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                      Significati etici diversi del “lasciar morire”  
                           
                          di Marianna Gensabella Furnari* 
                      
                      
                        
                      
                      
                        
                      
                      
                        
                      
                      
                        
                      
                      La definizione di eutanasia comprende già in sé 
                      un’interpretazione del problema 
                      ed è proprio per questo suscettibile di cambiamenti, 
                      secondo i contesti di riferimento. Una prima differenza 
                      può ricavarsi dal contesto storico e dal primo significato 
                      a cui, secondo l’etimologia, la parola eutanasia rinvia. 
                      La “buona morte” non implica la problematicità del 
                      significato attuale del termine, che è riconducibile al 
                      “procurare  intenzionalmente la morte”, ma rinvia solo 
                      alle modalità in cui la morte “avviene”, modalità ritenute 
                      “buone”. 
                      La morte è l’evento che tutti temiamo più di ogni altro, o 
                      meglio la morte è il “non-oggetto” di fronte a cui non 
                      possiamo dire di provare paura, ma qualcosa di più 
                      radicale, l’angoscia che ci coglie quando siamo ai confini 
                      del “ni-ente”, 
                      quando l’alternativa tra l’essere e il nulla non è più per 
                      noi un problema del pensare, ma una duplice, tragica 
                      possibilità che grava sulla nostra esistenza. E’ possibile 
                      che questo evento accada in modalità che l’esistente 
                      giudichi “buone”? Come può essere “buona” l’Assoluta 
                      Signora di hegeliana memoria? Poiché della morte nulla 
                      sappiamo, 
                      se non che è il confine a cui inevitabilmente la nostra 
                      vita è destinata, lo stesso indicarla come “buona” o 
                      “cattiva” non può che essere un’indicazione indebita: 
                      l’esperienza della morte in quanto morte, consegnata ad un 
                      silenzio senza ritorno, si sottrae a qualunque 
                      valutazione, rimane al di là dei nostri aggettivi. Si 
                      tratta allora di spostare l’aggettivo  che l’eu 
                      greco indica, buono, dolce,  “prima” dell’av-venire della 
                      morte, al processo  del morire che conduce all’evento 
                      morte. L’interrogativo è allora: può il morire essere 
                      “buono/dolce” per l’esistente? cosa può renderlo tale?
                        
                           
                          La prima risposta, su cui non può che esserci consenso, 
                          è l’assenza del dolore, sia fisico che psichico. La 
                          seconda, implicita nella prima, è non un’assenza, ma 
                          una presenza: la presenza di qualcuno che sia vicino 
                          a chi attraversa il morire. Due condizioni che si intersecano: 
                          il dolore è, infatti, un’esperienza singolare, di per sé ambigua, che isola l’esistente, 
                          dal momento che rimane sempre al di qua della possibilità 
                          del dire, della parola, è sempre e soltanto il “mio 
                          dolore”, ma,  al tempo stesso, il dolore si fa 
                          domanda, invoca aiuto. Tra il silenzio e il grido, la 
                          domanda del dolore, dalla sua prima ancora inarticolata 
                          espressione nel “lamento”, segna il darsi di questa 
                          ambiguità. Così il dolore evidenzia con tutta la potenza 
                          del negativo, il volto duplice, ambiguo del nostro essere 
                          corpo-soggetto, insieme per-sé e per-altri, un corpo che è il nucleo irriducibile 
                          della nostra personalità, mai completamente penetrabile 
                          all’altro, ma anche, necessariamente, per la sua stessa 
                          sopravvivenza, corpo-intenzionalità, che si tende all’altro, 
                          sin dal suo primo manifestarsi come bisogno/desiderio. 
                            
                      
                      Nel processo del morire, là dove sempre più incalzante è 
                      la pretesa all’isolamento che la morte avanza all’Esserci, 
                      questa duplicità che segna il nostro essere corpo, e in 
                      particolare il nostro essere un corpo che soffre, si dà al 
                      massimo della tensione. Mai come nel processo del morire 
                      siamo soli, mai come allora avvertiamo che si tratta del 
                      “nostro corpo” che soffre e muore, e, al tempo stesso, mai 
                      come nel morire avvertiamo l’esigenza di avere qualcuno 
                      che ci sia vicino. E’ la profonda umanità del Gesù nel 
                      Getsemani: “L’anima mia è triste fino alla morte; restate 
                      qui e vegliate” (Mc, 14,33). L’angoscia di morte 
                      pretende che l’uomo Gesù sudi sangue e pianga 
                      nell’isolamento, ma, al tempo stesso, proprio per 
                      sottrarsi a quell’angoscia-isolamento l’uomo Gesù chiede 
                      ai suoi compagni di stare svegli e pregare. Sappiamo cosa 
                      accade: sappiamo come sia difficile stare svegli e 
                      accompagnare chi attraversa l’angoscia del morire. 
                      
