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                          Notizie  
                          Esiste 
                          davvero un’alternativa tra “pro-choice” e “pro-life”?Sulla lettera indirizzata al Ministro della Salute da 
                          Maurizio Mori, Carlo Flamigni et al.
  
                            
                        
                        Il 20 dicembre 
                        2006 l’Unità ha pubblicato una lettera 
                        indirizzata al Ministro della Salute Livia Turco, 
                        firmata da venti personaggi del mondo accademico e 
                        scientifico tra i quali Carlo Flamigni, Maurizio Mori e 
                        Demetrio Neri. Nella lettera si chiede al Ministro di 
                        bloccare «immediatamente» il progetto della Clinica 
                        milanese Mangiagalli di dare spazio, «vicino alla 
                        segreteria nella quale si programmano le interruzioni di 
                        gravidanza», a un consultorio del “Movimento per la 
                        vita” (Mpv). Secondo i firmatari della lettera la 
                        presenza di volontari “pro-life” sarebbe lesiva del 
                        diritto alla libertà di scelta della donna che decide di 
                        abortire, rappresentando «un palese attacco» alla legge 
                        194/1978. Come è noto infatti, la legge italiana 
                        consente la pratica dell’aborto nei primi novanta giorni 
                        di gravidanza, una volta che sia stata accertata la 
                        gravità dei motivi che spingono la donna a richiederlo. 
                          
                        L’intento dei 
                        firmatari, come si può vedere, rientra in quella più 
                        ampia linea difensiva che alcuni ambienti politici e 
                        intellettuali hanno adottato di fronte a ogni tentativo 
                        di discutere la legge 194 e, più precisamente, di fronte 
                        alla proposta dell’ex Ministro della Salute Francesco 
                        Storace che nel dicembre del 2005 incaricò la 
                        Commissione Affari Sociali della Camera di avviare 
                        un’indagine conoscitiva sull’applicazione della legge, 
                        con particolare riferimento ai consultori. Il sospetto 
                        allora avanzato, infatti, era che i consultori fossero 
                        divenuti dei meri distributori automatici di certificati 
                        per abortire (visto anche il grande numero di aborti in 
                        Italia, in media 130.000 l’anno), contraddicendo 
                        l’obiettivo preventivo della legge, che è quello di 
                        aiutare la donna «a rimuovere le cause che la 
                        porterebbero all’interruzione della gravidanza» (art. 
                        5). Di tale obiettivo dovrebbero farsi carico proprio i 
                        consultori, i quali «possono avvalersi [...] della 
                        collaborazione [...] di associazioni del volontariato, 
                        che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la 
                        nascita» (art. 2 comma d). Un aiuto che, sempre secondo 
                        la legge, si esprime cercando insieme alla «donna» e al 
                        «padre del concepito, ove la donna lo consenta», «le 
                        possibili soluzioni dei problemi», per esempio mettendo 
                        la donna in condizione «di far valere i suoi diritti di 
                        lavoratrice e di madre [...] [e] offrendole tutti gli 
                        aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il 
                        parto» (art. 5).  
