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                          Quale 
                          buona morte? Il 
                          problema dell'eutanasia tra sofferenza e libertà  
                          di 
                          Luciano Sesta* 
                        
                          
                        1. Il problema 
                        dell’eutanasia tra progresso medico e istanze etiche 
                          
                        Il problema 
                        dell’eutanasia è al centro di un acceso dibattito che 
                        coinvolge, ormai da tempo, non soltanto la classe 
                        medica, che è la più direttamente interessata, ma anche, 
                        tra gli altri, il campo dell’etica filosofica, della 
                        psicologia, dell’antropologia e del diritto. Al di là 
                        delle competenze disciplinari, delle credenze religiose 
                        e degli schieramenti politici, si può ben dire che 
                        l’eutanasia è un problema che in linea di principio 
                        riguarda tutti, come dimostra anche il fatto che in 
                        alcuni Paesi gli stessi cittadini sono stati chiamati a 
                        esprimersi sull’eventualità di legalizzarla. In questo 
                        nostro intervento ci occuperemo, in modo sintetico e 
                        senza alcuna pretesa di esaustività, di alcuni aspetti 
                        etici del problema, con particolare riferimento alle 
                        prospettive che attribuiscono alla sofferenza e al 
                        diritto alla libertà di scelta un peso decisivo per 
                        valutare la moralità dell’eutanasia.   
                        Come è noto, all’aumento 
                        della durata media della vita e ai problemi che la 
                        accompagnano non sono estranei i grandi progressi della 
                        medicina moderna. Da quando il prolungamento artificiale 
                        della vita è diventato una realtà, l’antica regola 
                        professionale secondo cui il medico doveva “fare tutto 
                        il possibile” per evitare la morte di un uomo, è 
                        divenuta problematica. Le tecniche di rianimazione e le 
                        apparecchiature di respirazione artificiale, infatti, 
                        possono oggi sostituire le funzioni vitali di un 
                        organismo e mantenere in vita soggetti che, altrimenti, 
                        sarebbero morti. Il decorso di malattie che un tempo 
                        conducevano rapidamente alla morte, come i tumori 
                        maligni, l’Aids e molte patologie del sistema 
                        cardiovascolare, respiratorio e nervoso, può oggi essere 
                        rallentato. Questo ha risolto alcuni problemi ma ne ha 
                        anche creati altri. Molte patologie legate alla 
                        vecchiaia diventano croniche, radioterapia e 
                        chemioterapia, prolungando la vita, finiscono per 
                        prolungare anche le sofferenze e i disagi che la 
                        accompagnano nella sua fase terminale. La medicina 
                        moderna rischia così di trasformare la morte, che prima 
                        era un evento più o meno puntuale, in un processo lungo 
                        e doloroso. 
                        In un contesto del 
                        genere, la decisione di ricorrere o di non ricorrere a 
                        questi mezzi o di interromperne l’uso è una decisione 
                        complessa, che richiede valutazioni che esulano da una 
                        competenza puramente medica. Rianimare o non un uomo di 
                        ottantanove anni che ha avuto un arresto cardiaco? 
                        Sospendere o continuare una chemioterapia che prolunga 
                        penosamente la vita di un malato terminale? E ancora: 
                        c’è differenza tra la decisione di sospendere un 
                        trattamento lasciando morire il paziente e quella di 
                        farlo morire con un’iniezione letale per porre fine alle 
                        sue sofferenze? Dare intenzionalmente la morte 
                        attraverso un’azione medica è lo stesso che lasciare 
                        morire attraverso un’astensione terapeutica? Per 
                        ciascuna di queste domande esistono ragioni sia per una 
                        risposta affermativa sia per una risposta negativa. Ma 
                        queste risposte non possono provenire dalla tecnologia 
                        medica che, anzi, fa sorgere la domanda. Il potere 
                        odierno della medicina, infatti, ci dice solo ciò che è
                        possibile fare e non ciò che è giusto fare.
                         
