|  |  
                          La 
                          vita e l’etica: per una congiunzione bioetica  
                          di 
                           Pietro Cognato* 
                      
                      
                        
                      
                      
                        
                      
                      
                        
                      
                      
                      Introduzione 
                      
                      
                         
                           
                          Scrivere di etica della vita non è tra le imprese più 
                          semplici. Le difficoltà che si incontrano affondano 
                          le loro radici nella complessità del discorso etico. 
                          L’etica della vita e per la vita è, del resto, un campo 
                          sterminato ora paragonabile ad un deserto dove nulla 
                          cresce, ora ad un  mare in tempesta le cui onde 
                          sono sollevate da venti contrastanti. Essa si presenta 
                          problematica a volte nella sua fondazione, a volte nel 
                          suo contenuto. Ma essa è ineludibile. La sua dimensione 
                          risulta onnipresente nella vita degli uomini, nelle 
                          loro attività, nelle loro iniziative. Se scriverne è 
                          difficile, non parlarne è disumano. Come fare? Partiamo 
                          da ciò che ci sembra più certo: della vita bisogna 
                          averne cura.  
                           
                          “Prendersi cura della vita”! Affermazione perentoria 
                          o esortazione? Nuovo slogan pubblicitario o nuova tendenza 
                          socio-culturale? Niente affatto. Semplicemente esigenza.  
                          È 
                          di una esigenza, di questa esigenza, che il presente 
                          contributo tratta. Nient’altro.   
                           
                          Nient’altro si fa per dire perché trattare solo l’esigenza 
                          di curare la vita è un’impresa ardua che richiede grande 
                          senso di osservazione della realtà circostante, un metodo 
                          imprescindibile se si vuole affrontare senza pregiudizi 
                          il mondo dei fenomeni morali.  
                           La 
                          consapevolezza che la vita sia un dono e la sollecitudine 
                          a prendersene cura è uno di questi fenomeni che rendono 
                          tremenda e affascinante l’avventura umana. Sembrerebbe 
                          risultare scontata per molti lettori questa sollecitudine 
                          o, addirittura, molto inflazionata per tanti studiosi, 
                          ma il complicato groviglio di istanze filosofiche, esistenziali 
                          e religiose che ammanta la seria questione del vivere 
                          e del morire non rende mai abbastanza protetto il valore 
                          della vita.   
                           
                           Infatti, occuparsi della vita nella prospettiva 
                          della sua cura significa non poter evitare il rischio 
                          di essere travolti da tutto: dalle concezioni filosofiche 
                          ed esistenziali sulla vita alle personalissime opinioni 
                          sul modo di gestire la propria e la altrui vita, dalle 
                          preoccupazioni immediatamente pragmatiche alle convinzioni 
                          religiose.   
                      La 
                      vita quando sboccia inizia il suo cammino non privo di 
                      pericoli e di minacce. È sotto gli occhi di tutti la 
                      grande sfida lanciata dal mondo sulle sorti dell’umanità. 
                      La vita stessa come valore, oggi, è rilanciata dalla 
                      grande ondata di riflessioni che si muove sulla linea 
                      della cosiddetta “qualità” laddove in nome della medesima, 
                      la linea opposta, quella della “sacralità”, ritiene, 
                      invece, che venga continuamente offesa ed uccisa nella sua 
                      dignità. In questa e in  altre presunte contraddizioni il 
                      valore della vita viene risucchiato e maltrattato, 
                      sbocciato da un punto all’altro delle costellazioni 
                      interpretative come una pallina di biliardo. Le 
                      contrapposizioni indeboliscono la cura che alla vita è 
                      dovuta, soprattutto allorquando esse sono annose e 
                      pretestuose.  
                      E per 
                      questo è perfettamente auspicabile che negli anni a venire 
                      gli uomini, i filosofi, i teologi e gli intellettuali in 
                      genere si impegnino ad affrontare certe problematiche che 
                      rientrano nell’alveo della, ormai, famosa e, per certi 
                      versi, famigerata riflessione bioetica. E, appunto, sotto 
                      la spinta di questo auspicio il presente contributo compie 
                      i primi passi. 
                       In 
                      esso ci siamo prefissati di procedere per tappe ben 
                      precise concatenate tra loro al fine di raggiungere una 
                      serie di obiettivi altrettanto precisa: mostrare come il
                      prendersi cura della vita scaturisce dall’esigenza 
                      stessa del valore vita; come tale sollecitudine deve 
                      difendere a spada tratta la vita e, al contempo, creare 
                      quelle condizioni socio-culturali per riabilitare 
                      l’esperienza della  morte nell’esperienza della  vita; 
                      come, inoltre, nella riflessione sull’etica della cura 
                      della vita deve rientrare a pieno titolo in modo consono 
                      il discorso teologico, soprattutto se pensiamo alla 
                      salutare chiarezza di cui necessita il nostro paese nel 
                      quale sono una realtà di fatto i miriadi di dibattiti 
                      mediatici ed accademici appesantiti quasi inevitabilmente 
                      da una bipolarizzazione tra cattolici e laici in seno alle 
                      soluzioni morali, con la conseguente assenza di 
                      riflessioni distese e intente a ricercare la verità.  
                          In altre parole e in maniera più analitica l’obiettivo è quello di focalizzare 
                          per bene l’argomentazione unica che sta a fondamento 
                          del significato valoriale della vita e dell’esigenza 
                          che nasce da esso, dimostrando la falsità di alcune 
                          altre argomentazioni molto spesso addotte, da una parte, 
                          e giustificando, di contro, la cura che alla vita si 
                          deve, tenendo a debita presenza i vari contesti e le 
                          diverse prospettive con le quali si inquadra la problematica. 
                          Il presupposto sotteso a questa riflessione etica è 
                          il concetto di razionalità etica, quale capacità posseduta 
                          da tutti gli uomini di leggere nella stessa realtà l’orientamento 
                          etico da imprimere all’esistenza.  Tale consapevolezza 
                          presupposta, a sua volta, giustifica una ben precisa 
                          configurazione teologica del discorso sul prendersi 
                          cura della vita,   mostrando come tale configurazione 
                          non aggiunge un di più normativo a quanto già è possibile 
                          carpire con la sola ragione, bensì reinterpreta la suddetta 
                          razionalità etica come volontà creatrice di Dio e la 
                          ripresenta attraverso il proprio tessuto simbolico religioso. 
                          In questa maniera, riflettere teologicamente sull’etica 
                          della vita non comporterà dal punto di vista normativo 
                          un’aggiunta o un ridimensionamento, in quanto l’esigenza 
                          stessa  di una giustificazione razionale è contenuta 
                          nella riflessione etica sopra sviluppata. 
                        
                        
                      
                      
                      1.     
                      La vita  
                      
                      
                       1.1. Il problema della sua definizione 
                      Non 
                      molto tempo fa ci siamo imbattuti nella lettura 
                      dell’introduzione ad un testo di biologia, nella quale 
                      venivano enucleati le varie caratteristiche degli esseri 
                      viventi. Alla fine di questo elenco, gli autori così 
                      pressappoco concludevano: i biologi non si sono mai posti 
                      l’interrogativo circa il significato della vita, ma 
                      semplicemente hanno sempre osservato gli esseri viventi, 
                      il fatto che essi esistono, si muovono, si riproducono e 
                      si estinguono.Questa 
                      conclusione, peraltro coerente vista la fonte dalla quale 
                      l’abbiamo appresa, è molto indicativa ed istruttiva su una 
                      verità evidente: ogni qualvolta l’uomo circoscrive un 
                      oggetto per conoscerlo, lascia che sia l’oggetto stesso a 
                      stabilire le modalità di approccio, il metodo e il 
                      linguaggio. 
                          L’oggetto di un testo 
                          di biologia è sicuramente la vita, ma più precisamente 
                          gli esseri viventi. Ma, aggiungiamo, e ne siamo convinti, 
                          che anche un testo di storia ha come oggetto la vita, 
                          in particolare quella dei più potenti. E così potremmo 
                          continuare ad elencare rimanendo disorientati in un 
                          mare come quello della vita, di tutta la vita. Ci chiediamo 
                          come parlare della vita, quali argini stabilire per 
                          evitare di parlare di tutto e anche di niente.   
                          La prima difficoltà 
                          che si incontra è quella riconducibile al fatto che 
                          la nozione di vita è approfondita sia dall’indagine 
                          scientifica sia da quella filosofica, la prima rivolta 
                          ad intendere la vita come attività vitale, come nel 
                          caso della biologia; la seconda, invece, intenta a determinare 
                          l’ultima natura o il primo principio di essa. Le due indagini, però, non sono così divergenti 
                          in ultima analisi se pensiamo che la definizione di 
                          vita più antica e perfettamente accettata dalla scienza 
                          è stata coniata da un filosofo: «Tra i corpi naturali, 
                          poi, alcuni possiedono la vita ed altri no; chiamiamo 
                          vita la capacità di nutrirsi da sé, di crescere e di 
                          deperire». La nozione di vita, inoltre, oltre ai problemi 
                          di ordine ontologico-fondamentale come questi suddetti, 
                          prospetta tutta una serie di altri problemi ove la vita 
                          è studiata contestualizzandola nella problematica dell’uomo, 
                          della sua esistenza e della sua storia.  
                          A prima vista, insomma, 
                          definire in ordine alla vita se prima facie risulta 
                          facile a tutti in quanto chi può su di essa riflettere 
                          è da essa stessa animato, in seconda battuta proprio, 
                          a nostro avviso, la stessa sua evidenza e la coscienza 
                          di essa per chi la possiede determina una pluralità 
                          di prospettive, di visioni e di idee. Di fronte agli 
                          interrogativi del tipo che cosa è la vita, in che cosa 
                          consiste veramente il vivere, non c’è che rimanere sempre 
                          nel raggio d’azione dell’approssimazione e mai della 
                          definitività.  
                          Traslando uno slogan 
                          jovanottiano, ci pare che l’approssimazione delle risposte 
                          di fronte alla vita sia dovuta al fatto che «nel momento 
                          in cui hai trovato una definizione da dare alla vita 
                          e al vivere, esse sono già cambiate». È il movimento 
                          che dice molto sulla res della vita, movimento 
                          come capacità e potenza di essere e di agire. A fronte 
                          di questa dinamicità che contrassegna il vivere, il 
                          linguaggio zoppica o, meglio, non può che essere consapevole 
                          del fatto che la verbalizzazione del vivere sposta sempre 
                          più in là l’esperienza stessa del vivere rispetto a 
                          quanto di essa possiamo dire.  
                          Ci sembra molto significativo 
                          quando, leggendo alcuni frammenti del primo filosofo noto a tutti, l’elemento naturale dell’acqua 
                          è preso in seria considerazione ma non è assunto – la 
                          storia della filosofia ne è consapevole – solo nella 
                          sua materialità. Cioè, l’acqua è quell’elemento le cui 
                          proprietà sventagliano una pletora di significati, allusioni, 
                          impressioni ed intuizioni, tutti riconducibili alla 
                          vita. Nell’osservazione del macrocosmo il filosofo ha 
                          cercato il principio primo, costruendo impalcature ilozoisticheche hanno fatto da ponte per tutta la grecità. 
                          Ma, scorgendo un microcosmo dentro il macrocosmo, Socrate ha dato il via ad un’osservazione introspettiva 
                          che ha oscillato per tutta la vicenda parabolica dell’occidente 
                          tra il meccanicismo, che ostenta una concezione della vita come 
                          autonoma, ed il volontarismo, che ostenta una concezione della vita come 
                          affermazione di se stessa.  
                           La vita, pertanto, 
                          appare sempre la stessa e sempre diversa. Non pensiamo 
                          di sbagliare se ci limitassimo a dire che essa è capacità 
                          o proprietà fondamentale. O se dicessimo che essa è 
                          un fenomeno, ovvero dato certo, ovvio e incontrovertibile. 
                          Oppure che essa è significato e senso, anche se non 
                          del tutto afferrabili. Proprio perché non si è in grado di dire 
                          tutto della vita, essa rimane un mistero da esplorare, 
                          o meglio, da contemplare. E la sua contemplazione non è staticità, 
                          ma presa sempre più di coscienza della necessità di 
                          cogliere la sua fondamentalità, e per questo di proteggerla, 
                          di custodirla e di promuoverla, perché intuitivamente 
                          è ragionevole l’assunto secondo il quale «è preferibile 
                          vivere che non vivere». La sua fondamentalità, il suo possesso 
                          da parte di tutti e le difficoltà di parlarne a pieno 
                          si traducono sempre nella grande possibilità di narrare 
                          più che descrivere la vita. Filosofeggiare sulla 
                          vita è un approccio, e lo abbiamo visto, ma narrare 
                          è una grande possibilità, quella di trasformare il limite 
                          del linguaggio in forza evocativa e chiarificatrice 
                          di concetti intuiti e in via di elaborazione. Narrare la vita è chiarire meglio quello 
                          che già tutti vivono o hanno vissuto o vivranno.  
                          Pensiamo, per esempio, 
                          alla vita narrata nella forma del sublime romanticocome l’avventura in un mare in tempesta o 
                          sotto una notte stellata, come la consapevolezza che 
                          c’è al di là di ciò che vedono la ragione e i sensi 
                          un mondo infinitamente più vasto e più vero. Oppure 
                          alla vita come arte che diventa lo specchio della personalità 
                          riflessa nelle pagine di sfogo, di effusione e di confessione 
                          di miriadi di diari autobiografici. O, ancora, ai personaggi 
                          di Victor Hugo, divisi tra il bene e il male, viventi 
                          nel contrasto e nel dramma di quel movimento vibrante 
                          date dalle linee e dalle ombre della sua Notre Dame. 
                          Ma questo è solo un assaggio quando si narra la vita! 
                            
