana si conserva soprattutto per il fatto che gli uomini con il comprare e con il vendere scambiano le cose di cui hanno bisogno, come dice Aristotele (Pol. 1, 3). Ma la legge antica tolse la capacità di vendere, poiché, come emerge dal libro del Levitico (25), ordinò che il possesso venduto tornasse al venditore al cinquantesimo anno, che era l'anno del giubileo. In maniera non appropriata dunque la legge rispetto a ciò ordinò il popolo.

 

4. Inoltre, nelle necessità degli uomini e soprattutto di giovamento che gli uomini siano pronti a dare in prestito reciprocamente. Proprio questa prontezza viene compromessa dal fatto che i creditori non rendono le cose prestate, secondo quello che si dice nel Libro del Siracide (29, 10): «molti non danno in prestito, non per malvagità, ma perché temono di essere». defraudati gratuitamente La legge favoriva proprio questo. Primo, perché così comandava il Deuteronomio (15, 2): «ogni persona a cui qualcosa è dovuto non lo esigerà dall'amico, dal suo prossimo, dal fratello, poiché si sarà proclamato l'anno di remissione per il Signore»; e anche nell'Esodo (22, 15) si dice che se un animale preso in prestito dovesse morire alla presenza del padrone, non si è tenuti a restituirlo. secondo, perché toglieva ogni sicurezza al prestito; si dice infatti nel Deuteronomio (24, 10): «quando presterai qualsiasi cosa al tuo prossimo, non entrerai in casa sua per prendere il suo pegno»; e ancora (24, 12): «non andrai a dormire con il suo pegno, ma subito glielo restituirai». Dunque nella legge furono date disposizioni sui prestiti in maniera non adeguata.

 

5. Inoltre, dalla frode concernente il deposito deriva un pericolo grandissimo, perciò si deve usare la massima cautela; infatti anche nel Secondo Libro dei Maccabei (3, 15) si dice: «i sacerdoti elevavano suppliche al cielo che aveva sancito la legge dei depositi, perché fossero conservati integri a coloro che li avevano consegnati». Ma, nei precetti della legge antica, si usa poca cautela rispetto al deposito; infatti, nell’Esodo (22, 10 e ss), si dice che, se si perde il deposito, si deve stare al giuramento di colui che lo custodiva. Dunque l'ordine dato della legge non fu a questo riguardo conveniente.

 

6. Inoltre, come un qualsiasi mercenario dà in affitto la sua opera, così anche altri danno in affitto la propria casa o altre cose di tal genere. Ma, non è necessario che subito il prezzo dell'affitto di una casa sia subito pagato dall'affittuario. Quindi era anche troppo duro ciò che ordinava il libro del Levitico (19, 13): «Non tratterrai presso di te sino all'indomani la paga del tuo operaio».

 

7. Inoltre, poiché è frequente la necessità di ricorrere al tribunale, deve essere facile l'accesso al giudice. In maniera non appropriata dunque fu stabilito dalla legge che si andasse in un unico luogo per le controversie (Deut. 17, 8).

 

8. Inoltre, è possibile che si accordino terra mentire non solo due, ma anche tre o più uomini. In maniera non appropriata dunque si dice nel Deuteronomio (19, 15 e ss) che «il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni».

 

9. Inoltre, la pena dev'essere stabilita secondo la gravità della colpa; si dice infatti nel Deuteronomio (25, 2): «proporzionata alla gravità della sua colpa, sarà la misura della pena». La legge invece stabiliva per i differenti per colpe uguali; infatti si dice nell’Esodo (22, 1) che il ladro renderà «cinque bovi per un bove e quattro pecore per una pecora». Inoltre la legge puniva peccati non molto gravi con pene gravi: ad esempio fu lapidato uno che raccoglieva la legna nel giorno di sabato (Num. 15, 32 e ss.). E si comanda anche di lapidare il figlio ribelle per piccoli delitti, cioè perchè «si dedica a bagordi e conviti» (Deut. 21, 18 ). Dunque nella legge le punizioni non sono adeguatamente istituite.