                          
                          
                        2. Che cos’è 
                        l’eutanasia? L’esigenza di una definizione 
                          
                        Quando si parla di 
                        “eutanasia” si presuppone che si tratti di una parola 
                        dal significato intuitivamente chiaro. In realtà non è 
                        così. Come è stato giustamente osservato, il termine è 
                        una di quelle tipiche “parole-attaccapanni” alle quali 
                        ognuno attribuisce un particolare significato, tanto che 
                        quando parliamo di eutanasia, mentre crediamo di parlare 
                        della stessa cosa, di fatto ci riferiamo a situazioni 
                        diverse. 
                        Come è noto, la parola viene dal greco eu-thanatos 
                        che significa “buona morte”, sia nel senso di una morte 
                        facile, senza sofferenze, 
                        sia nel senso di una morte gloriosa, come quella del 
                        guerriero al servizio della patria. 
                        A partire dall’influenza del Cristianesimo, la parola, 
                        in forza del carattere avverbiale dell’eu, 
                        indicherà sempre di più il “ben morire”, non solo nel 
                        senso delle caratteristiche di brevità e assenza di 
                        dolore del trapasso, ma anche nel senso della buona 
                        disposizione del morente rispetto alla propria morte. 
                        Il significato originario del termine eutanasia, in ogni 
                        caso, non fa riferimento a una morte provocata ma 
                        naturale, e non riguarda la medicina. Soltanto sul 
                        finire del secolo e agli inizi del Novecento il termine 
                        eutanasia assume un nuovo significato, che è quello di 
                        “uccisione pietosa” (mercy killing). Sulla scorta 
                        di questo più recente significato, nel contesto del 
                        dibattito odierno l’eutanasia può essere definita come
                        l’uccisione deliberata di un paziente al fine di 
                        eliminare le sue sofferenze fisiche e/o morali. 
                        Questa uccisione può essere realizzata sia mediante 
                        un’azione, per esempio un’iniezione letale, sia mediante 
                        un’omissione, per esempio lasciando morire un paziente 
                        che, pure, ha ancora delle ragionevoli speranze di 
                        migliorare la sua condizione. Si è soliti, inoltre, 
                        distinguere diversi tipi di eutanasia. Quando 
                        l’eutanasia è richiesta dal paziente, si parla di 
                        “eutanasia volontaria”; quando il paziente si trova in 
                        uno stato di incoscienza e non ha manifestato in 
                        precedenza la sua volontà, per esempio attraverso un 
                        “testamento biologico” (living will), si parla di 
                        “eutanasia non volontaria”; si parla infine di 
                        “eutanasia involontaria” quando l’eutanasia è praticata 
                        contro la stessa volontà del paziente.
                         
                        Il caso più dibattuto è 
                        indubbiamente quello dell’eutanasia volontaria, 
                        in cui il paziente, in piena coscienza, chiede la morte. 
                        Il paziente-tipo del nostro caso è dunque un soggetto 
                        capace di intendere e di volere che, per lo sviluppo 
                        ormai irreversibile di una grave patologia o perché 
                        anziano debilitato, si trova in una condizione di 
                        sofferenza, in cui va diminuendo la sua autonomia e in 
                        cui va aumentando la sua dipendenza nei confronti di 
                        coloro che gli stanno intorno. Poco importa che egli sia 
                        un malato “terminale”, vale a dire prossimo alla morte, 
                        o che invece abbia ancora qualche anno di vita davanti a 
                        sé. Ciò che conta è il grado di sofferenza che egli 
                        sperimenta nella sua condizione, dal momento che la 
                        principale motivazione che spinge un uomo a chiedere la 
                        morte, e che induce molti a giustificare l’eutanasia, 
                        non è tanto l’imminenza della morte quanto l’insopportabilità 
                        della sofferenza.  
                        Va fatta un’ultima 
                        precisazione semantica a proposito dell’eutanasia 
                        volontaria. Spesso si parla di “eutanasia volontaria” 
                        nel caso in cui il paziente chiede di essere ucciso 
                        perché non può farlo da se stesso, mentre si parla di 
                        “suicidio assistito” 
                        quando il paziente è capace di darsi la morte e ha 
                        bisogno solo che qualcuno gli fornisca un farmaco 
                        letale. Questa distinzione non ci sembra moralmente 
                        decisiva. Dal punto di vista del paziente, infatti, ciò 
                        che conta è che il proprio desiderio di farla finita 
                        venga realizzato, al di là del fatto che egli chieda di
                        essere ucciso (eutanasia volontaria) o di essere
                        aiutato a darsi la morte (suicidio assistito). 
                        Allo stesso modo, dal punto di vista della 
                        responsabilità morale del medico mettere il paziente in 
                        possesso di un farmaco mortale non è diverso dal 
                        somministrarglielo direttamente su sua richiesta. 
                        Tratteremo dunque l’eutanasia volontaria e il suicidio 
                        assistito come varianti di un unico problema. 
                        Si può osservare, 
                        innanzitutto, che rispetto alla fattispecie tradizionale 
                        del suicidio qui la questione si complica, dato che non 
                        ci troviamo soltanto di fronte a un uomo che sta 
                        meditando di darsi la morte, ma a un uomo che chiede 
                        ad altri di farlo morire, costringendoli così al ruolo 
                        di complici nella realizzazione della sua tragica 
                        scelta. È importante allora tenere distinte due 
                        questioni, che riguardano rispettivamente chi chiede 
                        l’eutanasia (malato o anziano) e chi è chiamato 
                        eventualmente a eseguirla (medico, infermiere, parente o 
                        amico). Le domande alle quali cercheremo di dare una 
                        risposta, sono allora essenzialmente due: l’eutanasia, 
                        la “buona morte”, è davvero buona, corrisponde 
                        cioè al bene del soggetto che ne fa richiesta? E, di 
                        conseguenza, per coloro che sono vicini al malato, 
                        l’eutanasia è la cosa giusta da fare, a tal punto 
                        da poter dire che essa è ciò che spetta al malato, ciò a 
                        cui egli ha diritto? 
                          
