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                          G. 
                          Savagnone, 
                           Metamorfosi della persona. Il soggetto umano e non 
                          umano in bioetica, Elledici, Torino (Leumann) 2004, 
                          pp. 126   
                           
                         
                        Questo agile testo di 
                        Savagnone rappresenta, di fronte al magma caotico e 
                        spesso confuso delle dispute bioetiche, una notevole 
                        lezione di lucidità. Il tentativo dell’Autore, che 
                        consiste nel sondare le “ragioni” che si celano dietro 
                        “la logica dello scontro e della condanna sommaria” da 
                        cui spesso il dibattito bioetico è caratterizzato (p. 
                        3), appare, a conclusione della lettura, felicemente 
                        riuscito. Non solo perché la tesi del libro conferma 
                        l’elementare intuizione che ogni essere umano, fin da 
                        quando è custodito nel grembo materno e anche quando è 
                        malato e anziano, è sempre “persona” e, dunque, 
                        destinatario della nostra cura e responsabilità, ma 
                        anche per due semplici ragioni di metodo. La prima è che 
                        l’Autore si è imposto, come è nel suo stile, un 
                        linguaggio chiaro e accessibile, venendo così incontro a 
                        un’esigenza ampiamente diffusa e tuttavia spesso 
                        disattesa, dal momento che i problemi della bioetica 
                        toccano l’esistenza di ciascun uomo e non solo il lavoro 
                        degli specialisti. La seconda ragione consiste 
                        nell’atteggiamento di apertura che l’Autore adotta nei 
                        confronti di posizioni che egli stesso afferma di non 
                        condividere. Che una tale apertura non sia solo 
                        dichiarata ma anche, per così dire, praticata, lo si 
                        evince dalla stessa struttura del testo. Dopo aver 
                        evidenziato la necessità di una riflessione sulla 
                        persona (Introduzione) e aver ricordato che le teorie 
                        bioetiche rischiano, a volte, di “costruire una realtà 
                        parallela” rispetto alle nostre intuizioni morali 
                        (capitoli 1 e 2), l’Autore affronta le principali 
                        concezioni antropologiche del dibattito (capitoli 3, 4, 
                        5, 6). Ad autori come Engelhardt, Singer, Tooley, Reagan 
                        e Rachels i quali, a vario titolo, negano che l’essere 
                        umano goda sempre di un diritto alla vita, Savagnone non 
                        oppone immediatamente, come pure in certi casi si 
                        sarebbe tentati di fare (si pensi alla giustificazione 
                        dell’infanticidio), il concetto di “dignità della 
                        persona”. Piuttosto, egli lascia emergere, ripercorrendo 
                        pazientemente le teorie dei vari autori, non solo le 
                        aporie a cui esse conducono ma anche, e soprattutto, le 
                        loro conseguenze moralmente controintuitive. In tal 
                        modo, la peculiare dignità della vita umana – per 
                        esempio rispetto a quella animale, che pure deve essere 
                        tutelata – affiora per contrasto, lasciando al lettore 
                        la possibilità di appropriarsene criticamente sulla base 
                        di un senso morale che già, per quanto confusamente, la 
                        riconosce. 
                      Solo a questo punto, dopo 
                      aver viaggiato nei luoghi più controversi e provocatori 
                      della bioetica contemporanea, Savagnone ritiene di poter 
                      riprendere la domanda “che cos’è l’uomo?” (capitolo 7). 
                      Una risposta convincente, che cioè sia aderente 
                      all’esperienza che facciamo di noi stessi e degli altri, 
                      esclude che l’uomo si riduca a una qualsiasi delle sue 
                      proprietà, quali l’autocoscienza, il desiderio, la 
                      capacità di soffrire e di provare piacere ecc. L’idea di 
                      Engelhardt secondo cui l’uomo è persona solo a patto che 
                      sia in grado di dimostrarlo attraverso l’esercizio 
                      effettivo di una facoltà (p. 35), lungi dal costituire 
                      l’esito di una descrizione della persona umana in carne e 
                      ossa, equivale a una sorta di ricatto morale nei confronti 
                      della sua condizione temporale. Come mostra infatti la più 
                      elementare fisiologia e psicologia dello sviluppo, 
                      l’essere umano è in continuo divenire e la sua identità 
                      ontologica non può dipendere dalla manifestazione, per 
                      esempio, della coscienza. È vero piuttosto il contrario, 
                      laddove è la manifestazione della coscienza che dipende 
                      dall’esistenza della persona, che rimane tale anche se non 
                      la esercita ancora – nel caso dell’embrione – o non la 
                      esercita più – nel caso del malato in stato vegetativo.
                       