 

10. Inoltre, come dice Agostino, «Cicerone scrisse che otto sono i generi di pena nelle leggi: multa, carcere, fustigazione, legge del taglione, infamia, esilio, morte e schiavitù» (De Civitate Dei 21, 11). Di questi alcuni sono stabiliti dalla legge: ad esempio, la multa, quando il ladro viene condannato restituire il quintuplo o il quadruplo; il carcere, come quando del Libro dei Numeri (15, 34), si comanda di incarcerare qualcuno; la fustigazione, come nel passo del Deuteronomio in cui si dice (25, 2): « Se il colpevole avrà meritato di essere fustigato, il giudice lo farà stendere per terra e fustigare in sua presenza». L'infamia poi veniva inflitta a colui che non voleva prendere in moglie la vedova di suo fratello, la quale gli prendeva uno dei calzari e gli sputava in faccia [Deut. 25, 9]. Anche la pena di morte veniva inflitta, come si evince dal Levitico (20, 9): «Chiunque maledirà suo padre o sua madre, sia messo a morte». Così la legge sostenne pure la pena del taglione, dicendo: «Occhio per occhio dente per dente» (Es. 21, 24). In maniera non appropriata dunque sembra che la legge antica non inflisse le altre due pene, cioè l'esilio e la servitù.

 

11. Inoltre, la pena non è dovuta se non per una colpa. Ma le bestie non possono mai aver una colpa. Quindi in maniera non appropriata è inflitta loro una pena, secondo quello che si dice nell'Esodo (21, 28): «Quando un bue uccide un uomo o una donna, sarà lapidato» e nel Levitico (20, 16): «La donna che si sia accoppiata con una bestia, sia uccisa insieme ad essa». Così dunque sembra che in maniera non appropriata quelle cose che riguardano il vivere insieme degli uomini tra loro siano state regolate dalla legge antica.

 

12. Inoltre, il Signore comandò che l'omicidio fosse punito con la morte di un uomo [Es. 21, 12]. Ma la morte di una bestia considerata molto inferiore all'uccisione di un uomo. Dunque l'uccisione di una bestia non può sostituire adeguatamente la pena per un omicidio. In maniera inappropriata dunque si comanda nella Scrittura, «quando si trovi il cadavere di un uomo ucciso e non si conosca il colpevole dell'uccisione, gli anziani della città più vicina prenderanno dall'armento una vitellina che non abbia mai portato il giogo né abbia mai arato la terra, la condurranno in una valle aspra e sassosa che non è stata mai arata e non ha mai ricevuto sementi, e là le spezzeranno la nuca» (Deut. 21).

 

Ma di contro vi è il fatto che nel Salmo 147, Dio viene lodato per uno speciale beneficio (20): «Così non ha fatto con nessun altro popolo, non ha manifestato ad altri i suoi giudizi».

 

Rispondo dicendo che, come dice Agostino, riferendo un detto di Cicerone «un popolo è l'unione di una moltitudine associata dall'accettazione di un medesimo diritto e dall'utilità dei rapporti reciproci» (De Civitate Dei 2, 21).  Di conseguenza la stessa nozione di popolo implica che i rapporti degli uomini tra loro siano ordinati dal giusto precetto della legge. Ora, gli uomini hanno tra loro due i tipi di rapporti: il primo che è costituito dall'autorità dei principi; il secondo invece che è costituito dalla volontà delle persone private. E poiché ciascuno può disporre con la propria volontà soltanto di quanto ricade sotto il proprio potere, allora è necessario che la decisione delle cause civili e il tipo di pene da infliggere ai malfattori, siano riservate all'autorità dei principi, sotto il cui potere questi uomini sono. Le persone private hanno invece il potere soltanto sulle cose che possiedono: perciò possono di propria volontà scambiarsi le cose che possiedono, cioè comprando, vendendo, donando e facendo altre cose del genere.

Sia gli uni sia gli altri rapporti furono determinati adeguatamente dalla legge. Essa stabilì infatti dei giudici, come emerge dal Deuteronomio (16, 18): «Costituirai giudici e magistrati in tutte le città affinché giudichino il popolo con giusto giudizio». La legge istituì anche il giusto svolgimento del giudizio, come dice il Deuteronomio (1, 16 e ss.): «giudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con lo straniero. Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali». La legge tolse poi l'occasione al giudizio ingiusto, proibendo ai giudici di accettare regali, come emerge dall'Esodo (23, 8) e dal Deuteronomio (16, 19). Stabilì anche il numero di due o tre testimoni, come emerge dal Deuteronomio (17, 6 e 19, 15). E istituì anche certe pene per i diversi delitti, come sarà detto in seguito.