                          
                        3. Il diritto del 
                        paziente all’autodeterminazione giustifica l’eutanasia? 
                          
                        Partiamo da quest’ultima 
                        domanda, e cioè dall’eventualità che vi sia un diritto 
                        all’eutanasia. Un vasto movimento di opinione ritiene 
                        che la richiesta di eutanasia debba essere accolta 
                        facendo riferimento al diritto di ciascuno a vedere 
                        rispettata la propria volontà, soprattutto quando si 
                        trova in uno stato di sofferenza del cui grado di 
                        sopportabilità può giudicare solo il soggetto 
                        direttamente interessato. 
                        L’eutanasia, inoltre, consentirebbe: 1) al paziente di 
                        morire in modo rapido e indolore; 2) alla famiglia del 
                        paziente di essere esonerata dall’affrontare i costi 
                        (psicologici ed economici) che la sua assistenza 
                        richiede; 3) ai medici e alla società di dedicare 
                        risorse ad altri pazienti che hanno maggiori possibilità 
                        di guarigione.
                         
                        Per esempio, secondo la 
                        legge olandese e la tendenza diffusa presso i vari 
                        movimenti a favore dell’eutanasia, quest’ultima può 
                        essere considerata lecita sulla base di tre presupposti: 
                        1) Il primo è che vi sia la possibilità di accertarsi 
                        che il desiderio di morire sia l’autentica espressione 
                        della libera volontà del paziente; 2) il secondo 
                        presupposto è la convinzione che il paziente sia l’unico 
                        a poter giudicare se la propria vita, in uno stato di 
                        sofferenza, sia o non sia degna di essere ancora 
                        vissuta; 3) il terzo presupposto, infine, è che 
                        l’eutanasia, in certi casi, è l’unico aiuto che possiamo 
                        dare al paziente nella sua drammatica situazione. 
                        Analizziamo ciascuno di questi presupposti. 
                        Il primo presupposto, 
                        come abbiamo visto, si riferisce alla possibilità di 
                        verificare che il desiderio di morire sia espressione 
                        autentica della volontà del paziente. Si potrebbe 
                        osservare che già domandarsi quanto sia effettivamente 
                        libera la richiesta di morire, per poterla eventualmente 
                        esaudire, significa considerare la sofferenza e la morte 
                        del paziente come qualcosa che non ci riguarda. 
                        L’insistenza sulla scelta autonoma di colui che chiede 
                        di morire potrebbe nascondere, così, il tentativo di 
                        sottrarsi a buon mercato a una più impegnativa 
                        solidarietà nei suoi confronti. Anziché domandarci 
                        quanto sia effettivamente libera la richiesta del 
                        paziente dovremmo forse domandarci: cosa non abbiamo 
                        fatto perché costui ci chieda di morire? Questo 
                        rovesciamento di prospettiva potrebbe coglierci 
                        impreparati, costringendoci a riconoscere che se l’altro 
                        ci chiede di morire forse anche noi, con le nostre 
                        mancanze, abbiamo contribuito a rendere 
                        insopportabile la sua sofferenza. Di fronte a chi 
                        soffre, può succedere, per esempio, che parenti e amici 
                        rimangano in disparte, magari perché intimoriti, o 
                        perché non si sentono all’altezza. C’è anche il 
                        comprensibile rischio che i familiari, duramente provati 
                        dal peso di un’assistenza alla quale si aggiunge lo 
                        svolgimento delle ordinarie attività domestiche e 
                        lavorative, dopo un certo tempo avvertano stanchezza e 
                        cedimento. 
                        Tutto questo incide sullo stato d’animo del malato, la 
                        cui richiesta di morire, dunque, non è mai del tutto 
                        autonoma, essendo condizionata dalla valutazione che 
                        egli riceve dal giudizio e dal comportamento degli 
                        altri.  
                        Per quanto concerne il 
                        secondo punto, si dice che il paziente sia 
                        l’unico a poter giudicare se la propria vita, in uno 
                        stato di sofferenza, è o non è degna di essere ancora 
                        vissuta.
                        Anche quest’idea è piuttosto problematica. A 
                        rigor di logica, infatti, se il rispetto dell’autonomia 
                        del paziente è sufficiente a giustificare l’eutanasia 
                        perché il paziente è l’unico giudice della sua 
                        condizione, allora qualunque persona ne faccia 
                        richiesta, indipendentemente dall’età e dal male di cui 
                        soffre, deve poter essere esaudita, dal giovane 
                        momentaneamente depresso all’anziano terminale. Si dirà 
                        che i due casi sono diversi, e che se l’anziano 
                        terminale potrebbe al limite essere accontentato, 
                        bisogna convincere il giovane depresso che egli può 
                        superare il suo disagio. Ma questo ragionamento non ha 
                        nulla a che vedere con il diritto alla libera scelta e, 
                        anzi, lo contraddice. 
                        E infatti, se davvero il soggetto interessato è il 
                        miglior giudice della propria condizione, allora 
                        dovremmo giustificare l’eutanasia per chiunque 
                        ritenga la propria vita indegna di essere vissuta, senza 
                        presumere di poter giudicare, meglio di quanto possa 
                        fare il diretto interessato, ciò che lo riguarda più 
                        intimamente. Il giovane depresso che chiede di morire, 
                        di fronte al nostro tentativo di aiutarlo a superare il 
                        suo problema, potrebbe pur sempre invocare il rispetto 
                        della sua libertà di scelta, dicendo che nessuno ha il 
                        diritto di stabilire, al suo posto, quanto sono 
                        insopportabili le sue sofferenze. La conclusione che 
                        dobbiamo trarre da queste considerazioni, benché sia un 
                        po’ imbarazzante, è che, in realtà, coloro che difendono 
                        l’eutanasia per i malati terminali o anziani e rifiutano 
                        invece quella per i giovani depressi non lo fanno in 
                        nome dell’autonomia degli anziani e dei malati, ma 
                        perché ritengono che essi starebbe meglio da morti 
                        piuttosto che da vivi.
                         