                          Essa, a volte, è stata 
                          vissuta fuggendo nei paradisi artificiali beaudelaireani 
                          o in un passato à  la 
                          Recherche du temps perdu 
                          proustiano. Altre volte essa si è identificata con il 
                          male da evitare, ricordando Pavese, o come continuo 
                          esercizio di esorcizzazione pascoliana del suo precario 
                          svolgersi o, altresì, come un dovere kafkiano schiacciante. 
                          La vita, altre volte, si è rifugiata nei sogni e/o negli 
                          incubi, sdoppiandosi nella figura del dr. Jekill e del 
                          sig. Hyde oppure si è identificata ora nel decoro e 
                          nella moderazione di Elinor, ora nella passione e nell’ardore 
                          intellettuale di Marianne.  
                          Altre sfumature la vita 
                          acquista se l’attenzione si sposta su chi la vita la 
                          vive. Pensiamo alla vita vista dagli occhi di un adolescente, 
                          come il Torless musiliano o il Werther goethiano, entrambi 
                          accomunati da turbamenti e dolori; o la vita vista dagli 
                          occhi di una donna volta alla ricerca dell’autonomia, 
                          costretta a districarsi in una condizione matrimoniale 
                          subita, come i personaggi di George Eliot e Simon de 
                          Beauvoir. Per non parlare di quel fondo melmoso e insondabile 
                          dell’animo dei personaggi dostoevskijani, caratterizzati, 
                          tutti, da ambivalenza ed ambiguità, tormentati dai dubbi, 
                          dalle idee e dai sentimenti; o di quella metamorfosi 
                          spirituale dell’Ivan Ilic tolstojano di fronte alla 
                          morte; o, ancora, della vita imbrigliata dalla logica 
                          della roba di mastro don Gesualdo, e così via. Potremmo, 
                          veramente, continuare all’infinito a focalizzare quell’aspetto 
                          o quell’altro ancora, uno diverso dall’altro, ora la 
                          gioia, ora l’amore, ora il dolore, ora la morte, ma 
                          sempre avremo narrato la vita e chi la vive.  
                          La vita approcciata 
                          filosoficamente o scientificamente non risulta così 
                          evidente nelle sue caratteristiche più profonde come 
                          lo risulta se essa viene narrata, e la motivazione ultima 
                          di ciò sta nel fatto che essa è un valore da tutti posseduto, 
                          e in quanto tale da tutti intuito ma non completamente 
                          verbalizzato. Il valore vita, in quanto valore, supera 
                          le capacità espressive dell’uomo e si presta ad una 
                          ripresentazione particolare sempre più approfondita 
                          e mai del tutto esauriente la sua realtà. Narrare la 
                          vita è, dunque, accogliere la vita con i suoi innumerevoli 
                          particolari, superando di gran lunga il tentativo solo 
                          di descriverla. Narrare è accogliere ed accogliere è 
                          vivere. “Vivere la vita”, a nostro avviso, è l’espressione 
                          più esplicita sulla vita, quella che nel glossario dei 
                          termini retorici corrisponde alla figura etimologica, 
                          secondo cui nello stesso enunciato vi è l’uso di due 
                          parole aventi la stessa radice, come a dire che non 
                          si può che vivere la vita e non si può comprendere 
                          la vita se non vivendola. 
                        