Circa i beni posseduti, è però cosa ottima, come dice Aristotele nella Politica (2, 2), che i possessi siano distinti e l'uso dei beni in parte sia comune e in parte venga messo in comune per volontà dei proprietari. Così, nella legge furono stabilite queste tre cose. In primo luogo, i possessi furono divisi tra le singole persone; dice infatti la Scrittura: «Io vi ho dato la terra in proprietà. La dividerete a sorte tra voi» (Num. 33, 53 e ss.). E poiché a causa delle irregolarità nei possessi molti stati sono distrutti, come dice Aristotele (Pol. 2, 6), la legge stabiliva tre rimedi R. regolare i possessi. Il primo fu quello di dividerli ugualmente secondo il numero degli uomini; si dice infatti nel Libro del Numeri (33,54): «Ai più numerosi date una porzione più grande, ai meno numerosi una porzione più piccola». Un altro rimedio fu quello di imporre che i possessi non fossero alienati in eterno, ma che è dopo un certo tempo tornassero i loro padroni, terre non confondere la distinzione di possessi assegnati. Il terzo rimedio, finalizzato a togliere tale confusione, era quello di fare in modo che ai morti succedessero i parenti: in primo grado il figlio, poi la figlia, in terzo luogo i fratelli, poi gli zii, e alla fine gli altri parenti [Num. 28, 8 e ss.]. E per conservare la distinzione delle assegnazioni fatte, la legge stabilì ulteriormente che le donne che gli ereditavano, sposassero uomini della loro tribù [Num. 36].

In secondo luogo, la legge stabilì che in certi casi l'uso dei beni fosse comune. E ciò innanzi tutto riguardo alla cura di essi; vi è infatti il precetto: «Se vedi smarrito un bue o una pecora di un tuo fratello, non farai finta di niente, ma li ricondurrai a tuo fratello» (Deut. 22 1-4); e così altri simili. – Poi, riguardo al loro sfruttamento. Infatti era permesso a tutti, entrando nella vigna dell'amico, di mangiare, purché non si portasse niente fuori. Il riferimento ai poveri in particolare, erano lasciati i loro i manipoli dimenticati, i frutti e i grappoli abbandonati, come si dice nel Levitico (19, 9) e nel Deuteronomio (24, 19 e ss.). Erano anche messe in comune le cose che nascevano dalla terra il settimo anno, come si dice nell’Esodo (23, 11) e nel Levitico (25, 4).

In terzo luogo, la legge codificò la condivisione dei beni che veniva fatta da coloro che erano padroni delle cose. Una era puramente gratuita; si dice infatti nel Deuteronomio (14, 28 e ss.): «alla fine di ogni triennio metterai da parte un'altra decima, e verrà il levita, lo straniero, l'orfano e la vedova, e ne mangeranno e si sazieranno». Un’latra invece comportava una ricompensa di utilità: così avveniva nelle compravendite, nella locazione e nell'affitto, nei prestiti, nei depositi, tutte cose su cui si possono trovare disposizioni precise nella legge. Di conseguenza è evidente che la legge antica ordinò in maniera sufficiente lo stare insieme di quel popolo.

 