                      Difficile, ma non impossibile, e, in ogni caso, necessario 
                      perché possiamo dire “buono/dolce” il morire. La presenza 
                      dell’altro è la condizione necessaria perché il dolore, 
                      quello fisico, ma anche quello psichico, il dolore 
                      dell’anima che con-fina sino a con-fondersi con l’angoscia 
                      di morte,  trovi sollievo. Solo la mano dell’altro può con 
                      quel toccare che è il “primo” gesto terapeutico,  
                      dare sollievo al mio dolore. Solo la mano  dell’altro, ma 
                      anche il suo sguardo, la sua voce, possono “curare” il  
                      mio dolore, sino a provare a rendere buono / dolce il mio 
                      morire. 
                      
                      Ma se tutto ciò è vero, per l’etica e per quella 
                      particolare forma di etica applicata che è la bioetica qui 
                      non ci sono problemi di principio, non c’è dilemma tra 
                      doveri che si contrappongono, ma solo la difficile  strada 
                      dell’adempimento di un dovere su cui, da qualunque 
                      prospettiva, qualunque sia la nostra concezione della vita 
                      umana e del suo valore, non possiamo che convergere: 
                      rendere più dolce, o perlomeno  meno aspro il percorrere  
                      l’ultimo tratto di strada. Qui semmai il problema che la 
                      bioetica si pone è quello, non di poca entità, di 
                      misurarsi sul “come” affrontare gli ostacoli che a 
                      quell’adempimento si frappongono, sulle scelte politiche 
                      ed economiche che devono attuarsi sulle allocazioni delle 
                      risorse perché quell’adempimento si traduca in pratica e 
                      non rimanga alle mere, vuote affermazioni di principio e 
                      di buona volontà. Non dimentichiamo quanto ancora separa i 
                      nostri malati terminali dalla possibilità concreta di una 
                      buona, efficace  terapia del dolore, dalla possibilità di 
                      trovare su tutto il territorio strutture capaci di fornire 
                       cure palliative, dalla possibilità  di  un “ritorno a 
                      casa”, che sia sostenuto non solo dall’affetto dei  
                      familiari, ma anche dal supporto medico-infermieristico di 
                      una efficiente assistenza domiciliare.  
                      
                      Oltre gli sforzi in tal senso, che dovrebbero vedere una 
                      società civile coesa, al di là delle differenti posizioni 
                      ideologiche, rimane una differenza di fondo 
                      sull’interpretazione del “come” intendere la stessa lotta 
                      al dolore, le stesse cure palliative: una differenza che  
                      si riflette sulla stessa definizione di  eutanasia. 
                      
                      Il senso comune non intende oggi l’eutanasia solo 
                      come la buona morte, la morte dolce, senza dolore, 
                      accompagnata dall’altro, ma l’intende piuttosto come la 
                      morte  senza dolore e quindi buona,  accompagnata, ma 
                      anche procurata intenzionalmente dall’altro. Vi è qui 
                      una differenza di fondo, su cui si accende da anni il 
                      dibattito bioetico: è lecito questo passaggio dall’accompagnare 
                      al procurare? E ancora, cosa si annida in questo 
                      nuovo significato dell’eutanasia come “procurare la 
                      morte”? E’ possibile comprendervi solo un procurare che ha 
                      a che fare con l’agire o anche un procurare che ha a che 
                      fare con l’omettere? 
                      
                      Torniamo al punto focale della distinzione tra uccidere e 
                      lasciar morire. Tale distinzione è stata “il primo punto 
                      di attacco alla posizione tradizionale da parte degli 
                      utilitaristi, i quali affermano che, ceteris paribus, 
                      un atto uccisivo diretto è moralmente equivalente  
                      all’omissione di un atto  in grado di salvare la vita”. 
                      Paradossalmente, oggi, tale distinzione, messa in crisi 
                      per mostrare la non illiceità dell’eutanasia, va 
                      ripensata, fino a metterla radicalmente in questione, da 
                      parte di una bioetica che ispirandosi al principio della 
                      difesa della vita fisica voglia evidenziare l’illiceità 
                      dell’eutanasia nella sua forma meno evidente, e quindi più 
                      pericolosa, l’eutanasia omissiva.
                       