                      1.2. Il contesto 
                      culturale odierno  
                          Benché tutto ciò sia 
                          più che plausibile, a chi si prefigge di riflettere 
                          in maniera più ampia possibile sulla vita non si può 
                          negare la possibilità, oltre che di 
                           narrare, anche di contestualizzare il fenomeno 
                          della vita nel tempo attuale. E’ fuor di dubbio che 
                          la vita nel contesto culturale odierno è fortemente 
                          caratterizzata da un individualismo esasperante e dalla 
                          mancata percezione della predatità e preesistenza di 
                          un piano dei valori.   
                          Dal 
                          punto di vista storico-sociale 
                          il secolo appena trascorso ha vissuto varie  rivoluzioni 
                          di natura economica, sociale, culturale e politica che 
                          hanno, tutte, provocato una crisi delle credenze e dei 
                          presupposti sui quali la società moderna si era fondata, 
                          ossia una crisi dei presupposti umanistici e razionalistici 
                          condivisi sia dal capitalismo sia dal comunismo. Tutti gli eventi, il declino inesorabile 
                          della classe contadina, il tracollo della classe operaia, 
                          il movimento emancipatore delle donne e il movimento 
                          universitario, hanno come comune denominatore la perdita 
                          di un modo di vivere la vita più comunitario e solidale. 
                          La stessa istituzione familiare viene minata da fattori 
                          molteplici: divorzi, nascite fuori dal matrimonio, nuclei 
                          familiari con un solo genitore, tutti fattori riconducibili 
                          ai mutamenti notevoli circa i modelli pubblici che regolavano 
                          la condotta sessuale, il rapporto di coppia, la procreazione. Questi cambiamenti aprono la strada ad 
                          una adesione pubblica a ciò che fino ad allora era stato 
                          proibito, e tutto ciò si riconduce al crollo del controllo 
                          sociale. A partire già dagli anni ’70 le rivoluzioni 
                          sono avvenute sotto la bandiera del trionfo dell’individuo 
                          sulla società. Dice bene Hobsbawn quando afferma: «non 
                          c’era più una comunità che potesse prendersi cura di 
                          loro». Proprio questo venire meno della responsabilità 
                          di ognuno di prendersi cura dell’altro, 
                          della vita dell’altro, è il punto centrale di quello 
                          che vogliamo evidenziare. E non c’è terreno di constatazione 
                          migliore di questa poca responsabilità nei confronti 
                          della vita che lo 
                          scenario tremendo ed affascinante allargato a 
                          dismisura dai passi compiuti dalla scienza medica. Oggi, 
                          leghiamo al termine genetica la parola ingegneria senza 
                          sognare alchimie mai realizzabili, ma di realtà quotidiana. 
                          Gli sviluppi della genetica e della tecnica, infatti, 
                          hanno migliorato l’agricoltura e l’allevamento, hanno 
                          allargato gli orizzonti della farmacologia, ma, soprattutto, 
                          hanno aperto un ampio e complesso, a volte drammatico, 
                          dibattito circa i limiti e la liceità di una serie di 
                          interventi resi possibili dalla scienza. Oggi si parla di biotecnologie, di biodiritto 
                          e di bioetica. Proprio la bioetica è diventata il terreno 
                          comune nel quale si incontrano e si scontrano le diverse 
                          matrici culturali sulla vita del nostro tempo nel momento in cui affronta 
                          i problemi che derivano dalla generazione della vita 
                          nelle varie forme di procreazione assistita o quelli 
                          che investono le possibilità di riproduzione della vita 
                          come nella clonazione.  
                             Da qui 
                          il disagio e l’inquietudine in un contesto di trionfi 
                          scientifici, il desiderio di maternità in un mondo dove 
                          milioni di bambini muoiono di fame o vengono uccisi 
                          prima di vedere la luce, la volontà di istituire a tutti 
                          i costi una famiglia anche senza i presupposti offerti 
                          dall’eterosessualità in una mentalità divorzista. Tutto 
                          questo è spia di un modo di concepire la vita e anche 
                          di viverla solo individualisticamente. La disintegrazione 
                          dei vecchi modelli delle relazioni umane e sociali, 
                          da cui deriva anche la rottura dei legami tra le generazioni, 
                          fenomeno questo caratterizzante il nostro tempo, è il 
                          risultato a cui i vari avvenimenti del secolo XX abbia 
                          apportato, e  che costituisce la causa genetica 
                          di un cambiamento radicale del pensiero e della prassi 
                          riguardanti la vita sociale e personale. Il mutare dei 
                          tempi identificato, nella fattispecie, con il crollo 
                          del controllo sociale e con il trionfo dell’individualismo 
                          non sono, però, le uniche cause.  
                             Dal 
                          punto di vista filosofico-pratico per i più il nostro 
                          tempo è caratterizzato dalla necessità di  continue 
                          interpretazioni della realtà, per il fatto che essa 
                          è complessa e poco gestibile da una ragione onnicomprensiva. Questa complessità porterebbe all’evidenza 
                          di una frammentarietà, riflesso del fronte antimetafisico, 
                          le cui matrici intellettuali sono riconducibili alle 
                          figure di Nietzsche e Heidegger. Nel tempo attuale, dunque, risulta pacifico 
                          che la metafisica è stata superata e che ricercare un 
                          principio primo regolatore del nostro vivere sia assolutamente 
                          fuori luogo, addirittura non scientifico né filosofico, 
                          ma solo religioso. Ciò che è venuta meno è la capacità 
                          teoretica di cogliere dei principi che possono rendere 
                          meno problematica l’esistenza. L’ermeneutica nella forma 
                          di quello che oggi viene indicato con l’espressione 
                          “pensiero debole”, la negazione delle visioni onnicomprensive 
                          e il nichilismo sono le più significative decostruzioni 
                          all’interno dello scenario filosofico attuale. Le ripercussioni 
                          sul modo di concepire la vita non sono indifferenti 
                          perché la ragione è stata privata della capacità di 
                          percepire e fondare domande di senso e di valore ed 
                          è stata conseguentemente imprigionata nella cella della 
                          strumentalità e della calcolabilità. In tal modo la 
                          vita e la verità di essa, mi sembra vengano assolutamente 
                          eluse da un pensiero che dice che c’è solo il nulla, 
                          e nient’altro. Un pensiero che non riesce a formulare 
                          domande di senso sulla vita, sull’esistenza è quello 
                          che non ascolta la realtà stessa e procura danni incalcolabili. 
                          Questi sono più evidenti se dalla liquidazione del problema 
                          Dio e della fondazione razionale della verità si passa 
                          alla debolezza o leggerezza che il problema morale oggi 
                          sta acquisendo.  
                          Infatti, la decostruzione 
                          filosofica di cui abbiamo detto non si arresta solo 
                          nell’alveo della teoreticità. L’impossibilità della 
                          ragione di raggiungere la verità, di non oltrepassare 
                          i limiti della finitudine e di rimanere vittima della 
                          sua stessa debolezza, si traduce, in pratica, nell’esistenza 
                          retta da un consenso sempre provvisorio e revocabile 
                          secondo come le situazioni si presentano. L’indebolimento della ragione è in seno 
                          alla problematica morale la causa del relativismo imperante 
                          della nostra società, vale a dire l’impossibilità di 
                          conoscere e di affermare i valori. 
                      È 
                      innegabile quanto questo sia vero! Quanto i filosofi hanno 
                      detto, tanto il modo di percepire eticamente ha subìto, 
                      plasmando modi di fare e mentalità. A causa 
                      dell’indebolimento della ragione e dell’avanzamento dello 
                      scetticismo in ogni campo è rimasto spazio solo 
                      all’autoaffermazione del soggetto nel suo solitario mondo 
                      di significati convenzionali e consensuali, e ciò in campo 
                      etico si è tradotto in un soggettivismo dei valori morali 
                      nella vita della gente, causa, a sua volta, di tensioni e 
                      di smarrimenti tra libertà individuali.  
                          Il 
                          terreno di scontro della percezione di valori diversi 
                          è naturalmente la vita umana nella sua integralità, 
                          dai primi stadi dello zigote agli ultimi istanti del 
                          malato terminale. Ecco perché il campo della bioetica 
                          diventa, oggi, il tavolo di laboratorio, dove vengono 
                          monitorate le convinzioni morali dei singoli. Oggi si 
                          vive e si intende in modo individualistico l’autonomia, 
                          in modo relativistico la qualità della vita, la tolleranza 
                          e il pluralismo. In altre parole, l’uomo, oggi, dà alla 
                          sua vita degli orientamenti che nascono e muoiono all’interno 
                          di scelte individualistiche opponendosi anche aggressivamente 
                          ad ogni ordine naturale o di fede, in nome della libertà. 
                          L’idea di ordine morale oggettivo è causa di allergie 
                          collettive e di malesseri o di riso. Il singolo uomo 
                          sceglie solo per conto proprio ciò che ritiene più conforme 
                          al proprio bene, bene che attiene al vivere e al morire. 
                          Questo individualismo è solo capace di leggere il  
                          fenomeno morale come insieme di tradizioni culturali, 
                          sociali, di uso e costumi e di codici socio-culturali 
                          e non come regno ideale dei valori. Inoltre il fatto che si pensi che il fenomeno 
                          morale sia solo oggetto possibile di una descrizione 
                          esclude in partenza un modo di porsi analitico sull’ethos 
                          vigente. 
                      Questo 
                      attuale intendimento del fenomeno morale è, a nostro 
                      avviso, il terreno di approdo di quella parabola 
                      novecentesca che presenta un repentino susseguirsi di 
                      disintegrazioni dei vecchi modelli delle relazioni umane e 
                      sociali, di scoperte sconvolgenti nel campo della scienza 
                      e della tecnica e di decostruzioni filosofiche. Se questi 
                      fenomeni di disintegrazione, scoperte nuove e 
                      decostruzioni sono le cause genetiche di un cambiamento 
                      radicale del pensiero e della prassi riguardanti la vita 
                      sociale e personale dell’odierno contesto culturale, il 
                      fenomeno morale attuale, inteso solo come ethos 
                      socio-culturale, è l’osservatorio privilegiato per 
                      individuare il quid qualificante tutta la cultura 
                      contemporanea, ossia la non più percezione della 
                      dimensione valutativa che orienti e innervi le scelte 
                      della vita, di una vita.  
                        
                      2. 
                      Il valore vita 
                      
                      Contrariamente a quanto oggi si pensa, è fondamentale 
                      nell’uomo la capacità di sentire i valori, di comprendere 
                      il fatto che tutto ciò che nel mondo gli riguarda appare 
                      riferito ai valori. E la forma in cui appare questa 
                      relazione è la sua posizione nei confronti della realtà 
                      che lo circonda sia in termini di sentimento sia in 
                      termini di parola e/o di azione. 
                      Ma, 
                      l’uomo non è solo capace di percepirli bensì anche di 
                      percepirli nella loro distinguibilità. Percepire i valori 
                      senza saperli distinguere l’uno dall’altro in termini di 
                      fondamentalità o di importanza significherebbe non 
                      riuscire mai a trovare la soluzione alla legittima 
                      domanda: “che fare”?  
                          Stando 
                          alla discriminante tra il valore morale e i valori non 
                          morali, quale è la volontà della persona umana, e alla classica distinzione dell’uno dagli 
                          altri,  la vita non può essere il valore morale, 
                          cioè ciò verso cui tendere sempre, comunque e dovunque 
                          con la volontà. Se la vita fosse il valore morale, quindi 
                          il valore sempre da preferire in ogni circostanza, ovvero 
                          se fosse il valore più alto tra i valori non potremmo 
                          annoverare il martirio come un’azione morale. Ci chiediamo 
                          come sarebbe stato possibile nell’ottica della fede 
                          contemplare la volontà di farsi uccidere in nome di 
                          Dio, se Dio stesso, bontà infinita, fosse contrario 
                          a tutto ciò. Il martirio non risulterebbe l’unica azione 
                          incomprensibile. Anche le cosiddette eccezioni alla 
                          sacralità della vita, come uccisione per legittima difesa, 
                          pena di morte, guerra giusta e rischio per la proprio 
                          incolumità, non potrebbero trovare alcuna giustificazione 
                          fuori dalla considerazione secondo la quale la vita 
                          non è un valore morale. Dire che la vita non è un valore 
                          morale significa che essa non è un valore assoluto, 
                          pur rimanendo un valore. È proprio tra i valori non 
                          morali che la vita deve essere ben compresa. Mentre 
                          essa non è il più alto valore in relazione al valore 
                          morale, è certamente il valore più fondamentale in relazione 
                          ai valori non morali. In etica, allora, la vita deve 
                          essere custodita, preservata, difesa in quanto valore 
                          non morale il più fondamentale. Questo significa che 
                          negli svariati e complessi contesti normativi il valore 
                          vita se entra in concorrenza con altri valori non morali 
                          deve essere sempre preferita, cioè deve avere la precedenza 
                          su tutti gli altri. Valore fondamentale più di tutti 
                          gli altri significa che se non si agisce per preservare 
                          la vita dai pericoli, abusi, soprusi e quant’altro si 
                          mette a repentaglio la realizzazione di tutti gli altri 
                          valori non morali ed anche del valore morale. Senza, 
                          infatti, vita non è possibile realizzare nessun altro 
                          valore e poiché l’uomo ha il diritto-dovere di realizzarsi 
                          come soggetto morale, a lui bisogna sempre dare questa 
                          grande possibilità. Oltraggiare la vita, peccare contro 
                          di essa, misconoscere il suo valore, significa proprio 
                          privare l’uomo della sua stessa realizzazione. 
                      Questo 
                      rapporto di fondamentalità che il valore vita deve 
                      assumere nel quadro valoriale di riferimento deve 
                      orientare tutti i dibattiti nei quali la vita come valore 
                      è direttamente coinvolta, senza avere la necessità di 
                      trincerarsi dietro vessilli e manifesti che dicono poco o 
                      niente sul corretto modo di argomentare in etica e si 
                      limitano solo ad affermare.  
                      