                        Veniamo all’ultimo 
                        punto. Si riconosce che l’eutanasia non è 
                        la soluzione migliore ma che in determinate circostanze 
                        essa è l’unico modo per porre fine a uno stato di 
                        sofferenza considerato intollerabile dal paziente. 
                        L’eutanasia andrebbe dunque concessa con cautela e 
                        soltanto in casi eccezionali o estremi, come quelli in 
                        cui il malato, nonostante la terapia del dolore, 
                        implorasse lo stesso che lo si faccia morire. 
                         
                        A dire il vero, anche in 
                        questi casi l’eutanasia non è necessariamente l’unica 
                        soluzione, a meno che non si sia deciso, a priori, che 
                        uccidere il malato è una delle soluzioni possibili. E 
                        infatti, poiché l’eutanasia, nonostante sia la soluzione 
                        più drammatica, è anche la soluzione più immediata, più 
                        facile e più economica, una volta che la si sia 
                        considerata come una possibile via d’uscita tenderà a 
                        imporsi come l’unica via d’uscita, inducendo il 
                        malato stesso a richiederla e i medici a proporla. Ci 
                        troviamo qui in uno di quei classici casi in cui «creare 
                        la possibilità comporta un meccanismo psicologico di 
                        incoraggiamento a servirsene». 
                        Così, quando farsi dare la morte è una possibilità 
                        moralmente lecita, il malato risulta esposto a una 
                        pressione intollerabile: se egli non sfrutta questa 
                        possibilità si sentirà responsabile di tutti i sacrifici 
                        che devono essere spesi per lui. Di fronte all’“esempio” 
                        di coloro che chiedono l’eutanasia, un paziente anziano 
                        che sente di essere un peso per i propri familiari e per 
                        la società, potrebbe domandarsi a sua volta se non abbia 
                        anch’egli l’“obbligo” morale di chiedere la morte, 
                        liberando gli altri da tutti i sacrifici che il suo 
                        continuare a vivere comporta per loro. 
                        Anche se le sofferenze del malato non sono 
                        insopportabili, continuare a vivere in una situazione 
                        del genere finisce per diventare davvero insopportabile. 
                        Il rischio è che, in forza di un meccanismo perverso, 
                        una volta che si sia accettato il diritto di 
                        morire si arrivi a imporre surrettiziamente il dovere 
                        di morire. Ci sono autori che sostengono esplicitamente 
                        questo dovere di morire e secondo i quali gli anziani, 
                        per esempio, dovrebbero capire che giunge un momento in 
                        cui togliere il disturbo è, da parte loro, un atto di 
                        responsabilità al fine di liberare risorse sanitarie 
                        meglio utilizzabili per i più giovani. 
                        Come si può vedere, 
                        tutte e tre le condizioni che dovrebbero giustificare 
                        l’eutanasia risultano problematiche. La debolezza di 
                        fondo che le accomuna è costituita dall’eccessiva 
                        importanza attribuita al diritto di autodeterminazione 
                        del paziente. Questo diritto, senz’altro, deve essere 
                        tutelato, ma risulta inadeguato per risolvere il 
                        problema della sofferenza, soprattutto quando viene 
                        assolutizzato in modo astratto. Per esempio, a volte si 
                        arriva a dire che il paziente, per poter decidere in 
                        modo davvero autonomo, andrebbe «protetto dalle 
                        pressioni di chiunque possa influenzarlo, compresi i 
                        familiari». 
                        Dire una cosa del genere significa non rendersi conto 
                        che per molti pazienti, dai più giovani ai più anziani, 
                        il dialogo con i familiari e con i medici, e dunque una 
                        qualche forma di dipendenza nei loro confronti, in 
                        realtà è la condizione sulla quale poggia la loro 
                        decisione autonoma e la loro speranza di trovare 
                        sollievo dal dolore e conforto nella sofferenza. 
                        L’astratta figura di un malato intento solo a 
                        rivendicare i propri diritti è piuttosto estranea al 
                        vissuto del malato concreto, e cioè del malato 
                        inchiodato su un letto di ospedale. Se il paziente di 
                        cui parliamo è in preda a indicibili sofferenze, 
                        insistere sul suo diritto di scegliere in piena 
                        autonomia sarebbe come insistere sulla libertà di scelta 
                        del depresso che si trova sul punto di suicidarsi. 
                        Perché una scelta sia autonoma, in effetti, si 
                        presuppone che il soggetto che la manifesta sia 
                        pienamente padrone di se stesso, al di là di ogni 
                        condizionamento che possa alterare il suo equilibrio 
                        emotivo. Tuttavia, poiché la richiesta di eutanasia è 
                        motivata dall’insopportabilità della sofferenza, ci si 
                        potrebbe domandare quanto sia effettivamente libera una 
                        scelta condizionata da una sofferenza definita 
                        insopportabile. Per questo rifiutare l’eutanasia non è 
                        una violazione della libertà del paziente, ma un atto 
                        compiuto in nome della sua stessa libertà. E infatti, 
                        rifiutare l’eutanasia a colui che la richiede significa 
                        offrirgli un’ulteriore possibilità di riflettere sulla 
                        sua decisione, magari dettata da un attimo di 
                        disperazione. 
                        Del resto, come è risaputo, i pazienti in stato 
                        terminale o in condizioni di forte sofferenza 
                        attraversano fasi altalenanti, da momenti di depressione 
                        a momenti di ritrovata fiducia. Non è facile capire in 
                        quale dei due momenti si esprime l’autentica volontà del 
                        malato. Probabilmente, in mancanza di un criterio sicuro 
                        la soluzione più ragionevole e umana è quella di 
                        respingere ogni richiesta di eutanasia, onde evitare di 
                        accorgersi, troppo tardi, di aver ucciso chi non voleva 
                        morire.  
                          
                          
                        4. Le cure palliative 
                        tra “dolore” e “sofferenza” 
                          
                        Ora, però, se decidiamo 
                        di rifiutare l’eutanasia dobbiamo anche prendere sul 
                        serio i motivi che spingono il paziente a richiederla, 
                        offrendogli un’alternativa adeguata. Infatti, se dopo 
                        aver rifiutato di esaudire la richiesta di eutanasia non 
                        ci impegnassimo a migliorare le condizioni di vita del 
                        paziente, quest’ultimo potrebbe essere nuovamente 
                        indotto a chiedere la morte, e il nostro rifiuto di 
                        accontentarlo, a questo punto, non sarebbe un rifiuto 
                        credibile, potendo apparire, al limite, anche disumano. 
                         