Risposta al primo argomento: come dice Paolo nella Lettera ai Romani (8, 3): «Chi ama il prossimo, ma ha adempiuto la legge», dal momento che tutti i precetti della legge, e in maniera particolare quelli che sono ordinati al prossimo, sembrano essere finalizzati proprio a questo: che gli uomini si animino reciprocamente. Ora, dall'amore deriva che gli uomini mettano reciprocamente in comune i loro beni, poiché come dice la Prima Lettera di Giovanni (3, 17): «Chi vedrà suo fratello partire necessità, e gli chiuderà il proprio cuore, in che modo la carità di Dio rimarrà in lui?». E perciò la legge tendeva ad abituare gli uomini a mettere in comune con facilità le proprie cose: così anche Paolo nella Prima Lettera a Timoteo (16, 18), comanda ai ricchi di «dare con facilità e mettere in comune». Ora, non è facile condividere per chi non sopporta che il prossimo prenda qualche cosa del suo, senza fare un grave danno. Perciò la legge ordinò che fosse lecito, a chi entrava nella vigna del prossimo, mangiare il frutto dei grappoli; non permetterò però di portarne fuori, per non dare occasione di arrecare un danno grave, dal quale la pace sarebbe stata turbata. E questa pace tra persone ben regolate e disciplinate, non viene turbata per queste piccole sottrazioni, che anzi consolidano soprattutto l'amicizia e abituano gli uomini a condividere con facilità.

 

Risposta al secondo argomento: la legge non stabilì che le donne ereditassero i beni paterni, se non in mancanza di figli maschi. In tal caso era però necessario che si concedesse l'eredità alle donne per soddisfazione del padre, per il quale sarebbe stato doloroso lasciare la propria eredità a persone totalmente estranee. Tuttavia in questo la legge utilizzò la debita cautela, comandando che le donne che prendevano in eredità i beni paterni, sposassero uomini della propria tribù, per impedire che i possedimenti assegnati delle diverse tribù si confondessero tra loro, come emerge dall'ultimo libro dei Numeri.

 

Risposta al terzo argomento: come dice Aristotele nella Politica (2, 4), il regolamento dei possessi giova molto alla conservazione di uno stato o di un popolo. Di conseguenza, come egli stesso dice, presso certe città pagane fu stabilito «che nessuno potesse vendere il suo possesso, se non per un danno manifesto». Se infatti i possessi vengono continuamente venduti, può capitare che tutti i possessi si concentrino nelle mani di pochi e così in sarà necessario che la città, o la regione, sia abbandonata dai suoi abitanti. Ecco perché la legge antica, al fine di rimuovere un tale pericolo, concesse la vendita temporanea dei possessi; e ciò anche per far fronte alla necessità degli uomini. Ordinò però che, dopo un certo tempo, il possesso tornasse al venditore. Questo sistema fu istituito per non confondere i possessi assegnati, rimanendo sempre la stessa distinzione determinata nelle tribù.

Siccome, però, le case di città non erano state assegnate a sorte, la legge concesse che si potessero vendere per sempre, e così anche i beni mobili. Non era infatti stabilito il numero delle case di città, così come era invece certa la misura del possedimento, al quale non bisognava fare aggiunte; poteva invece aumentare il numero delle case di città. D'altra parte, le case che non erano all'interno della città, ma nei campi privi di mura di cinta, non potevano essere venduti in perpetuo, poiché queste case sono costruite solo per coltivare e per custodire i possessi; perciò correttamente la legge le sottopose alla stessa norma riguardante questi ultimi.

 