                      Percepire la fondamentalità del valore vita in rapporto a 
                      tutti gli altri beni e la sua non assolutezza visto il 
                      valore morale della bontà della persona aiuta a rileggere 
                      il rapporto tra concezione sacrale della vita e concezione 
                      qualitativa della vita, oggi spesso considerate come 
                      alternative e inconciliabili. Le argomentazioni che 
                      portano a promuovere la qualità della vita non si 
                      scontrano con quelle che pretendono di fondarne la 
                      sacralità, se consideriamo le due categorie, 
                      qualità-sacralità, come punti di vista diversi che possono 
                      perfettamente integrarsi reciprocamente. I due punti di 
                      vista o le due categorie, insieme, focalizzano, alla luce 
                      della fondamentalità del valore vita, il rapporto della 
                      vita con tutti gli altri beni e la caratteristica di 
                      fondamentalità di cui il valore vita gode. La qualità, in 
                      altre parole,  fa riferimento al rapporto del valore vita 
                      con tutti gli altri valori non morali, i quali dovrebbero 
                      arricchirla e, pertanto, renderla veramente degna di 
                      essere vissuta al fine di realizzare anche il valore 
                      morale; la santità, invece, mette l’accento sulla 
                      fondamentalità del valore vita rispetto a tutti gli altri 
                      beni. La caratteristica di fondamentalità e il suo 
                      inevitabile rapporto con i valori non morali e con il 
                      valore morale non sono assolutamente separabili. Finché 
                      distinguiamo il processo che porta ad affermare la qualità 
                      della vita da quello che porta ad affermarne la sacralità 
                      non stiamo facendo altro che riflettere scientificamente 
                      sui due aspetti del valore vita: il suo rapporto con gli 
                      altri beni e la sua fondamentalità. Oggi i due processi, 
                      l’uno che porta all’affermazione della “santità”, l’altro 
                      alla “qualità”, non possono che essere inconciliabili 
                      visto che se il primo può essere ricondotto alla figura 
                      argomentativa di tipo deontologico, quindi avente come 
                      fine ultimo quello di formulare una norma, il secondo è 
                      riconducibile ad un modo di procedere relativistico, 
                      perché viene esclusa ogni forma di rimando ad un ordine 
                      morale oggettivo, quindi non viene realizzato in nome 
                      della qualità lo stesso valore vita e lo stesso valore 
                      morale. Allora, il procedere alternativo, santità o 
                      qualità, risulta, alla luce della percezione del rapporto 
                      di fondamentalità del valore vita con tutti gli altri 
                      valori non morali, relativistico.  Ma, il procedere 
                      alternativo di tipo relativistico si insinua sempre anche 
                      in altri ambiti della vita personale e sociale allorché 
                      non è chiara la fondamentalità del valore vita e la sua, 
                      al contempo, non assolutezza. Per fare degli esempi basta 
                      riprendere qualche caratteristica del tempo attuale sopra 
                      menzionata. Quante volte, infatti, la libertà è 
                      contrapposta alla vita nel contesto di un’interruzione 
                      volontaria della gravidanza? Quante volte la propria 
                      realizzazione viene fatta contrastare con l’istanza 
                      morale? Quante volte l’antropocentrismo etico è scambiato 
                      per individualismo? Quante volte, ancora, la tolleranza è 
                      scambiata e confusa con il relativismo etico? 
                        
                      3.  
                      Esigenza del valore vita: “care”  
                           
                          Percepire la fondamentalità della vita è un po’ dire 
                          diversamente quanto è contenuto sinteticamente nell’affermazione: 
                          «è meglio vivere che non vivere». E’ preferibile vivere 
                          perché in esso trasborda un senso, ciò per cui non comprendiamo 
                          chi decide di suicidarsi, ciò per cui vale sempre la 
                          pena sobbarcarsi di fatiche e di delusioni, di sconfitte 
                          e di dolori. La fondamentalità della vita, diremmo, 
                          è il suo senso, che non si limita nella misura di conquiste 
                          materiali, ma nella dedizione a ciò che si intuisce 
                          essere buono, giusto, meritevole. La sua fondamentalità 
                          che concilia sacralità e qualità è ciò che indichiamo 
                          anche con il termine dignità. La vita è degna di essere vissuta, 
                          ha una sua dignità. La dignità è il suo valore e ciò 
                          è la cosa più fondamentale. Il valore del vivere è dunque 
                          radicale ed indipendente dalle stesse qualità materiali 
                          del vivere, e questo lo diciamo per evitare che si fraintenda 
                          la stessa fondamentalità. Dire che il valore vita è 
                          il più fondamentale perché proprio se c’è vita è possibile 
                          realizzare tutti gli altri valori non significa ritenere 
                          il valore vita come strumentale. Significa, al contrario, 
                          che la vita è il luogo dove i valori si inabitano, compreso 
                          quello morale. Dice bene Cattorini:«la vita non è oggetto 
                          che possiedo, ma realtà che sono», soprattutto realtà morale. La percezione 
                          della dimensione valutativa, dunque, deve muovere l’uomo 
                          ad assumere tutta la sua responsabilità nei confronti 
                          della vita, nonché tenere sempre presente la sua dignità. 
                            
                           
                          Dignità, fondamentalità, qualità e sacralità, ci sembra 
                          dicano aspetti e assumano prospettive, tutti generati 
                          dall’esigenza che la stessa vita richiede, quella di 
                           prendersi cura di essa. La vita esige per il 
                          senso che possiede in sé la predisposizione di ognuno 
                          a prendersene cura. Il termine inglese care distinto 
                          da cure rimarca proprio l’esigenza di prendersi 
                          cura della vita anche là dove non è possibile più una 
                          guarigione. La distinzione è stata molto utilizzata 
                          per cercare attraverso la semantica una identità ben 
                          precisa delle cure palliative, e pensiamo che ancora 
                          c’è molto da fare perché il concetto di cure palliative 
                          sia incisivo culturalmente. Al di là di ciò, qui interessa 
                          rimarcare come la bioetica è tale se proprio si prende 
                          cura della vita, e non solo di quella giunta allo stadio 
                          terminale. È necessario allargare il concetto di 
                          care a tutta la bioetica perché è un’esigenza della 
                          vita, la quale è oggetto della bioetica. È interessante notare come questa esigenza 
                          incida nel tempo e nello spazio prima ancora che la 
                          vita nasca o dopo che essa si sia spenta. Pensiamo a 
                          tutto ciò che precede l’attesa dell’evento di una nascita 
                          oppure a ciò che segue l’ultimo respiro. È necessario farsi carico di questa esigenza 
                          che ha mille sfaccettature, ora della tutela, ora dell’aiuto, 
                          ora della riconoscenza, ora della promozione, ora dell’accoglienza, 
                          ora del rispetto, ora dell’attestazione. Ognuna di esse 
                          potrebbe essere così approfondita da portare in luce 
                          molti elementi di questa esigenza. Ma, tutte sono accomunate 
                          dal criterio unico che costituisce l’avvio per ogni 
                          riflessione etica in campo normativo ovvero l’approccio 
                          imparziale alla realtà. Il  care fondamentalmente 
                          se vuole essere eticamente indirizzato e dimensionato 
                          non può che armarsi di imparzialità. Nel care 
                          assumere il punto di vista della morale non significa 
                          assumere un qualsiasi punto di vista, ora identificabile 
                          con un’idea ora con un’opinione ora con una concezione 
                          particolare, ora con una filosofia di vita o con un 
                          credo religioso. Se fosse così, un punto di vista varrebbe 
                          allo stesso modo di un altro punto di vista e il soggetto 
                          che decide di assumerne uno rispetto agli altri per 
                          leggere la complessa realtà non potrebbe dire ad un 
                          altro soggetto che il suo punto di vista è più giusto. 
                          Il punto di vista della morale  che deve rivestire 
                          il care è un criterio non identificabile con 
                          questa o con quell’altra idea, con questo credo o con 
                          quest’altro. Esso come imparzialità non è identificabile 
                          a niente se non a se stesso, e dunque per nulla scalfibile 
                          da una pretesa soggettiva assoluta suscettibile a prestarsi 
                          facilmente ad una confronto paritetico con un’altra 
                          pretesa soggettiva assoluta. Semplicemente, l’imparzialità 
                          non è stabilita dal soggetto, ma si presenta per quella 
                          che è. Allora, solo nell’imparzialità è possibile promuovere 
                          un’attenzione alla vita in tutte le sue potenzialità; 
                          solo nell’imparzialità è possibile un’autentica accoglienza 
                          della vita; solo nell’imparzialità è possibile realizzare 
                          una tutela alla vita, soprattutto a quella più debole; 
                          solo nell’imparzialità il rispetto della vita e il suo 
                          riconoscimento risultano credibili.   
                           
                          L’imparzialità nel “prendersi cura della vita” fa emergere 
                          la necessità sempre di agire in maniera tale che per 
                          ogni azione compiuta bisogna far valere come criterio 
                          di riflessione e giudizio non soltanto il  “proprio” 
                          interesse ma anche quello degli “altri”. La stessa vita richiede ciò perché nel 
                          rispetto della dignità umana altrui si decide anche 
                          della propria; ma anche la normativa ne trae vantaggio, 
                          e cioè se si passa da una pura individualità, qual è 
                          la parzialità, alla generalità, qual è l’imparzialità, 
                          si ha la possibilità di fondare una norma salda. In altre parole, di fronte ad un contesto 
                          in cui il valore vita è coinvolto bisogna seguire quel 
                          principio che bisognerebbe accettare come regola di 
                          comportamento per tutte le situazioni simili. 
                      Da 
                      quando è stata avvertita l’esigenza di prendersi cura di 
                      tutta la vita, visto l’incombente avanzamento della 
                      scienza e della tecnica, essa si districa tra la difesa 
                      della vita e la libertà della morte, tra un fondamento 
                      etico e le norme morali, tra un’etica delle virtù ed 
                      un’etica delle norme.  
                        