                        Il primo passo da fare, 
                        se vogliamo prendere sul serio i motivi che spingono un 
                        uomo a chiedere la morte, è quello di non 
                        sottovalutare la sua sofferenza. Il malato 
                        inguaribile, soprattutto se anziano, soffre spesso di un 
                        dolore continuo, che non consente il sonno e le normali 
                        attività quotidiane. Il suo organismo perde elasticità, 
                        le sue capacità percettive si appannano, lo spazio della 
                        sua autonomia fisica si riduce e il ritmo del suo tempo 
                        si fa sempre più lento e ripetitivo. 
                        Se poi si considera che spesso gli anziani basano la 
                        loro giornata su riferimenti ambientali fissi e su 
                        abitudini consolidate, anche una semplice difficoltà di 
                        ambientamento, dovuta al trasferimento in ospedale, può 
                        essere causa di sofferenza. 
                        A questo proposito, è opportuno distinguere il dolore, 
                        che è fenomeno fisico, neurologico e biochimico, dalla
                        sofferenza, che è invece fenomeno esistenziale e 
                        morale.  
                        Ora, certamente, il 
                        dolore produce sofferenza, ma la sofferenza non è 
                        direttamente proporzionale al dolore. Per esempio, un 
                        dolore lieve di cui non si conosce l’origine, creando 
                        apprensione, fa soffrire di più di un dolore, magari più 
                        intenso, di cui però si conosce la causa. Il grado di 
                        sopportabilità del dolore e della sofferenza, inoltre, 
                        dipende dal senso che si attribuisce al proprio 
                        soffrire. Chi percepisce il significato e il fine del 
                        proprio dolore è più facilmente disposto a soffrire di 
                        chi, invece, è costretto a sopportare un dolore 
                        considerato privo di senso. In effetti il soldato in 
                        battaglia così come la partoriente in travaglio 
                        sopportano relativamente bene il dolore, poiché lo 
                        soffrono di buon grado in ragione della sua finalità 
                        positiva, quale può essere la difesa della patria o la 
                        nascita di un bambino. 
                        Viceversa, un dolore magari oggettivamente meno intenso 
                        di quello di una partoriente, provato però da un malato 
                        di cancro o da un paziente anziano, provoca maggiori 
                        sofferenze perchè è vissuto come presagio di una fine 
                        imminente. Da questo punto di vista si deve dire che, 
                        nel nostro paziente-tipo, dolore fisico e sofferenza 
                        morale sono talmente intrecciati che spesso è 
                        impossibile considerarli separatamente. 
                        Come è risaputo, il 
                        tentativo più ampio e più organico di prendere sul serio 
                        il dolore e la sofferenza del malato, in particolare del 
                        malato terminale, è rappresentato dalla medicina 
                        palliativa, promossa soprattutto per iniziativa 
                        dell’Hospice Movement, un movimento culturale 
                        sviluppatosi in Inghilterra negli anni Sessanta. I 
                        sostenitori dell’Hospice movement riferiscono di 
                        molti pazienti che, inizialmente tentati di chiedere 
                        l’eutanasia, una volta sottoposti a un adeguato piano di 
                        cure palliative non hanno più desiderato la morte. 
                        I farmaci analgesici di cui disponiamo oggi, in effetti, 
                        risultano efficaci nel 95% dei casi e nel restante 5%, 
                        se la situazione è grave, è pur sempre possibile, previo 
                        consenso, sedare il paziente. 
                        Ci si potrebbe domandare allora come mai l’eutanasia 
                        continua a essere rivendicata come una possibile 
                        soluzione se il dolore fisico oggi può essere alleviato 
                        efficacemente. 
                        Gli stessi promotori del 
                        “diritto di morire” riconoscono che la richiesta di 