Risposta al quarto argomento: come è stato appena detto, l'intenzione della legge era quella di abituare con i suoi precetti gli uomini a venire incontro facilmente alle necessità gli uni degli altri, poiché è questo soprattutto alimenta l'amicizia. E proprio questa prontezza nel venire incontro agli altri non solo fu stabilita nelle elargizioni gratuite e definitive, e ma anche nei prestiti: poiché tale aiuto è più frequente è spesso più necessario. La legge istituì allora questa prontezza nel venire in aiuto in più modi. Primo, ordinando di dare in prestito con facilità e di non ritirarsi con l'avvicinarsi dell'anno della remissione, come si dice nel Deuteronomio (15, 7 e ss). – Secondo, ordinando di non gravare colui al quale è stato concesso il prestito o con l'usura o anche prendendo in pegno qualcosa di assolutamente necessario alla vita; e, se si prendevano queste cose, ordinando che si restituissero subito. Dice infatti il Deuteronomio (23, 19): «Non farai al tuo fratello prestiti ad usura»; e ancora (24, 6): «Non prenderai in pegno né le pietre inferiore della macina domestica né la pietra superiore, perché sarebbe come se il creditore mettesse nelle tue mani la sua vita». Inoltre dice l’Esodo (22, 26): «se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole». – Terzo, la legge stabilì che non si esigesse dal creditore in modo inopportuno. Di conseguenza si dice nell’Esodo (22, 25): «Se avrai il prestato del denaro a qualche povero del mio popolo, a qualcuno che abita con te, non sarai con lui pressante come un esattore». E per questo si comanda inoltre nel Deuteronomio (24, 10 e ss): «Quando presterai qualsiasi cosa al tuo prossimo, non entrerai in casa sua per prendere il suo pegno; ma starai fuori e egli stesso ti porterà fuori il pegno»: questo, sia perché la casa e per ciascuno il rifugio più sicuro, quindi è spiacevole per l'uomo essere invaso nella sua casa, sia anche perché la legge non concedeva il creditore di prendere il pegno che voleva, ma piuttosto concedeva al creditore di dare ciò di cui meno aveva bisogno. – Quarto, la legge stabilì che nel settimo anno i debiti venissero del tutto condonati [Deut. 15, 1-4]. Era infatti probabile che quanti potevano restituire, lo facessero prima del settimo anno e non defraudassero senza motivo il creditore. Se invece era per loro del tutto impossibile restituire, per la stessa ragione bisognava loro condonare il debito per amore fraterno, in base al quale anche sarebbe stato un necessario concederlo nuovamente data la loro indigenza. – Riguardo agli animali prestati la legge stabiliva che, se morivano, o si indebolivano in assenza di chi aveva prestati, chi li aveva presi in prestito doveva restituirli, a causa della sua negligenza. Se invece, essendo il padrone presente, morivano o si indebolivano, non c’era il dovere di restituirli, ancor di più se erano stati prestati a pagamento [Es. 22, 14 e ss.]; allo stesso modo infatti avrebbero potuto morire o debilitarsi presso il padrone e, così, il prestito non sarebbe stato gratuito, ma avrebbe portato un guadagno. E questa norma andava osservata soprattutto quando gli animali erano presi in prestito dietro pagamento, poiché allora il padrone riceva già un certo compenso per l’animale e, di conseguenza, non poteva accrescerlo attraverso la restituzione degli animali, se non a causa della negligenza di chi avrebbe dovuto custodirlo. Se invece gli animali non erano stati prestati a pagamento, poteva essere equo che si restituisse l’equivalente dell’uso dell’animale morto o indebolito.

 

Risposta al quinto argomento: la differenza che intercorre tra il prestito e il deposito consiste in questo: la cosa prestata viene consegnata per l'utilità di colui al quale è prestata; la cosa depositata, invece, per l'utilità di chi la consegna. Perciò in certi casi una persona era maggiormente tenuta a restituire il debito, che a restituire il deposito. Il deposito infatti si poteva perdere in due modi. In un modo, per una causa inevitabile: ad esempio per una causa naturale, come il caso in cui l'animale depositato moriva o si indeboliva, o per una causa esterna, come il caso in cui l'animale veniva preso dai nemici o divorato da una belva. In quest’ultimo caso il depositario era tenuto a portare al padrone i resti dell’animale ucciso; negli altri casi sopra menzionati, non c’era l’obbligo di restituire nulla, ma per togliere ogni sospetto di frode, occorreva solo prestare giuramento. – Il secondo modo in cui si poteva perdere il deposito era per causa evitabile: ad esempio, per un furto. Pertanto, a causa della negligenza del custode, c’era l’obbligo di restituire. Ma, come è stato detto prima, colui che aveva preso in prestito un animale, era tenuto a restituirlo anche  se era morto o si era indebolito, in assenza del padrone. A quest’ultimo infatti veniva attribuita una negligenza minore che al depositario, al quale si faceva carico solo del furto.

 

Risposta al sesto argomento: gli operai che prestano la loro opera sono poveri che con il loro lavoro cercano il vitto quotidiano; perciò, la legge comandò giustamente che si pagasse subito la loro mercede, perchè non mancassero del vitto. Ma quelli che prestano in affitto altre cose, in genere, sono ricchi e quindi non hanno bisogno del prezzo del fitto per il fabbisogno quotidiano. Perciò i due casi sono di natura diversa.