                      4. 
                      “Care” tra la difesa della vita e la libertà della morte 
                      
                      L’evidenziazione dell’esigenza che il valore vita richiede 
                      e l’imparzialità con la quale questa esigenza deve essere 
                      assecondata non è solo un’impostazione teorica. Il campo 
                      della normativa deve farsene carico, diventando terreno di 
                      constatazione della bontà di tale impostazione. Riteniamo 
                      che prendere consapevolezza dell’unica argomentazione sul 
                      valore vita, qual è quella sinora utilizzata, permetta di 
                      superare alcune difficoltà date da schieramenti 
                      preconcetti.  
                          Un 
                          argomento bioetico fra i più discussi è certamente il 
                          problema se è lecito o no interrompere una gravidanza. 
                          La discussione ormai protratta da anni ha portato gli 
                          studiosi, ed anche la gente comune, ad interrogarsi 
                          in ultima analisi sulle possibilità di uno statuto personale 
                          dell’embrione umano. Si parla di statuto personale 
                          perché il problema centrale è innanzitutto capire 
                          se l’embrione è persona umana e in secondo luogo come 
                          diretta conseguenza affermare tutta una serie di diritti 
                          inalienabili che ineriscono solo alla persona. Tutte 
                          le argomentazioni, infatti, vertono a stabilire se e 
                          fino a che punto si possa parlare di persona umana. 
                          Da qui l’ipotesi secondo la quale l’embrione umano sarebbe 
                          persona sin dal concepimento o solo a partire dal quattordicesimo 
                          giorno dalla fecondazione. Alla base di queste ipotesi l’interrogativo 
                          centrale è il seguente: se, 
                          dove e quando si può parlare di persona umana? È, infatti, 
                          il concetto di persona che in ultima analisi ha polarizzato 
                          tutte le ipotesi e ha guidato tutte le argomentazioni. È risultato così centrale questo concetto 
                          che ad esso si lega la dignità umana e i diritti inalienabili 
                          che ne seguono. Alcuni autori di matrice anglosassone hanno ipotizzato la possibilità addirittura 
                          che vi siano alcuni umani non persone e alcuni non umani 
                          persone, tale per cui il concetto di persona, e solo 
                          questo, richiede all’altro il rispetto e il riconoscimento. 
                          Avremo così uomini verso i quali a nessuno è richiesto 
                          il loro riconoscimento e il rispetto dovuti ed animali 
                          per i quali, invece, tale riconoscimento e tale rispetto 
                          sono richiesti.  
                          A 
                          noi sembra che il concetto di persona più che risolvere 
                          abbia complicato e fuorviato il discorso etico da svolgere 
                          sulla vita nascente. Il concetto di persona è di matrice prima 
                          teologica e poi filosofica, però gli elementi dai quali 
                          spesso si adduce per confermarlo sono di matrice biologica. 
                          Questo dato, a nostro avviso, dice già molto della verità 
                          che il concetto di persona cela. Inoltre, dietro alla 
                          parola persona i concetti sono innumerevoli. Pensiamo 
                          alla concezione di persona che proprio quegli autori 
                          di matrice anglosassone hanno, concezione cerebrale, 
                          se così si può dire, visto che persona è colui che è 
                          capace di intendere e di volere e, pertanto, capace 
                          di stipulare in forza di queste capacità un contratto 
                          con gli altri membri della comunità morale, e alla concezione, 
                          diametralmente opposta, di matrice personalista. 
                      Il 
                      care – indichiamo ormai così tutto quello che abbiamo 
                      detto sulla vita come valore non morale il più 
                      fondamentale – che luce apporta in questo contesto 
                      bioetico? Io penso che sia di grande aiuto perché mina 
                      alla radice tutte le ipotesi che si legano anche con un 
                      filo sottile a qualsiasi concetto che il termine persona 
                      cela. Anzi, per di più fa palesare l’ambiguità del 
                      concetto di persona, la sua insufficienza a difendere la 
                      vita umana dagli approcci parziali ad essa. Il care 
                      ci permette di sostenere che la vita umana non può 
                      dipendere da alcuna concezione che di essa si ha, ma per 
                      il fatto che essa è il luogo dove tutti gli altri valori 
                      possono realizzarsi, non può non essere difesa, promossa, 
                      sostenuta, aiutata, accolta, rispettata, accettata, 
                      tutelata. E non c’è niente che possa dimostrare che esiste 
                      uno stadio di pre-embrione o in cui la vita umana non sia 
                      umana. Proprio in questo anche la biologia lo sostiene, ma 
                      anche se non fosse in grado di sostenerlo con certezza, 
                      una seria riflessione etica che tenga conto della 
                      dimensione valutativa oltre che descrittiva, non può che 
                      affermare il fatto che di fronte ad un processo continuo, 
                      articolato ed organico, come quello compreso tra il 
                      concepimento e la nascita, l’azione corretta è quella che 
                      non interrompe tale processo, anzi che lo agevola se è 
                      necessario perché ad ognuno come a noi bisogna dare la 
                      possibilità di realizzarsi. Pensare così per ogni embrione 
                      come se pensassimo a noi è proprio a partire da un 
                      approccio imparziale e pensare di ragionare in questo modo 
                      per tutte le situazioni simili con gli stessi elementi  
                      moralmente rilevanti significa specificare ulteriormente 
                      nel criterio dell’universalizzabilità quello 
                      dell’imparzialità. Non si può, cioè, prendersi cura di una 
                      vita nascente e non di un'altra, non si può volere un 
                      bambino a tutti i costi e al contempo sperimentare sugli 
                      embrioni, non si può, allargando il nostro orizzonte 
                      contestuale, fare battaglie sociali per estirpare la pena 
                      di morte e, al contempo, per la libertà della donna ad 
                      abortire. 
                      
                      Assumere il care, allora, significa iniziare a 
                      pensare eticamente senza pregiudizi concettuali, senza 
                      schieramenti filosofici, senza manifesti ideologici. 
                      Assumere il care nel contesto dell’interruzione 
                      volontaria della gravidanza significa in ultima analisi 
                      rivestirsi della virtù della prudenza. Essere prudenti di 
                      fronte al processo prenatale significa essere imparziali e 
                      che persona sia una realtà immediata o ritardata non fa 
                      assolutamente nessuna differenza. La differenza sta solo 
                      in etica nell’essere parziali o imparziali, prudenti o 
                      avventati.  
                      Se 
                      l’interruzione volontaria della gravidanza pone degli 
                      interrogativi non appena ci si affaccia alla vita, 
                      l’eutanasia mostra come l’interrogativo etico accompagna 
                      tutta la vita dell’uomo sino agli ultimi istanti. Il 
                      contesto eutanasico nella riflessione bioetica necessita, 
                      ci sembra, più di quello sopra discusso, una previa 
                      chiarificazione concettuale, altrimenti rischiamo 
                      nell’applicare il care fraintendimenti e confusioni 
                      con l’impostazione della inviolabilità della vita a tutti 
                      i costi.  
                      
                      Etimologicamente il termine fa riferimento alla 
                      possibilità di vivere una morte connotata dall’assenza di 
                      insopportabile sofferenza e dolore. In parole povere, 
                      l’eutanasia prima facie vuol dire “dolce morte” e 
                      designa l’esperienza universale, quella della morte, che 
                      aspira a realizzarsi nel migliore dei modi. È il sogno 
                      dell’uomo quello di vivere beatamente e quindi anche di 
                      morire senza molta sofferenza. Stando a questo 
                      significato, noi ci chiediamo: chi non vorrebbe fare 
                      l’esperienza eutanasica?  
                      Il 
                      linguaggio, però, come ogni manifestazione dello spirito 
                      umano, è suscettibile di cambiamenti, adattamenti, 
                      torsioni, ridimensionamenti. Il linguaggio umano, cioè, si 
                      nutre anche della realtà e ad essa si coestende. Quello 
                      che vogliamo dire è che la dolce morte, così designata da 
                      Francis Bacon, filosofo inglese, che colse a pieno 
                      l’esperienza da sempre nel cuore dell’uomo, negli ultimi 
                      tempi ha smesso di significare solamente questo. Lo 
                      sviluppo della medicina, della biologia e della tecnica e 
                      il loro sempre continuo e stretto rapportarsi, hanno 
                      modificato radicalmente l’idea dei limiti dell’uomo sul 
                      creato e su se stesso. L’eutanasia non poteva rimanere 
                      fuori da questo vortice e se prima era la semplice ed 
                      anche legittima aspirazione di ogni uomo, attualmente è 
                      una pretesa da parte dell’uomo, anche il più sprovveduto, 
                      e un laboratorio di applicazione per medici che non si 
                      rassegnano all’impotenza della loro scienza di fronte 
                      all’incalzare della morte. Oggi, e non ieri, dire 
                      eutanasia significa anche abbreviazione della vita come 
                      effetto secondario della somministrazione di analgesici, 
                      astensione dalle cure, azione deliberata per porre fine 
                      alla vita di una persona. Per non parlare di tutta una 
                      serie di distinzioni, quali l’eutanasia eugenetica, 
                      solidaristica, diretta, indiretta, passiva, attiva, ecc.. 
                      . In questo contesto di intendimenti molteplici, chiariamo 
                      che con il termine eutanasia intendiamo l’azione 
                      compiuta deliberatamente al fine di togliere la vita ad 
                      una persona su richiesta esplicita o presunta o per 
                      compassione nei riguardi di chi si trova in una penosa 
                      condizione terminale. L’eutanasia così intesa investe 
                      molto evidentemente il divieto di “non uccidere” o, 
                      voltando la medaglia, “la difesa ad oltranza della vita”.
                       