                        eutanasia non dipende esclusivamente dall’intensità dei 
                        dolori e dei disagi fisici, ma anche – e soprattutto – 
                        dal modo in cui tali disagi sono vissuti e sofferti. 
                        Questi disagi, al di là del dolore, possono creare una
                        sofferenza che colpisce nel profondo tutta la 
                        persona e che è legata «alla percezione del progressivo 
                        degradarsi delle proprie condizioni di vita, alla 
                        mancanza di controllo e di autonomia, al dipendere da 
                        altri persino nell’espletamento delle più elementari 
                        esigenze fisiche». 
                        È comprensibile, di conseguenza, che anche un malato 
                        curato intensivamente e nel migliore dei modi possa 
                        percepire come inaccettabile la propria condizione e 
                        possa soffrirne a tal punto da giudicarla insostenibile. 
                        Insomma, ciò che il paziente fa più fatica ad accettare 
                        è la perdita della propria autonomia e la 
                        conseguente necessità di dipendere da altri. 
                        La sofferenza, dunque, 
                        contrariamente al dolore, non è soltanto qualcosa che si 
                        prova ma anche qualcosa che mette alla prova, 
                        costringendo colui che soffre a fare i conti con 
                        un’immagine di sé che ormai si sta disfacendo e 
                        provocando a guardare oltre se stessi, alla ricerca di 
                        qualcosa che possa dare un senso alla propria condizione. 
                        Tutto ciò significa che il malato può superare la paura 
                        della solitudine, che spinge alla disperazione e alla 
                        tentazione di farla finita, solo se si decide a 
                        considerare la sua dipendenza dagli altri non come 
                        qualcosa di degradante, ma come uno spazio di 
                        condivisione della propria sofferenza. Come ha scritto 
                        Daniel Callahan, «C’è una grazia preziosa [...] nella 
                        capacità di dipendere dagli altri, di essere aperti alla 
                        loro sollecitudine, di voler poggiare sulla loro forza e 
                        comprensione». 
                        Perché ciò accada, certamente, è necessaria la presenza 
                        e la compagnia di qualcuno che sia capace di autentica 
                        compassione. Compassione che non è solo un generico 
                        sentimento di pietà, come sentire in se stessi dolore 
                        per il dolore dell’altro. L’autentica compassione è 
                        piuttosto la conseguenza del fatto che l’altro per noi è 
                        importante, così importante, che il suo soffrire è il 
                        nostro stesso soffrire. Compatire, allora, significa 
                        dimostrare all’altro che il suo soffrire ci tocca 
                        perché la sua persona è parte di noi. Questo movimento 
                        di immedesimazione nel dolore altrui può suscitare in 
                        colui che soffre un ribaltamento di prospettiva, che lo 
                        porta a vivere la propria sofferenza dal punto di vista 
                        dell’altro, donandole un senso. Alcuni malati, per 
                        esempio, accettano di sopportare coraggiosamente i loro 
                        patimenti per evitare che le persone amate possano 
                        soffrire nel vedere soffrire il proprio caro. In effetti 
                        veder soffrire fa soffrire e a volte saremmo più 
                        disposti a rassegnarci se a patire fossimo noi piuttosto 
                        che la persona amata. 
                        Possiamo dire, dunque, che mentre il dolore separa, 
                        essendo provato solo da colui che lo sperimenta 
                        fisicamente, la sofferenza, potendo essere moralmente 
                        condivisa, può anche unire. Così, se chi soffre «si 
                        sente importante per qualcuno, anche se soffre, ha 
                        motivi di vivere», se invece «non si sente importante 
                        per nessuno», allora non ha più futuro e «può chiudere 
                        la sua partita».
                         