                                 Come si 
                        può vedere, nonostante tutte le riserve che si possono 
                        esprimere su una normativa che autorizza la soppressione 
                        del nascituro, la legge prevede testualmente che i 
                        consultori, coadiuvati anche da volontari, abbiano «il 
                        compito» (art. 5) di «far superare le cause che 
                        potrebbero indurre la donna all’interruzione della 
                        gravidanza» (art. 2 comma d). Ma se è così, allora la 
                        presenza di volontari del Mpv presso gli Ospedali dove 
                        si pratica l’aborto è pienamente conforme a una corretta 
                        applicazione della legge. Stupisce, pertanto, che 
                        secondo i firmatari della lettera accettare la presenza 
                        di volontari del Mpv negli Ospedali significhi 
                        «accettare in silenzio una riforma strisciante della 
                        legge 194» o, addirittura, equivalga a un «tentativo di 
                        delegittimare la legge, svuotandola del suo significato 
                        sociale e negando gli stessi principi che l’hanno 
                        ispirata». Ci si potrebbe domandare di quale legge si 
                        sta parlando. Certamente non della legge 194, che, non a 
                        caso, non viene mai citata testualmente nella 
                        lettera. E in effetti, se la legge venisse citata, 
                        coloro che tentano di «delegittimarla, svuotandola del 
                        suo significato sociale e negando i principi che l’hanno 
                        ispirata» risulterebbero proprio coloro che vogliono 
                        impedire alle «associazioni del volontariato» e dunque 
                        anche al Mpv, di contribuire «a far superare le cause 
                        che potrebbero indurre la donna all’interruzione della 
                        gravidanza» (art. 2 comma d).  
                                 Il 
                        sospetto che i sottoscrittori della lettera non stiano 
                        difendendo la normativa realmente esistente ma stiano 
                        proiettando su di essa una loro peculiare e fittizia 
                        idea di legge 194, è confermato non appena viene 
                        considerato l’aspetto preventivo contenuto nell’intero 
                        art. 2. Nella lettera, infatti, leggiamo che «La 
                        politica di prevenzione dell’aborto prevista dalla legge 
                        non tiene in alcun conto i vantaggi che potrebbero 
                        derivare da una corretta diffusione delle conoscenze 
                        relative alla contraccezione». Si tratta di un vero e 
                        proprio lapsus freudiano, che tradisce il riconoscimento 
                        implicito che l’azione dei volontari del Mpv è 
                        pienamente conforme al concetto di prevenzione di una 
                        legge che, riguardando la «tutela sociale della 
                        maternità» e dunque le donne che sono già in gravidanza, 
                        non può che intendere la prevenzione dell’aborto come 
                        prosecuzione della gravidanza e non come contraccezione. 
                        Se si pensa, poi, che tutto ciò è pienamente coerente 
                        con il principio affermato nell’art. 1, secondo cui «Lo 
                        Stato [...] tutela la vita umana dal suo inizio», allora 
                        si comprende perché i firmatari abbiano spostato il tiro 
                        sul problema della contraccezione, finendo però per 
                        assumere una posizione curiosa, che consiste nel voler 
                        difendere una legge che non esiste dai presunti 
                        «intollerabili attacchi» di coloro che, invece, 
                        applicano correttamente quella che esiste.     
                                 
                        Purtroppo le deformazioni riguardano non soltanto la 
                        legge ma anche il Mpv, i cui intenti e i cui metodi 
                        operativi vengono presentati in modo altamente 
                        caricaturale. Vogliamo credere che ciò sia dovuto non a 
                        malafede ma a cattive informazioni, a fraintendimenti o 
                        a indebite generalizzazioni, benché purtroppo, anche in 
                        questo caso, non vengano citate testualmente 
                        dichiarazioni o documenti ufficiali dell’associazione 
                        fondata da Carlo Casini. Si potrebbe obiettare che una 
                        lettera di sensibilizzazione indirizzata a un Ministro 
                        della Salute non è chiamata a citare fonti. E tuttavia, 
                        quando si definiscono gli intenti e le azioni del 
                        proprio avversario politico come «illegittimi e lesivi 
                        della dignità delle persone» bisogna dimostrare che è 
                        veramente così, e non ci si può limitare a mere 
                        insinuazioni, come quando nella lettera leggiamo: 
                        «sembra accertato (sic!)» che i volontari del Mpv 
                        sarebbero disposti a «“fare di tutto”, pur di evitare un 
                        aborto», addirittura «attuando anche comportamenti ai 
                        limiti della legge e che violano ogni elementare 
                        principio di “privacy”». Comportamenti che sarebbero 
                        resi ancora più gravi dal fatto che «Le donne che si 
                        rivolgono ai consultori hanno prevalentemente deciso di 
                        interrompere la gravidanza dopo analisi razionali, 
                        consapevoli e sofferte delle loro condizioni: altro è 
                        informarle – con discrezione e compassione – circa 
                        eventuali scelte alternative, altro è esercitare 
                        pressioni improprie e di discutibile legittimità, 
                        oltretutto esercitate da parte di persone estranee al 
                        mondo sanitario e la cui stessa presenza in un ambiente 
                        ospedaliero appare come assolutamente impropria». 