                      
                      Occorre  partire da un’ambiguità implicita 
                      nell’espressione “lasciar morire”, che comprende in sé 
                      significati eticamente diversi: il “far morire”, in cui 
                      l’omissione è rivolta intenzionalmente alla morte e ne è 
                      anche la causa diretta; il “permettere di morire”,  in cui 
                      non vi è intenzione di morte, né connessione di causa ed 
                      effetto, ma solo una sospensione di cure che non hanno più 
                      alcuna efficacia, né sono di sostegno alla vita.  La 
                      differenza è quindi su un doppio versante: quello dell’intenzione 
                      e quello della responsabilità, intesa nel senso 
                      dell’imputabilità o dell’essere causa di. Se 
                      è chiara la distinzione sul versante delle intenzioni, la 
                      distinzione sulla responsabilità connessa all’omissione è 
                      più soggetta ad ambiguità e necessita di ulteriori 
                      riflessioni sul potere connesso alla responsabilità. Io 
                      sono responsabile se ometto di compiere azioni che sono in 
                      mio potere e che hanno in sé il potere/la possibilità di 
                      salvare la vita. La distinzione tra un “far morire” 
                      gravato di responsabilità morale  e un “permettere di 
                      morire” che è invece lecito, anzi doveroso, si gioca 
                      quindi non solo sul piano delle intenzioni, ma anche su 
                      quello del potere/possibilità di cura.   
                      
                      Siamo rinviati dunque dalla distinzione problematica di 
                      partenza all’interpretazione di una convinzione etica su 
                      cui tutti, anche a partire da opposte visioni sulla 
                      disponibilità/indisponibilità della vita, convergiamo: il
                      no all’accanimento terapeutico o, se vogliamo alle 
                      cure sproporzionate. Dire accanimento terapeutico è, 
                      infatti, un dire qualcosa che è in se stesso 
                      contraddittorio: non c’è terapia là dove ci si accanisce, 
                      là dove si continua in cure non efficaci. La sproporzione 
                      delle cure rende meglio il concetto e, insieme, la 
                      difficoltà che in esso è insita cioè la difficoltà di 
                      trovare la “misura”. 
                      Problema antico dell’etica e, in particolare, dell’etica 
                      medica, il problema della “misura” appare sempre più 
                      urgente nel momento in cui la medicina aumenta nel suo 
                      “potere di cura”. Accade che questo potere di cura si 
                      differenzi tragicamente dal potere di guarigione, 
                      capovolgendo la nuova forza in elemento di criticità. Una 
                      differenza che può darsi in due modi diversi: o perché 
                      rimane come un potere parziale, si può curare 
                      questo e quello, ma non si può guarire e nemmeno curare la 
                      persona, o perché  rimane un potere limitato, anche 
                      se investe tutta la persona, si può sì “curarla”, o meglio 
                      “prenderla in cura” con un approccio olistico,  ma non si 
                      può guarirla. Il problema etico si pone soprattutto quando 
                      le cure parziali, che la medicina può continuare ad 
                      offrire non convergono in una cura della persona, 
                      in un di più di benessere, di qualità e di quantità della 
                      vita della persona, ma si  limitano a curare 
                      “questo” o “quel” male, consentendo non una guarigione, né 
                      un miglioramento della qualità della vita, ma un protrarsi 
                      della vita che  a volte sembra mutarsi in un protrarsi di 
                      un processo del morire già avviato. 
                      
                      Ma, ancora, chi decide la misura, ovvero il 
                      limite della cura? Il paziente, il medico o entrambi? 
                      Sicuramente vi è un problema interno alla definizione 
                      delle cure sproporzionate, un problema che non riguarda 
                      solo la difficile interpretazione di ciò che è 
                      proporzionato, ma anche il soggetto che è deputato ad 
                      essere l’interprete più attendibile.
                      La misura della cura, 
                      ovvero la risposta a cosa distingua un’arte medica che sia 
                      d’aiuto alla natura da un’ arte-artificio che forzi e 
                      costringa la natura, non può che passare dalla doppia 
                      interpretazione del paziente e del medico, là dove alla 
                      difficoltà insita nell’interpretazione soggettiva di un 
                      dato che si presume oggettivo, si aggiunge la difficoltà 
                      del confronto tra due interpretazioni che possono 
                      coincidere o divergere. Questo stare nel mezzo tra due 
                      interpretazioni, entrambe soggettive della cura, del suo 
                      carattere proporzionato o sproporzionato, è ciò che 
                      rischia costantemente di farci scivolare dal primo al 
                      secondo senso dell’eutanasia, da una morte buona, perché 
                      accompagnata e senza dolore, che sia vissuta il più 
                      possibile come compimento “naturale” della vita, a una 
                      morte procurata per omissione di cure proporzionate 
                      o ordinarie.   
                      