                          
                                     
                        5. Quale buona morte? 
                          
                        Come abbiamo visto, i 
                        principali argomenti a favore dell’eutanasia risultano 
                        problematici. In primo luogo c’è la difficoltà di 
                        dimostrare che la richiesta di eutanasia sia 
                        effettivamente autonoma. In secondo luogo, anche qualora 
                        si fosse riusciti a dimostrare che tale richiesta è 
                        frutto di una scelta autonoma, ciò non implica che 
                        esaudirla corrisponda al bene del paziente, così come 
                        consegnare stupefacenti a un adolescente in perfetta 
                        salute non è un bene solo perché il ragazzo ha deciso 
                        autonomamente di assumerli in ragione della sofferenza 
                        che l’astinenza gli impone. Infine, anche se si 
                        riuscisse a presentare l’eutanasia come un bene per 
                        colui che la richiede, questo non proverebbe ancora che 
                        un altro abbia il dovere di esaudire questa richiesta.
                         
                        Anche gli argomenti che 
                        fanno leva sull’insopportabilità del dolore sono 
                        controversi e non sembrano tenere conto dell’enorme 
                        potenzialità delle medicine palliative, né del fatto che 
                        il problema non è tanto il dolore, quanto il modo in cui 
                        il soggetto lo soffre, e che per questo tipo di 
                        sofferenza ci sono soluzioni umanamente più adeguate 
                        dell’uccisione del malato. Come dimostra l’esperienza, 
                        il desiderio di morire esprime spesso una richiesta di 
                        aiuto da parte di chi si sente ormai dimenticato e 
                        abbandonato. Da questo punto di vista, la richiesta di 
                        eutanasia diventa una forma di protesta contro la 
                        possibile indifferenza di parenti e medici, oltre che un 
                        disperato tentativo di richiamare la loro attenzione su 
                        alcuni aspetti, magari trascurati, della propria 
                        condizione. 
                        La percezione di essere stati abbandonati può essere più 
                        angosciante della stessa morte, che così finisce per 
                        essere desiderata pur di risolvere il proprio dramma. Se 
                        le cose stanno così, allora rispondere alle invocazioni 
                        del malato con un’iniezione letale equivale a un tragico 
                        fraintendimento, e assecondare la domanda di eutanasia 
                        non significa più rispettare la libertà del malato, ma 
                        abbandonarlo proprio nel momento in cui egli ha maggior 
                        bisogno della presenza di qualcuno che sappia 
                        infondergli fiducia e sollievo.  
                        Spesso presentata come 
                        un diritto e come un segno di progresso e di civiltà, 
                        l’eutanasia, da questo punto di vista, si dimostra un 
                        arretramento a usi propri di società primitive. C’è 
                        qualcosa che stona nell’idea che si possa risolvere il 
                        problema della sofferenza eliminando colui che soffre. 
                        Non ci sembra conforme alla dignità di una persona 
                        disperata rispondere alle sue esigenze con un’iniezione 
                        di cloruro di potassio, come se il suo fosse un disagio 
                        puramente chimico. Il malato, in effetti, non è una 
                        macchina che, non potendo essere più riparata, va 
                        eliminata da un medico trasformato in mero tecnico. Il 
                        medico, piuttosto, dovrebbe affrontare la sfida morale 
                        della sofferenza attivando tutte le risorse umane e 