                                 Come si 
                        può vedere, chi ha sottoscritto la lettera sarebbe 
                        d’accordo nell’informare le donne che si presentano in 
                        ospedale «con discrezione e compassione circa eventuali 
                        scelte alternative». Ora, però, questo è proprio quello 
                        che fanno i volontari del Mpv, il cui intervento, anche 
                        se si tratta «di persone estranee al mondo sanitario», è 
                        coerentemente previsto dalla stessa legge proprio perché 
                        l’aborto non è solo un problema «sanitario». Sembra 
                        invece che per i firmatari della lettera la stessa 
                        presenza dei volontari del Mpv equivalga a una forma di 
                        «pressione impropria e di discutibile legittimità». È 
                        davvero così? Per scoprirlo può essere utile chiedere 
                        un’opinione non tanto ai volontari del Mpv, ma alle 
                        donne che li hanno incontrati. Come dimostra la mole di 
                        testimonianze documentate dai CAV (Centri di Aiuto alla 
                        Vita) quasi nessuna delle donne che in seguito a un 
                        colloquio con i volontari del Mpv hanno deciso di non 
                        abortire si sono pentite della loro scelta (cfr. “Sì 
                        alla vita”, 5/maggio 2006, pp. 18-23). Se si ritiene che 
                        la fonte di queste statistiche sia di parte, si può 
                        andare a chiedere a medici che hanno praticato aborti 
                        per venticinque anni come Rossana Cirillo (ora obiettore 
                        di coscienza all’Ospedale Villa Scassi di Genova) che 
                        ammette: «non ho mai conosciuto mamme pentite di non 
                        aver abortito, invece ne ho visto di tormentate dopo 
                        l’aborto» (“Sì alla vita”, 1/gennaio 2006, p. 9), o come 
                        Giorgio Pardi, il primo medico a eseguire un aborto 
                        legale in Italia, proprio alla Mangiagalli di Milano, il 
                        quale afferma, senza mezzi termini, che «chi interrompe 
                        una gravidanza deve essere ben conscio di procurarsi una 
                        ferita che lascia cicatrici profonde» (“Tempi”, 5 
                        ottobre 2006). Se affermazioni come queste vengono da 
                        medici che tuttora praticano l’aborto (Pardi è uno di 
                        questi) e non da fanatici militanti “pro-life”, forse 
                        bisognerà cominciare a sospettare che l’aborto non è una 
                        passeggiata, e che il tentativo di aiutare una donna a 
                        evitarlo è un servizio reso non solo al nascituro ma 
                        anche a sua madre.     
                        In un contesto 
                        del genere cosa può significare affermare, come fanno i 
                        firmatari della lettera, che la presenza del Mpv «nei 
                        luoghi ove si decidono e si programmano le interruzioni 
                        di gravidanza rappresenta una inaccettabile violazione 
                        dei diritti delle donne ad una autonomia decisionale»? 