 

Risposta al settimo argomento: i giudici vengono costituiti dagli uomini per dirimere ciò che può essere ambiguo in materia di giustizia. Ora, una cosa può essere ambigua in due modi. In un modo, presso le persone semplici; in questo caso, per eliminare il dubbio, si comanda nel Deuteronomio (16, 18): «Costituirai giudici e magistrati in tutte le città affinché giudichino il popolo con giusto giudizio». – In un altro modo, può accadere che qualcosa sia dubbio anche presso gli esperti; in questo caso, terre togliere il dubbio, la legge stabilì che tutti si recassero nel luogo più importante scelto da Dio, in cui vi era sia il sommo sacerdote, per dirimere le controversie relative alle cerimonie del culto divino, sia il sommo giudice del popolo, per determinare quanto riguardava i giudizi tra gli uomini: in questo modo anche oggi le cause sono portate dai giudici inferiori a quelli superiori mediante l'appello, oppure per un consulto. Si dice infatti nelle Deuteronomio (17, 8 e ss.): «Quando in una causa ti sarà troppo difficile decidere e vedrai parole diverse dai giudici entro le porte della tua città, salirai al luogo che il Signore avrà scelto e andrai e i sacerdoti della stirpe levitica e al giudice che sarà allora in carica». Ora, tali di giudizi ambigui non capitavano di frequente. Di conseguenza il popolo non era gravato per questo.

 

Risposta all’ottavo argomento: negli affari umani, non si può avere una prova dimostrativa e infallibile, mai sufficiente una qualche prova congetturale, come accade per la persuasione operata dagli oratori. Perciò, sebbene sia possibile che due o tre testimoni si accordino per mentire, tuttavia non è una cosa facile o probabile; ecco perché la loro testimonianza si prende per vera, specialmente poi se nel testimoniare non vacillano, o non destano altri sospetti. Affinché poi i testimoni non si allontanassero facilmente dalla verità, la legge stabilì che si esaminassero con grande diligenza e che fossero puniti gravemente quelli che venivano riconosciuti come bugiardi [Deut. 19, 16 e ss.].

Tuttavia ci fu una ragione figurativa nella determinazione di codesto numero: esso sta a indicare l'infallibile verità delle Persone divine, che talvolta sono ricordate come due sole – perché lo Spirito Santo è il nesso tra le due – e talaltra sono espresse tutte e tre, secondo il commento che Agostino fa al passo del Vangelo di Giovanni (8, 17): «Nella vostra legge è scritto che la testimonianza di due uomini e verace».

 

Risposta al nono argomento: non solo per la gravità della colpa, ma anche per altri gravi motivi, viene inflitta una pena. Primo, per la grandezza del peccato: a un delitto maggiore, essendo pari tutto il resto, è dovuta una pena più grave. Secondo, per l'abitudine di peccare: dai peccati consueti gli uomini non si staccano facilmente senza gravi pene. Terzo, per l'intensità della concupiscenza o del piacere nel peccare: da questi peccati gli uomini non si distaccano senza gravi pene. Quarto, per la facilità nel commettere peccato e del nasconderlo: tali peccati, quando si scoprono, sono maggiormente da punire, per incutere paura negli altri.

Rispetto poi alla grandezza stessa del peccato si possono distinguere quattro gradi, ma anche in uno stesso è identico fatto. Di questi gradi, il primo si ha quando uno commette il peccato involontariamente. Se esso è stato del tutto involontario, chi lo commette totalmente assolto dalla pena; come dice il Deuteronomio (22, 25 e ss.), la fanciulla che viene violentata in un campo, «non è rea di morte, poiché gridò e nessuno venne a liberarla». Se invece il peccato è stato in qualche modo volontario, ma tuttavia è compiuto per debolezza – ad esempio, quando qualcuno pecca per passione –, si tratta di un peccato minore; e anche la pena, per la rettitudine del giudizio, deve diminuire, a meno che non venga gravata per il bene comune, cioè terra allontanare gli uomini da simili peccati, come è stato detto prima. – Il secondo grado del peccato si ha quando uno pecca per ignoranza. E allora non veniva considerato colpevole, per la negligenza nell'apprendere; tuttavia non veniva punito dai giudici, ma doveva espiare il suo peccato con dei sacrifici. Si dice infatti nel Levitico (4, 2 e ss): «L'anima che avrà peccato per ignoranza...». Ma questo va inteso in riferimento all'ignoranza del fatto, non invece all'ignoranza del precetto divino, che tutti invece erano tenuti a conoscere. – Il terzo grado del peccato si ha quando qualcuno pecca per superbia, cioè con una certa deliberazione e con una certa malizia. E allora costui veniva punito secondo la gravità del delitto. – Il quarto grado invece si ha quando si peccava per insolenza e pertinacia. E allora il peccatore doveva essere addirittura ucciso, come ribelle e distruttore dell'ordine della legge.