                        professionali di cui dispone, evitando dunque di 
                        trincerarsi dietro una soluzione puramente farmacologica.
                         
                        Esaudire un malato che 
                        ci chiede di farlo morire significa, inoltre, 
                        riconoscere che non abbiamo più niente da dirgli e che 
                        la sua vita non conta più nulla neanche per noi. Forse è 
                        per questo che una morte procurata artificialmente 
                        lascia in chi resta un profondo senso di amarezza e di 
                        turbamento. Una morte naturale, vissuta sul proprio 
                        letto, per quanto gravosa possa essere, irradia invece 
                        una forza misteriosa, essendo «come un’esortazione a chi 
                        resta, perché affronti a sua volta la vita con un 
                        impegno totale». 
                        Certo, può morire così soltanto chi ha qualcosa, o 
                        meglio qualcuno, per cui vivere, così da trovare la 
                        forza e la motivazione, fino alla fine, di comunicare il 
                        proprio messaggio. Si può dire, allora, che una morte 
                        dignitosa è sempre parte di una più ampia e fondamentale 
                        capacità di vivere all’altezza della propria dignità, e 
                        che può morire bene, di un’autentica “buona morte”, solo 
                        chi vive bene.  
                        Come si può notare, chi 
                        rifiuta l’eutanasia non crede che si debba evitare a 
                        ogni costo la morte, la quale anzi deve essere accettata 
                        come un esito inevitabile che, a volte, può essere 
                        perfino desiderato e invocato. Il rifiuto dell’eutanasia 
                        non si fonda, dunque, sul dovere di preservare la vita a 
                        ogni costo, ma sul riconoscimento che la vita di un 
                        uomo, finché egli vive, non è mai assurda. Non si nega 
                        che ci siano casi in cui la sofferenza di un uomo possa 
                        essere tale da indurlo a pensare che sia meglio per lui 
                        morire piuttosto che continuare a vivere. Ma questo, per 
                        coloro che gli stanno accanto, può significare soltanto 
                        impegnarsi a lenire le sue sofferenze e, se si tratta di 
                        un malato in fin di vita, di accompagnarlo verso una 
                        morte serena e dignitosa. In alcun modo, invece, può 
                        significare che sia meglio ucciderlo piuttosto 
                        che lasciarlo vivere ancora.  
                        Chi vuole morire non 
                        vuole mai la morte in sé, ma solo la liberazione dalla 
                        sofferenza. Si può dire, allora, che chi vuole morire 
                        vorrebbe vivere, ma non come vive adesso, bensì sotto 
                        condizioni più accettabili, con il riconoscimento, il 
                        sostegno e l’affetto dell’ambiente circostante. Per 
                        questo una società che si rifiuta di ricorrere 
                        all’uccisione come una soluzione deve anche saper 
                        dimostrare ai suoi anziani e ai suoi malati la 
                        necessaria solidarietà, che renda loro più facile 
                        affrontare la dura prova della sofferenza e della 
                        malattia. Si parla spesso della vocazione umana del 
                        medico, ma c’è anche chi, suggestivamente, ha parlato di 
                        una «vocazione medica dell’uomo», 
                        in forza della quale siamo tutti chiamati alla 
                        solidarietà nei confronti di chi soffre e di chi muore, 
                        solidarietà di cui anche noi avremo bisogno quando sarà 
                        venuta la nostra ora. 
                         
                          
                          
                          
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