                        Forse queste parole dimostrano, ancora una volta, che 
                        l’aborto è un problema che non riguarda quasi mai coloro 
                        che ne parlano. Questi ultimi, infatti, spesso 
                        costruiscono eleganti teorie sul principio di 
                        autodeterminazione della donna, creando una situazione 
                        tendenzialmente artificiale, che non corrisponde 
                        all’esperienza effettiva di una madre che si reca in 
                        ospedale per abortire. Il concetto di “libertà della 
                        donna” che i firmatari della lettera brandiscono contro 
                        i volontari del Mpv, infatti, esclude a priori la 
                        possibilità che una donna che ha già deciso di 
                        abortire possa cambiare liberamente idea, e impone 
                        che la decisione di abortire sia irreversibile. In altri 
                        termini, l’ideologia della “libertà della donna” limita 
                        drasticamente l’effettiva libertà della donna, visto che 
                        prevede solo la decisione di abortire come espressione 
                        di autentica libertà, escludendo a priori che si possa 
                        decidere liberamente di non abortire. Come se una 
                        scelta per essere libera dovesse essere necessariamente 
                        irreversibile e non potesse essere modificata da una 
                        scelta contraria, altrettanto libera. Come se solo chi 
                        decide di abortire fosse immune da condizionamenti e 
                        messaggi subliminali, laddove chi decide di non abortire 
                        sarebbe sempre vittima di un plagio più o meno 
                        palese. Dalla lettera indirizzata al Ministro Turco 
                        traspare così un vero e proprio terrore all’idea che una 
                        donna possa entrare in un consultorio in cui si trova 
                        qualcuno che non è disposto a confermare in modo 
                        indifferenziato qualsiasi decisione essa abbia preso. 
                        Evidentemente i firmatari della lettera non hanno 
                        un’idea molto alta della donna, se pensano che essa 
                        possa prendere decisioni autonome solo dopo aver 
                        incontrato un consultorio di compiacenti sostenitori 
                        della sua scelta di abortire. Fa riflettere il fatto che 
                        proprio i difensori dell’autonomia decisionale della 
                        donna pensino che la donna sia così priva di senso 
                        critico e di autonomia, da ritenerla incapace di 
                        mantenere libera una scelta in un contesto che non sia 
                        automaticamente disposto ad assecondarla.  
                        Come si 
                        accennava, spesso la dialettica delle diverse posizioni 
                        filosofiche e la logica degli schieramenti politici 
                        rischiano di costruire una realtà artificiale, parallela 
                        a quella che uomini e donne vivono quotidianamente. 
                        Così, quando nella lettera leggiamo che «l’autonomia 
                        delle persone non può essere violata in nome del 
                        principio della sacralità della vita», si ha la 
                        sensazione che i firmatari della lettera stiano 
                        difendendo una posizione filosofica e non la donna che 
                        si reca in ospedale per abortire, magari perché il 
                        marito o il compagno l’ha indotta a farlo. Se l’aborto è 
                        davvero un dramma, insomma, qui si rischia seriamente di 
                        murare la donna nella sua solitudine sotto la falsa 
                        maschera del suo diritto di scelta. Tanto più quanto, a 
                        ben vedere, offrire alla donna, con rispetto, 
                        un’alternativa, significa darle un’occasione per 
                        accrescere la sua libertà. In caso contrario, qualora la 
                        scelta della donna venisse presa come un dogma, si 
                        rischierebbe di ratificare una decisione dettata dal 
                        bisogno e dalle difficoltà, una decisione che, se si 
                        avesse la libertà di farlo, magari non si prenderebbe. 
                        Ci sembra francamente eccessivo, oltre che astratto, 
                        credere che offrire un’alternativa a una donna che è 
                        indotta ad abortire sia una violazione della sua libertà 
                        o, addirittura, un atto lesivo della sua dignità di 
                        persona.  
                        Da questo punto 
                        di vista l’alternativa tra “pro-choice” e “pro-life” è 
                        una falsa alternativa, frutto più di esigenze di 
                        schieramento politico che di una descrizione del vissuto 
                        di donne e di medici che hanno a che fare con la realtà 
                        dell’aborto. La presenza di volontari “pro-life” negli 
                        ospedali dove si praticano aborti implica invece il 
                        realistico riconoscimento che una madre che decide di 
                        abortire è una donna per cui non c’è alternativa e che 
                        dunque deve essere aiutata. E come ha notato acutamente 
                        il filosofo Robert Spaemann, il primo aiuto consiste 
                        nel non lasciare una donna nell’insopportabile 
                        situazione di dover decidere se il proprio bambino deve 
                        continuare a vivere o non deve vivere più. 