In base a questo, si deve dire che nella pena per il furto si considerava nella legge quello che accade nella maggioranza dei casi. Quindi per il furto di quelle cose che facilmente possono essere custodite dai ladri, chi rubava doveva restituire il doppio. Le pecore invece non si possono facilmente custodire dal furto, perchè pascolano nei campi e, quindi, capitava più spesso che venissero rubate. Di conseguenza, per questo furto, la legge stabilì una pena più severa: per una pecora rubata se ne dovevano restituire quattro. I buoi poi erano più difficili da custodire, poiché si trovano nei campi e non pascolano in branco come le pecore. Perciò, per il furto dei buoi, la legge stabilì una pena ancora maggiore: per un bue rubato se ne dovevano restituire cinque. E questo avveniva a meno che l’animale rubato non fosse stato ritrovato vivo presso il ladro, poiché allora costui doveva restituire solo il doppio, come negli altri furti; si poteva infatti presumere che avesse pensato di restituirlo, in base al fatto che lo conservava vivo. Oppure si può dire, con le parole della Glossa che «il bue ha cinque utilizzi: viene immolato, ara, nutre con le sue carni, dà il latte e offre il cuoio per molti usi»: ecco perchè per un bue se ne restituivano cinque. La pecora invece ha quattro utilizzi: «viene immolata, nutre, dà il latte e offre la lana». – Il figlio ribelle, invece, veniva ucciso non perchè mangiava e beveva, ma a causa dell’ostinazione e della ribellione che veniva punita sempre con la morte come è stato detto. – Quell’uomo poi che raccoglieva la legna nel giorno di sabato fu lapidato come violatore della legge, che comandava di rispettare il sabato in ricordo della fede nella creazione del mondo, come è stato detto sopra. [Q. 100, a. 5]. Pertanto costui fu ucciso come colpevole di infedeltà.

 

Risposta al decimo argomento: la legge antica inflisse la pena di morte per i crimini più gravi: per i peccati contro Dio, per l’omicidio, per il rapimento, per le offese verso i genitori, per l’adulterio e per l’incesto. Invece per il furto della roba altrui usò la pena della multa. Per i ferimenti e le mutilazioni inflisse la pena del taglione; e così pure per il peccato di falsa testimonianza. Per le altre colpe minori stabilì la pena della flagellazione o dell’ignominia.

La legge antica stabilì la pena della schiavitù in due casi. Primo, quando nel settimo anno, anno della remissione, uno schiavo non voleva usufruire del beneficio della legge per diventare libero. Allora come pena gli veniva imposto di rimanere schiavo per sempre. Secondo, veniva inflitta al ladro quando non aveva nulla che poteva restituire [Es. 22, 3].

La legge non stabilì completamente la pena dell’esilio, poiché solo presso quel popolo Dio veniva adorato, essendo gli altri popoli corrotti dall’idolatria; di conseguenza se qualcuno fosse stato completamente escluso da quel popolo sarebbe stata data a lui l’occasione dell’idolatria. Ecco perché nel Primo Libro dei Re, si dice che Davide disse a Saul: «maledetti siano quelli che oggi mi scacciarono perchè io non abiti nella eredità del Signore, dicendo: vai, servi gli dei stranieri» (26, 19). Tuttavia esisteva un esilio particolare. Si legge infatti nel Deuteronomio (19, 4 e ss.): «chi ferirà il suo prossimo senza saperlo, potendo provare di non aver avuto alcun odio verso di lui», poteva fuggire in una delle città di rifugio e rimanere lì fino alla morte del sommo sacerdote. Allora infatti gli era lecito tornare a casa sua, perchè in generale le ire private si placano nelle pubbliche disgrazie del popolo, e così i familiari del morto non sarebbero stati più così propensi alla sua uccisione.