                      Ora, 
                      se dichiarassimo l’eutanasia illecita perché il valore 
                      vita è sempre da difendere, non saremmo più coerenti con 
                      quello che finora abbiamo sostenuto. Inoltre, la difesa ad 
                      oltranza della vita mistificherebbe il care 
                      trasformandolo in accanimento terapeutico. 
                      Ma, 
                      ancora, se dichiarassimo l’eutanasia illecita perché lede 
                      la dignità dell’uomo in quanto persona, cadremmo nella 
                      rete di quell’ambiguità che il termine persona trascina 
                      con sé e dovremmo, così, spiegare quando come e perché un 
                      malato afflitto da gravi dolori è sempre persona e, poi, 
                      in che senso, per es., è persona un uomo in stato 
                      vegetativo persistente. Il concetto di persona, si è già 
                      detto, non è idoneo a risolvere casi concreti nei quali, 
                      invece, sono le conseguenze a fare le differenze, 
                      conseguenze sempre riconducibili alla capacità che esse 
                      hanno di manifestare imparzialità e universalizzabilità
                        
                          Il 
                          care ancora una volta ci può aiutare a districarci 
                          nel caso concreto. Il care scaturendo dall’esigenza 
                          del valore vita inteso nella sua fondamentalità non 
                          può che cozzare con i due presupposti sui quali si regge 
                          l’argomentazione a favore dell’eutanasia. Il primo è 
                          la considerazione che il desiderio di morire espresso 
                          da un moribondo è assolutamente libero; il secondo è 
                          la convinzione che l’eutanasia sia l’aiuto unico e reale 
                          al moribondo. Riguardo al primo, il care mostra 
                          la sua forza prudenziale, in quanto un’azione quale 
                          quella di togliere la vita non può mai essere azzardata. 
                          Come nessuno conosce il mistero che avvolge il tempo 
                          della fecondazione, nonostante la biologia osservi tutto 
                          quello che avviene, così nessuno conosce il tempo che 
                          un uomo vive di fronte alla morte. Quest’ultima dovrebbe 
                          essere recuperata dalla vita e non da questa disattesa. 
                          Ma la prudenza se è l’aspetto unico del care 
                          nel contesto dell’aborto, nell’eutanasia ad esso se 
                          ne aggiungono altri: care come riconoscimento 
                          dei limiti a tutti i livelli; come accettazione di tutta 
                          la vita compresa la morte; come accompagnamento. Se 
                          il primo aspetto inquadra la problematica dell’accanimento 
                          terapeutico e ne presagisce già un giudizio etico e 
                          il secondo invita ad inquadrare la vera dolce morte 
                          non nell’assenza di dolore e nella rimozione della morte 
                          bensì nella libertà di vivere ancora la vita morendo, 
                          il terzo aspetto prospetta il grande movimento di umanizzazione 
                          della medicina nella fattispecie delle cure palliative. Proprio le cure palliative come una zumata 
                          focalizzano il cuore del care, che dice che non 
                          esistono persone da non poter curare, anche tra quelle 
                          che sono inguaribili. Questa sollecitudine alla cura 
                          se è valida per i malati terminali, è anche valida per 
                          tutti, bambini, adolescenti, adulti ed anziani, per 
                          i deboli, per i poveri di ogni povertà. La cura, 
                          il care, è vera se è imparziale ed universalizzabile 
                          e la filosofia delle cure palliative mostra la genuinità 
                          di ciò perché contempla proprio quelli che la società 
                          ritiene essere spacciati.  
                      
                      Ricapitolando, l’eutanasia è un approccio parziale perché 
                      mostra che non vi sia altra via per prendersi cura di un 
                      malato che quella dell’uccisione e che non dice la verità 
                      sulla richiesta di morire da parte del moribondo, 
                      contraddicendo molto superficialmente la stessa prassi 
                      clinica che securizza sul fatto che il desiderio di morire 
                      è solamente una velata richiesta di aiuto. Sia 
                      l’accanimento terapeutico sia l’eutanasia tentano un 
                      rinvio dell’incontro con la morte, ma non tengono conto 
                      che essa fa parte della vita perché solo i vivi possono 
                      morire. Sarebbe necessario un progetto di aiuto globale 
                      all’uomo che investe la sua esistenza dalla nascita alla 
                      morte, e il care a questo vuole tendere. Le cure 
                      palliative come accompagnamento alla morte, frutto di una 
                      sinergia che si potrebbe realizzare tra medico, paziente, 
                      parenti e società sarebbero la prova della lungimiranza e 
                      della forza del care. L’eutanasia rivisitata dal 
                      care non è la richiesta di morte come decisione 
                      libera, ponderata e razionale ma quella che mantiene viva 
                      la possibilità di lasciar vivere la morte, chiaramente 
                      contemplando i dovuti controlli di sedazione del dolore. 
                      
                      Abbiamo voluto prendere in considerazione due contesti 
                      bioetici capitali, quello dell’inizio della vita e quello 
                      della sua fine, consapevole del fatto che avremmo anche 
                      toccato dei fili che stanno nel mezzo, come l’accanimento 
                      terapeutico e le cure palliative, trattando buona parte 
                      della problematica bioetica. Siamo consapevoli altresì che 
                      non c’è esaustività in queste pagine, ma il nostro intento 
                      era solo quello di esemplificare in contesti normativi la 
                      forza che il care, a nostro avviso, possiede. Esso 
                      assumendo ora l’aspetto della prudenza, ora 
                      dell’accettazione di tutta la vita, ora del riconoscimento 
                      dei limiti, ora dell’accompagnamento del malato, ci può 
                      senz’altro aiutare a districarci nelle varie situazioni, a 
                      non soprattutto assolutizzare valori che non sono per 
                      niente assoluti, a considerare le conseguenze di ogni 
                      azione e ad assumere come criteri e punti di avvio sempre 
                      l’imparzialità e l’universalizzabilità. Lo ripetiamo, la 
                      differenza in etica non sta nell’accentuare la qualità a 
                      discapito della sacralità o viceversa o nello scegliere un 
                      ben preciso concetto di persona da attribuire ad un essere 
                      vivente o nell’essere cattolici o laici. La differenza sta 
                      semplicemente nell’essere parziali o imparziali e nel 
                      considerare un giudizio vero per una singola situazione 
                      sempre vero comunque dovunque e per chiunque in un’altra 
                      situazione simile. 
                        
                      5. 
                      “Care” tra fondamento etico e norma morale 
                      
                      L’argomentazione della fondamentalità del valore vita 
                      permette di conciliare qualità e sacralità come due 
                      prospettive che dicono ora il rapporto che il valore vita 
                      deve avere con tutti gli altri valori, ora la sua 
                      fondamentalità nei confronti di essi, e che questo binomio 
                      dice in fondo la dignità della vita, una dignità prima 
                      intuita e poi compresa, dignità che comporta 
                      riconoscimento reciproco, appello, promozione, aiuto, 
                      tutela. Tutto questo  esige che della vita se ne debba 
                      prendere cura con un progetto che non lasci nessuna 
                      categoria fuori, dai piccoli agli anziani, dai malati ai 
                      disadattati, dai deboli ai più deboli.  
                          Tutto 
                          ciò, però, nel dibattito bioetico contemporaneo non 
                          si evince nel momento in cui, da una parte, si sente 
                          l’esigenza di volere a tutti i costi una tematizzazione 
                          della nozione stessa della vita umana, come se qualsiasi 
                          oltraggio ad essa potesse  
                          essere giustificato lì dove non c’è proprio chiarezza 
                          che si tratti di vita umana; dall’altra, nel momento 
                          in cui si rimpolpa la nozione di dignità o con l’idea 
                          di qualità o con l’idea di santità oppure, addirittura, 
                          con un “oltre” le due idee. Così facendo, invece di valutare un’azione 
                          con i criteri di imparzialità ed universalizzabilità, 
                          come si richiede in un autentico care, si valuta 
                          un’azione corretta o scorretta in campo normativo a 
                          partire solo dalla concordanza o discordanza con le 
                          impostazioni di fondo di matrice filosofica, antropologica 
                          e teologica. Portiamo alcuni esempi.  
                          Un 
                          primo appello alla dignità umana rivendica la santità 
                          della vita. L’argomentazione è per lo più teologica 
                          e così si articola: «il Dio creatore è l’unico signore 
                          assoluto di se stesso. Di conseguenza, all’uomo spetta 
                          soltanto il diritto di usare, ma non il diritto di disporre 
                          in substantiam della propria vita. Chi si appropria 
                          della sua vita usurpa i diritti di sovranità di Dio». Questo modo di argomentare ad un’attenta 
                          analisi delle premesse e della conclusione risulta debole. 
                          Le due premesse – sovranità di Dio e sottomissione dell’uomo 
                          – giungono ad una conclusione diversa da esse sostanzialmente 
                          se essa è «l’uomo non ha il diritto di disporre»? Il 
                          fatto che l’uomo non abbia alcun diritto di disporre 
                          della propria vita è terminologicamente espressione 
                          diversa  ma sostanzialmente identica con la premessa 
                          che l’uomo non è sovrano della sua vita. Questo significa che il comportamento che 
                          si prescrive non deriva dalle premesse poste, ma è un’affermazione 
                          ripetuta di ciò che già le premesse dicono. Siamo di 
                          fronte, cioè, ad una tautologia e non certamente ad 
                          una formulazione sufficiente del giudizio morale. La 
                          ripetizione o tautologia tra premesse e conclusione 
                          non costringe alla obbligazione morale così come apparentemente 
                          appare nella formulazione del giudizio. Oltre alla debolezza 
                          del sillogismo, l’argomento teologico risulta anche 
                          insufficiente se si scorge la via deontologica da esso 
                          intrapresa. Questa via non tiene in considerazione il 
                          fatto che il valore vita possa entrare in conflitto 
                          con altri valori, come avviene nei casi di eccezione 
                          al principio dell’inviolabilità della vita, e ciò la 
                          rende non adeguata ad affrontare tutte le situazioni 
                          che la vita può presentare.  
                          Un 
                          secondo appello alla dignità umana rivendica la qualità 
                          della vita. L’argomentazione oggi è intesa in termini 
                          fortemente controversiali nei riguardi del mondo cattolico è riconducibile ad un utilitarismo che propone 
                          un eguale considerazione degli interessi con la massimizzazione 
                          del piacere e la minimizzazione del dolore. In particolare, 
                          questa forma di utilitarismo di cui parliamo  stabilisce 
                          una condizione minimale di uguaglianza stante nella 
                          capacità di percepire il piacere e il dolore; stabilisce, 
                          inoltre, che questa uguaglianza deve essere riportata 
                          alla ricerca della massimizzazione del piacere e alla 
                          minimizzazione del dolore. Quanto detto presenta due 
                          livelli problematici: il primo è quello che ritiene 
                          l’uguaglianza non come scaturente dalla vita umana stessa, 
                          ma dal possesso del sistema nervoso centrale che permette 
                          di provare piacere e dolore; il secondo, concatenato 
                          al primo, è quello di un’impostazione che non dimostra 
                          affatto di percepire la vita nella sua dimensione valoriale, 
                          ma solo nella sua costituzione fisiologica.  
                      Alla 
                      luce del care, innervato nella dimensione 
                      valutativa quale elemento la cui percezione è decisiva 
                      nella vita etica, le conseguenze sono riconducibili a due 
                      livelli di parzialità: innanzitutto il valore di un essere 
                      vivente (non si può più parlare di esseri umani soltanto, 
                      perché anche gli animali possiedono un sistema nervoso 
                      centrale) è percepito solo nella misura in cui il soggetto 
                      è capace di sentire piaceri e dolori, solo cioè se è 
                      senziente, risultando non un dovere rispettare la vita di 
                      un embrione, di un handicappato, di uno che si trova in 
                      uno stato vegetativo persistente; il secondo livello di 
                      parzialità specifica più ulteriormente il primo. Se il 
                      valore è da attribuire ai senzienti, poiché si deve 
                      tendere alla massimizzazione del piacere e alla 
                      minimizzazione del dolore, la sofferenza di un senziente 
                      non deve mai superare il piacere, quindi nei confronti di 
                      chi soffre il dovere primo è quello di sopprimerlo. 
                      Un 
                      terzo appello alla dignità ritiene di poter disporre della 
                      vita umana in base alle circostanze contingenti, le cui 
                      conseguenze non sono per niente differenti da quelle 
                      dell’utilitarismo succitato. Questo terzo modo fonda la 
                      dignità umana sul “contratto”, e per questo è indicato con 
                      il termine “neocontrattualismo”. Il soggetto morale è 
                      colui che è capace di autodeterminazione, coscienza e 
                      razionalità. Perché si possa realizzare un contratto è 
                      necessario che non manchino l’autonomia e la beneficenza. 
                      La prima prerogativa è indispensabile perché senza 
                      autonomia non vi è soggettualità morale. Ho già fatto 
                      notare che l’autonomia intesa come valore assoluto e non 
                      come postulato della vita morale esula da una possibile 
                      percezione dei valori e della loro gerarchia e, in questa 
                      prospettiva neocontrattualista, legittima forme di 
                      intervento soppressivo per gli altri e per sé. La seconda 
                      prerogativa, meno importante della prima perché non 
                      indispensabile, auspica un atteggiamento benevolo nei 
                      confronti dei soggetti morali sia interni sia esterni alla 
                      comunità di appartenenza. Essendo subordinata 
                      all’autonomia come valore assoluto, la beneficenza (il 
                      bene facere) è solo un auspicio, un’esortazione e non 
                      una riformulazione prescrittiva di un giudizio morale, 
                      qual è una vera norma morale per il comportamento. Così i 
                      soggetti che non sono autonomi, embrioni, 
                      feto, neonati,
                      anziani individui cerebro lesi o in coma, non 
                      rientrano nella comunità morale e a loro non è attribuita 
                      la realtà di persona. 
                      Dal 
                      punto di vista finora assunto, questo approccio mostra 
                      molte parzialità già messe in evidenza nell’approccio 
                      utilitaristico, ed in più l’argomentazione contrattualista 
                      risulta ambigua proprio per la sua dipendenza dal concetto 
                      di persona che pregiudizialmente si è confezionato. 
                      I tre 
                      approcci menzionati mostrano che da una determinata 
                      impostazione di fondo – prospettiva teistica, concezione 
                      cerebrale della persona, morale come contratto – ci si 
                      catapulta in campo normativo. Non ci si rende conto che la 
                      formulazione di norme morali non può prescindere dal punto 
                      di avvio di ogni processo normativo ovvero 
                      dall’imparzialità. Essa è l’imparzialità nell’assunzione 
                      dei valori e nella percezione del loro rapporto gerarchico 
                      e della loro distinguibilità. Tale imparzialità mostra 
                      l’insufficienza dell’argomentazione teologica, la 
                      parzialità dell’argomentazione utilitaristica, l’ambiguità 
                      dell’argomentazione contrattualista. E sempre la stessa 
                      parzialità  in riferimento 
                      al valore vita si traduce nel non considerarla come valore 
                      fondamentale, e se l’argomentazione teologica ha 
                      dimostrato sempre di avere coscienza della fondamentalità 
                      del valore vita, però assolutizzandolo, le altre due 
                      argomentazioni si sono caratterizzate per la loro completa 
                      non percezione del piano valutativo, quindi anche e prima 
                      di tutto del valore vita. 
                        