                      La tesi secondo cui ci 
                      sono esseri umani che non sono persone ma semplici 
                      organismi biologici, oltre a implicare conseguenze 
                      pericolose, come quella di credere che un essere umano 
                      abbia diritto alla vita per il grado di sviluppo che ha 
                      raggiunto e non per il semplice fatto di esistere come 
                      uomo, impone anche un’immagine di uomo, quale è quella 
                      dualista, ormai largamente superata. Infatti, le varie 
                      facoltà psicologiche, spirituali e relazionali che gli 
                      autori citati raccolgono sotto il titolo di “persona”, non 
                      fanno riferimento alla corporeità umana. Ma se davvero è 
                      così, saremo costretti ad affermare che l’unità tra il 
                      nostro corpo e la nostra identità personale, dal momento 
                      che l’esercizio effettivo di quelle facoltà non è 
                      costante, si realizza solo occasionalmente e a 
                      intermittenza, e non costituisce un dato originario. In 
                      tal modo, tutti coloro che ritengono che l’embrione non è 
                      persona ma sarà persona, sono costretti a 
                      ipotizzare che a un corpo geneticamente umano si 
                      aggiungerà, mediante una misteriosa sovrapposizione, la 
                      qualità di persona.  
                      A questo proposito, 
                      Savagnone fa notare come molti degli autori che negano che 
                      il feto sia già una persona umana, confondono 
                      sistematicamente il concetto di “potenzialità” con quello 
                      di “possibilità” (pp. 96-101). L’esito di questa 
                      osservazione critica, l’Autore cita qui il filosofo della 
                      scienza Evandro Agazzi, non è, come spesso si dice, che 
                      l’embrione umano è una “persona in potenza” ma “una 
                      persona in atto che, nelle varie fasi del suo 
                      sviluppo, è continuamente in potenza per quanto riguarda 
                      la piena realizzazione delle sue facoltà e proprietà, ivi 
                      compresa la coscienza” (p. 100). 
                      A conclusione della sua 
                      indagine sull’umanità del soggetto in bioetica, Savagnone 
                      si chiede se ci troviamo di fronte ad una sorta di 
                      “eclisse della persona” (capitolo 8). E in effetti, per 
                      riprendere un’idea che il filosofo ebreo Martin Buber 
                      applicava a Dio, si potrebbe dire che la persona non è del 
                      tutto tramontata ma si è solo eclissata. Dunque, rimane. 
                      Magari nella fragile forma di un “grido” che chiede un 
                      perché, come l’Autore propone suggestivamente mediante il 
                      ricorso a figure letterarie e cinematografiche come il 
                      mostro di Frankenstein e il replicante di Blade Runner 
                      (p. 121). Se ne deve concludere che, in ogni intervento 
                      sull’uomo che in nome della scienza o del benessere di 
                      altri uomini lo priva del suo carattere di persona, si 
                      consuma sempre una drammatica violazione. Tale violazione, 
                      spacciata per progresso, segna il trionfo di un mondo in 
                      cui nulla ha senso, se non il cieco desiderio di 
                      oltrepassare quello che, sperimentato come un limite della 
                      propria libertà, si rivela, a uno sguardo più attento, il 
                      segreto della sua più profonda vocazione a farsi carico 
                      dell’umanità dell’altro.  
                        
                         
                                                                                                                                     
                                   
                          Luciano Sesta |  |