 

Risposta all’undicesimo argomento: si comandava di uccidere quelle bestie, non a causa di una qualche loro colpa, ma come una pena inflitta ai loro padroni, che non le avevano preservate da simili peccati. Pertanto, si puniva maggiormente il padrone se il bue avesse avuto già l'abitudine di assalire con le corna, caso in cui si poteva prevenire il pericolo, piuttosto che nel caso in cui lo avesse fatto per la prima volta. – Oppure si uccideva l'animale a riprovazione del peccato e affinché quella vista incutesse negli uomini in qualche terrore.

 

Risposta al dodicesimo argomento: come dice Mosé Maimonide [Doct. Perplex. P. 4 c. 40], la ragione è letterale di quel comando era data dal fatto che spesso l'uccisore apparteneva alla città più vicina. Di conseguenza l'uccisione della vitellina serviva ad indagare un omicidio nascosto. E questo era fatto per tre motivi: in primo luogo, perchè gli anziani della città giuravano di non aver trascurato per nulla la sicurezza delle strade; in secondo luogo perchè il padrone della vitellina veniva danneggiato dall’uccisione dell’animale e, se si fosse scoperto l’omicidio, la vitellina non sarebbe stata uccisa; il terzo motivo era infine dato dal fatto che il luogo in cui la vitellina veniva uccisa, rimaneva incolto. Perciò, per evitare tutti questi danni, gli abitanti di quella città avrebbero facilmente rivelato l'omicida, se lo conoscevano; accadeva poi raramente il caso che non trapelasse nessuna voce o indizio sull'accaduto.

Oppure questo si faceva per incutere terrore, a riprovazione dell'omicidio. Infatti attraverso l'uccisione di una vita e Lina, che è un animale utile e pieno di forza, specialmente prima di lavorare sotto il giogo, veniva indicato che chiunque avesse commesso un omicidio, per quanto fosse utile e forte, era da uccidere; ed era da uccidere con una morte crudele, cosa che era indicata dal fracassamento della testa; e doveva essere escluso dall'umano consorzio come vile e ignobile, cosa che era indicata dal fatto che la vitellina uccisa veniva abbandonata alla putrefazione in un luogo aspro e incolto.

In senso mistico poi attraverso la vitellina dell'armento viene indicata la carne di Cristo, che non portò il gioco, perché non commise peccato, e non arò la terra, cioè non conobbe la macchia della sedizione. Attraverso il fatto che la vitellina veniva uccisa in una valle incolta, si indicava la morte disprezzata di Cristo, per mezzo della quale sono state mondate tutte le colpe e il diavolo è stato mostrato come autore di omicidio.

 

 
     

SULLA LEGGE

SULLA LEGGE IN GENERALE

I-II, q. 90, Sull’essenza della legge

I-II, q. 91, Le diverse leggi

I-II, q. 92, Sugli effetti della legge

SULLE PARTI DELLA LEGGE

Legge eterna

I-II, q. 93, Sulla legge eterna

Legge naturale

I-II, q. 94, Sulla legge naturale

Legge umana

I-II, q. 95, Sulla legge umana in se stessa

I-II, q. 96, Sul potere della legge umana

I-II, q. 97, Sul cambiamento delle leggi

Legge antica

I-II, q. 98, Sulla legge antica

I-II, q. 99, Sulla distinzione dei precetti della legge antica

I-II, q. 100, Sui precetti morali

I-II, q. 101, Sui precetti cerimoniali in se stessi

I-II, q. 102, Sulle cause dei precetti cerimoniali

I-II, q. 103, Sulla durata dei precetti cerimoniali

I-II, q. 104, Sui precetti giudiziali

I-II, q. 105, Sulla natura dei precetti giudiziali

Legge nuova

I-II, q. 106, Sulla legge nuova (che è la legge del Vangelo) in se stessa

I-II, q. 107, Sul confronto tra la legge nuova e la legge antica

I-II, q. 108, Sulle cose che sono contenute nella legge nuova