                        Perché è questa la percezione sofferta che la donna ha 
                        mentre si reca in ospedale, come è dimostrato dal fatto 
                        che, come ogni medico sa, le donne vogliono essere 
                        informate il meno possibile sul loro aborto, limitandosi 
                        a eseguire e a dimenticare rapidamente la cosa, a 
                        differenza di altre operazioni chirurgiche per le quali 
                        si desidera invece essere informati il più possibile. 
                        Sappiamo tutti, e non solo i medici, che ogni donna ha 
                        una chiara coscienza che nell’aborto accade qualcosa a 
                        cui non si può di buon grado guardare apertamente. E in 
                        effetti fare dell’uomo il signore della vita e della 
                        morte significa chiedergli troppo. Per questo il primo 
                        atto di rispetto nei confronti di una donna non consiste 
                        nel ratificare la sua decisione di abortire, magari 
                        perché si tratta di una decisione «sofferta e 
                        consapevole», ma nel tentativo di liberare la donna da 
                        ciò che rende sofferta questa decisione, e cioè da tutte 
                        quelle condizioni che la costringono a dover prendere in 
                        considerazione l’eliminazione del suo bambino come una 
                        possibile alternativa. Rispettare la dignità di una 
                        donna incinta può significare soltanto considerarla come 
                        «qualcuno per cui questa alternativa non è assolutamente 
                        in questione» (R. Spaemann).   
                        A tutti coloro 
                        che impostano il problema in questo modo viene spesso 
                        obiettato, come gli stessi firmatari della lettera fanno 
                        riferendosi ai volontari del Mpv, di farsi giudici di 
                        «tribunali impropri», creando un clima di 
                        colpevolizzazione che ferirebbe la coscienza delle donne 
                        che hanno deciso di abortire. Anche qui, purtroppo, 
                        siamo in presenza di uno slogan ideologico che non tiene 
                        conto del vissuto effettivo di una donna che ricorre 
                        all’aborto. Una donna può non voler ascoltare i consigli 
                        di coloro che le offrono un’alternativa all’aborto o, 
                        dopo averli ascoltati, può decidere diversamente. Ma se 
                        essa, dopo tutto questo, si sente in colpa quando 
                        abortisce, ciò non avviene a causa di chi ha cercato di 
                        convincerla a non abortite ma, più semplicemente, per la 
                        natura stessa del gesto che ha compiuto. Il senso di 
                        colpa di una donna che abortisce deriva dal fatto che 
                        l’aborto è un gesto innaturale per una madre e 
                        profondamente ingiusto nei confronti del bambino che 
                        ella porta in grembo. Non ci sembra corretto, da questo 
                        punto di vista, scaricare proprio su chi voleva evitare 
                        questo senso di colpa la responsabilità di averlo 
                        provocato. 
                        Se le cose 
                        stanno così, allora incoraggiare una donna a proseguire 
                        una gravidanza non significa, come scrivono invece i 
                        firmatari a conclusione della loro lettera, dimenticare 
                        che le donne sono «cittadine a pieno titolo, persone 
                        razionali e sensibili, capaci di decidere e di assumere 
                        la responsabilità delle proprie decisioni anche nelle 
                        condizioni di maggiore complessità». Qui non è in gioco 
                        il fatto, ovvio, che le donne siano responsabili, ma il 
                        contenuto drammatico di questa responsabilità, che le 
                        donne stesse si risparmierebbero volentieri di 
                        esercitare, se solo qualcuno le aiutasse. 
                           
                          Luciano Sesta |  |