                      6.  
                      “Care”
                      tra etica delle virtù ed etica delle norme 
                      In 
                      ogni trattazione etica è inevitabile chiedersi se il 
                      discorso sviluppato si situa a livello dei soli valori o a 
                      livello delle norme, e il discorso sul care finora 
                      articolato non può dirsi solo caratterizzato da un 
                      riferimento ai valori o solo intento a cercare delle norme 
                      e delle strategie per le situazioni più disparate della 
                      vita. L’interrogativo non è oziosamente accademico. 
                        
                          Oggi 
                          si parla molto di un ritorno ad un’etica delle virtù quasi a far fronte ad un’inflazione normativa 
                          proveniente da un mondo culturale come quella anglosassone 
                          dove la bioetica ha mosso i suoi primi passi, e l’orientamento 
                          attuale è impostato sempre nella prospettiva dell’aut-aut: 
                          «Mentre l’etica aristotelica è impostata dal punto di 
                          vista della I persona che desidera vivere bene, l’etica 
                          moderna è impostata dal punto di vista della III persona, 
                          dell’osservatore imparziale alle prese col problema 
                          di determinare norme universali, principi e regole di 
                          giustizia, oppure azioni corrette relativamente ai risultati 
                          prodotti in uno stato di cose».  Ma, non ci si rende conto che costruire 
                          un’etica delle virtù come fosse un discorso altro da 
                          contrapporre ad un’etica delle norme contraddice la 
                          verità del discorso etico.  
                           Esso 
                          si caratterizza per una composita struttura che presenta 
                          non una sola logica ma più logiche corrispondenti ai 
                          piani in cui il linguaggio umano si sedimenta. Il discorso sui valori costituisce la dimensione 
                          più propria dell’etica e ad essi ci si può riferire 
                          o esortando coloro che già li hanno conosciuti a interiorizzarli 
                          ancora più incisivamente nella loro vita o realizzandoli 
                          nel modo migliore possibile attraverso norme. I due 
                          piani, quello dei valori e quello delle norme, non possono 
                          essere separabili anche se è possibile distinguerli, 
                          e la loro inseparabilità è spiegabile per il semplice 
                          fatto che la possibilità di normare presuppone un quadro 
                          valoriale di riferimento e i valori quali giudizi morali 
                          vengono riformulati prescrittivamente attraverso le 
                          norme. Parlare, come di fatto si fa, di un’etica di 
                          prima persona ed un’etica di terza persona è possibile 
                          logicamente ma risulta erronea l’assunzione dei due 
                          punti di vista in termini alternativi e di contrapposizione. 
                      Il 
                      care nell’ambito delle virtù, poiché esse non sono 
                      altro che le reificazioni possibili nell’uomo, unico 
                      soggetto morale, è riconducibile ad un pressante appello 
                      ai valori, ad un certo orientamento verso di essi, ad un 
                      atteggiamento rivolto alle cure, al rispetto e alla 
                      valorizzazione di ogni vita, soprattutto la più debole; 
                      nell’ambito delle norme il care significa, invece, 
                      formulare norme per giudicare il comportamento, cioè 
                      giudizi morali più aderenti alle varie realtà attraverso 
                      le argomentazioni più convincenti. 
                      Mentre 
                      prendersi cura della vita in riferimento ai soli valori 
                      significa assumere il punto di vista della morale 
                      nell’assunzione e nella considerazione dei valori in 
                      generale e del valore vita in particolare in quanto valore 
                      fondamentale, in riferimento alle norme prendersi cura 
                      della vita si traduce nella capacità di ripercorrere le 
                      piste etico-normative più convincenti per giustificare le 
                      norme relative al comportamento nei confronti della vita. 
                      Il valore fondamentale della vita dice la possibilità che 
                      ogni individuo ha di realizzare gli altri valori, e il 
                      valore morale, di realizzare, in ultima analisi, se 
                      stesso. Dal punto di vista etico-normativo il discorso 
                      sulla fondamentalità della vita – che esorta, come si è 
                      detto sopra, alla virtù della prudenza, al riconoscimento 
                      dei propri limiti, all’accettazione di tutta la vita 
                      compresa la morte, all’accompagnamento dei malati e dei 
                      più deboli, insomma esorta ad un atteggiamento benevolo 
                      contrassegnato dalla sollecitudine alla cura, alla tutela, 
                      alla promozione, al recupero, al rispetto di se stessi ed 
                      agli altri escluso nessuno – equivale alla inviolabilità 
                      della vita se la pista argomentativa intrapresa è quella 
                      deontologica. Lo stesso discorso sulla fondamentalità è 
                      perfettamente rinvenibile nell’altra argomentazione 
                      contrapposta alla prima, quella teleologica, anche se non 
                      con la stessa chiarezza ostentata da un giudizio sempre di 
                      illiceità di uccidere formulato dall’argomentazione 
                      deontologica. 
                      La 
                      pista deontologica porta come argomento a sostegno 
                      dell’inviolabilità della vita quello della mancanza di 
                      permesso e si esprime sempre in termini di illiceità: 
                      nessuno ha il diritto di togliere la vita ad altri. La 
                      mancanza di permesso che sostiene sempre l’illiceità di 
                      uccidere esprime a tutto tondo l’inestimabile 
                      considerazione che si nutre nei confronti della vita e 
                      tale considerazione non è altro che la percezione della 
                      fondamentalità del valore vita per ogni uomo. Ma, ed ecco 
                      che subentra la pista teleologica, le situazioni della 
                      vita non sempre possono essere risolte con 
                      un’argomentazione che non prevede eccezioni. Infatti, 
                      l’evidenza di non poter applicare la norma 
                      deontologicamente formulata istruisce la possibilità di 
                      intraprendere un processo di riformulazione teleologica 
                      dell’argomentazione deontologica. E i casi di legittima 
                      difesa, di rischio per la propria incolumità, di uccisione 
                      del tiranno e di guerra giusta ne sono un esempio nella 
                      storia della riflessione etica. Ora, la pista teleologica 
                      non costituisce un ridimensionamento della fondamentalità 
                      del valore vita, chiarissimo nell’argomentazione 
                      deontologica, piuttosto la ricerca di una norma ben 
                      aderente ai diversi contesti operativi problematici, che 
                      valuti tutte le conseguenze ed in base ai valori realizzi 
                      quelli possibili, ridice con più forza la fondamentalità 
                      del valore vita senza alcun ridimensionamento. Il care, 
                      dunque, deve esibire un’etica delle virtù ed un’etica 
                      delle norme mai scisse tra loro nel senso che ad una 
                      percezione di un quadro valoriale nel quale la vita 
                      risulta essere il valore non morale il più fondamentale 
                      deve seguire una pista argomentativa la più idonea per 
                      giungere alla formulazione di una norma più possibilmente 
                      aderente alla realtà che si sta giudicando. 
                        
                      7. 
                      “Care” come razionalità etica  
                           
                          L’esigenza di prendersi cura della vita corrisponde 
                          all’esigenza etica che scaturisce dall’intimo stesso 
                          della persona. Questa esigenza presuppone una realtà 
                          pre-data, oggettiva, oggi poco percepita o percepita 
                          in parte, ieri percepita in un modo, in un epoca o in 
                          un luogo sperduto del globo diversamente. Tutto ciò 
                          poco importa, quello che conta è che ciò che si riesce 
                          a percepire rimane sempre l’al di qua dell’al di là 
                          ideale che è l’ordine morale oggettivo.  
                          Non 
                          prendersi cura della vita, non assecondare, cioè, un’esigenza 
                          intima a noi stessi significa entrare in contrasto con 
                          la prospettiva dell’imparzialità, ma anche in rapporto 
                          contraddittorio con il punto di vista logico secondo 
                          il quale non si può formulare un giudizio che sia, al 
                          tempo stesso, vero e falso. In questa prospettiva risulta 
                          centrale il concetto di razionalità etica consistente 
                          nella «capacità razionale dell’uomo di leggere nella 
                          sua stessa realtà umana l’orientamento etico da imprimere 
                          alla sua esistenza come orizzonte di senso ed al suo 
                          agire quotidiano, come singole norme operative».  
                          La razionalità etica 
                          così intesa implica il fatto che ogni uomo ha l’obbligo 
                          di vivere moralmente in quanto uomo e non in quanto 
                          avente un tessuto simbolico e interpretativo religioso. 
                          La razionalità etica comporta il fatto che i contenuti 
                          del vivere moralmente sono uguali per tutti. L’obbligo 
                          morale di vivere moralmente  in quanto uomini esclude 
                          una razionalità creatrice di norme, recupera, al contrario, 
                          una razionalità ricercatrice di giudizi morali già iscritti 
                          nella realtà stessa dell’uomo corrispondenti al regno 
                          dei valori e presuppone, anche, una chiarificazione 
                          dei vari livelli da considerare, quello descrittivo 
                          distinto da quello valutativo. 
                      Ora, 
                      il care non può prescindere dal concetto di 
                      razionalità etica perché la stessa negazione di quest’ultimo 
                      e di conseguenza di ciò che esso dovrebbe essere capace di 
                      conoscere, il regno dei valori, apre la strada all’idea 
                      che ogni uomo è legge a se stesso, quindi che il valore 
                      vita è in balia di scelte arbitrarie. La negazione di 
                      questa razionalità e di conseguenza del contenuto da 
                      conoscere minaccia il valore vita prima di tutti gli altri 
                      valori. Se, invece, si considerasse una pre-datità scorta 
                      nella realtà dell’uomo, si ragionerebbe nel seguente modo: 
                      se la vita è il valore non morale il più fondamentale, 
                      allora è sempre il primo a dover essere salvaguardato, e 
                      la difesa della vita diventa dovere fondamentale e 
                      prioritario di ogni branca che viene coinvolta nel 
                      dibattito bioetico.  
                      Se di 
                      questo si tratta quando ci si riferisce alla razionalità 
                      etica, chi si colloca all’interno di una prospettiva 
                      teistica non aggiunge un di più normativo a quanto già è 
                      possibile carpire con la sola ragione, bensì reinterpreta 
                      questa razionalità come volontà creatrice di Dio e la 
                      ripresenta attraverso il proprio tessuto simbolico 
                      religioso. 
                      Quanto 
                      stiamo affermando ci permette di impostare 
                      metodologicamente il discorso teologico. Riflettere 
                      teologicamente sull’etica della vita non comporterà dal 
                      punto di vista normativo un’aggiunta o un 
                      ridimensionamento, in quanto l’esigenza stessa di una 
                      giustificazione razionale è contenuta nella riflessione 
                      etica; piuttosto la prospettiva teologica conferma quanto 
                      razionalmente si percepisce e offre a chi crede il 
                      fondamento ultimo del regno dei valori. 
                        
                      8. 
                      “Care” e la prospettiva teologica 
                      Il 
                      discorso teologico sul care deve partire dalla 
                      corrispondenza di esso alla stessa esigenza etica che 
                      scaturisce dall’intimo più intimo della persona ovvero 
                      dalla capacità che l’uomo possiede di cogliere in se 
                      stesso un orientamento etico. È di estrema importanza 
                      porre nella dovuta attenzione questo punto di avvio perché 
                      illumina sul “come”, sul “se” e sul “quando” il discorso 
                      teologico si può e si deve inserire in un discorso 
                      eminentemente etico. Tra il discorso etico e il discorso 
                      teologico non si può instaurare un rapporto di tipo 
                      et-non o aut-aut oppure et-et, nel 
                      momento in cui si è consapevoli della razionalità etica 
                      dell’uomo. Proprio a partire da questa consapevolezza il 
                      rapporto che deve legare i due discorsi deve essere 
                      interpretato secondo il semplice tipo et. Mentre 
                      l’espressione «il discorso etico è l’unico discorso 
                      possibile sul “the care” e non  il discorso 
                      teologico», o viceversa, implicherebbe l’esclusione 
                      necessaria di uno dei due discorsi, l’espressione, invece, 
                      «o il discorso etico o il discorso 
                      teologico» esprimerebbe non certamente l’esclusione da 
                      parte del soggetto che riflette, ma l’inconciliabilità 
                      oggettiva dei due discorsi; mentre, ancora, l’espressione 
                      «sia il discorso etico sia il discorso 
                      teologico» porrebbe ulteriori problemi in ordine 
                      all’importanza dei due discorsi, al contrario, 
                      l’espressione «il discorso etico e il discorso 
                      teologico» opererebbe una congiunzione o un accoppiamento 
                      presupponendo le dovute distinzioni. Ora, poiché la 
                      razionalità etica soprintesa implica l’obbligo di vivere 
                      moralmente perché si è uomini e non perché si è credenti, 
                      ma, allo stesso tempo, la medesima razionalità è, in 
                      ultima analisi, la stessa volontà creatrice di Dio perché 
                      l’uomo è stato da Lui creato, ne consegue che è errata sia 
                      l’impostazione che considera la scelta di escludere uno 
                      dei due discorsi sia quella che ritiene i due discorsi 
                      oggettivamente inconciliabili sia quell’altra che 
                      necessita sempre che si risolva il problema 
                      sull’importanza dei due discorsi visto che l’uno viene 
                      semplicemente aggiunto all’altro. L’unica 
                      impostazione corretta coerentemente con il concetto di 
                      razionalità etica profondamente umano e profondamente 
                      religioso è quella che unisce i due discorsi, che li 
                      congiunge senza esclusione, senza inconciliabilità, senza 
                      indistinzione conoscitiva. Congiungere i due discorsi 
                      significa considerarli entrambi fondamentali ed 
                      imprescindibili, però svolgenti un ruolo diverso tra loro. 
                      Il discorso teologico, cioè, non nega le conoscenze morali 
                      alle quali il discorso etico perviene perché ritiene tale 
                      discorso fondamentale ed imprescindibile, piuttosto le 
                      accetta come complete in se stesse e, al contempo, le 
                      completa maggiormente con la luce della Rivelazione 
                      dalla quale scaturisce. Mentre, in altre parole, il 
                      discorso etico fornisce una completezza di conoscenza sul 
                      piano del suo discorso specifico, il discorso teologico 
                      aggiunge a tale completezza una maggiore completezza 
                      proveniente dalla fede.  
                        
                        
                        
                        
                        
                        
                        
 
  
                             
                              * 
                              Istituto di Studi Bioetici “Salvatore Privitera”. 
                              Vicedirettore della rivista “βio-ethoς” 
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                          
                          
                           
                          Se pensiamo che anche in Italia, paese cattolico, il 
                          divorzio fu legalizzato nel ’70 e confermato con un 
                          referendum nel ’74, che la vendita dei contraccettivi 
                          e l’informazione per il controllo delle nascite furono 
                          legalizzate nel ’71 e, infine, che nel ’78 l’aborto fu 
                          legalizzato e confermato con il referendum dell’81, 
                          non si può che pensare che le cose stavano cambiando, 
                          e di molto. 
                           
                           
                           
                           
                          
                          
                           
                          Se le matrici del nichilismo imperante sono i noti 
                          filosofi tedeschi, l’autorevole interprete sostenitore 
                          e fautore in Italia delle loro idee è indubbiamente 
                          Gianni Vattimo. Per il professore torinese il tempo in 
                          cui viviamo è ciò che Nietzsche ha proclamato per 
                          bocca del suo Zarathustra: Dio è morto. Tale proclama 
                          è il vessillo dell’esperienza finale della storia, 
                          ossia della concentrazione moderna della storia come 
                          corso unitario e progressivo di eventi. La morte di 
                          Dio nietzscheana è per Vattimo equivalente all’oltrepassamento 
                          metafisico heideggeriano, e non semplicemente la 
                          teorizzazione dell’ateismo: «Nietzsche non sta 
                          proponendo una metafisica ateistica […] sarebbe ancora 
                          una forma di fede nel Dio morale, cioè in un ordine 
                          oggettivo del mondo che lui fonda e garantisce. Solo 
                          tenendo presente questo si può riconoscere l’analogia, 
                          ma meglio ancora la stretta continuità, tra la morte 
                          di Dio nietzscheana e la fine della metafisica di cui 
                          parla Heidegger […] L’evento «fine della metafisica» 
                          ha, nel pensiero di Heidegger, lo stesso senso della 
                          morte di Dio» (Dopo la cristianità…, o.c., 17). 
                           
                           
                           
                           
                           
                          
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                          
                          
                          
                          
                          
                          Sulle cure palliative come prevenzione dell’eutanasia 
                          attiva cfr. R.JANSSENS – H. TEN HAVE, Le cure 
                          palliative in Olanda, in «Bioetica e Cultura» VIII 
                          (1999) 23-31; B. GORDIJN, Cure palliative e 
                          prevenzione dell’eutanasia attiva, in S. PRIVITERA 
                          (a cura di), Vivere “bene” nonostante tutto. Le 
                          cure palliative in Europa e in Italia, ISB, 
                          Acireale 1999, 63-80. 
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           |  |