                      E’ necessario qui aprire una parentesi su un altro punto 
                      fondamentale nella questione bioetica dell’eutanasia. 
                      Interpretata  come una questione che rimanda alla grande 
                      tematica della disponibilità o indisponibilità della vita, 
                      l’eutanasia è spesso difesa come una “questione di 
                      libertà”. 
                      Questa impostazione vede il problema etico solo dalla 
                      parte di chi richiede l’eutanasia, non vede il problema 
                      etico di chi accetta la richiesta di morte. Non si tratta, 
                      come vuole Jankélévitch, di spostare il problema dal 
                      paziente che vuole morire, al medico a cui la morte viene 
                      richiesta. 
                      L’eutanasia non è solo un problema del medico, così 
                      come non è solo un problema del paziente,  ma è un 
                      problema del paziente  e del medico, della loro 
                      relazione. Una relazione solo apparentemente a due,  in 
                      realtà molto più complessa: al suo interno si inseriscono 
                      dei terzi, che possono essere identificati come i 
                      familiari, o gli altri operatori sanitari; all’esterno 
                      agiscono sulla relazione come cause positive o negative le 
                      dinamiche della struttura ospedaliera, del sistema 
                      sanitario, del sistema socio-politico. Possiamo dire  che 
                      l’eutanasia non è solo un problema del paziente 
                      e del medico, ma che è un problema del paziente, 
                      del medico e della società. Dicendo che l’eutanasia si 
                      dà in un contesto di relazione, che è un problema di 
                      relazione, 
                      spostiamo l’asse della riflessione da un’attenzione 
                      esclusiva all’autonomia del soggetto, e ai suoi limiti, se 
                      comprenda o meno al suo interno la disponibilità della 
                      vita, ad un’attenzione che fa centro sulla responsabilità 
                      o meglio sulle responsabilità dei vari soggetti  a 
                      più livelli coinvolti nella relazione di cura. 
                      
                      Ora tutto questo ritorna dalla tematica generale 
                      dell’eutanasia alla tematica particolare dell’eutanasia 
                      omissiva e alla sua difficile, problematica distinzione 
                      dalla sospensione delle terapie sproporzionate. Impostare 
                      il problema dell’eutanasia come problema non solo 
                      di autonomia, ma anche e soprattutto di relazione 
                      significa, anche su questo versante, ripensare il giudizio 
                      sulla misura o, se vogliamo, sul limite 
                      delle cure come un problema che si dà all’interno della 
                      relazione di cura, ma anche vigilare su tutti i fattori 
                      che all’interno e all’esterno della relazione possano 
                      influire sul giudizio stesso, fino a metterne in crisi la 
                      serenità. 
                      
                      La possibilità di distinguere all’interno del giudizio 
                      sulla misura delle cure, due prospettive, che possiamo 
                      indicare come la prospettiva, in cui prevale il giudizio 
                      del medico e quella in cui prevale il giudizio del 
                      paziente
                      
                      , o di chi lo rappresenta, 
                      può infatti, costituire un forte momento di criticità 
                      nella difficile valutazione se  si tratti o meno di una 
                      sospensione di cure sproporzionate, e quindi, di 
                      “permettere di morire”, o dell’omissione di cure 
                      proporzionate, e quindi di “far morire”. 
                      
                      E tuttavia, nonostante i rischi di criticità,  la doppia 
                      interpretazione  del paziente e del medico è un passaggio 
                      essenziale per il giudizio, spesso difficile,  sulla 
                      misura delle cure. Nella Dichiarazione sull’eutanasia, 
                      nella parte dedicata all’uso proporzionato di mezzi 
                      terapeutici leggiamo: “in molti casi la complessità  delle 
                      situazioni può essere tale da far sorgere dei  dubbi sul 
                      modo di applicare i principi della morale. Prendere delle 
                      decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del 
                      malato o delle persone  qualificate per parlare a nome 
                      suo, oppure anche dei medici, alla luce degli obblighi 
                      morali e dei diversi aspetti del caso”. 
                      
                                  Tutti e due i giudizi, del medico e del 
                      paziente o di chi lo rappresenti, sono nell’ottica della 
                      relazione, essenziali. L’uno deve confrontarsi con 
                      l’altro, se si vuole evitare il doppio rischio di un 
                      giudizio che pretenda ad  un’oggettività  in cui sia 
                      negato spazio alla soggettività del paziente, o di un 
                      giudizio meramente soggettivo, in cui la soggettività del 
                      paziente sia lasciata a se stessa. La possibilità di 
                      integrare i due giudizi sulla “misura” della cura è la 
                      scommessa di un’alleanza terapeutica riuscita, il cui 
                      ordito  paziente e medico devono pazientemente ritessere 
                      dall’inizio della cura sino ai confini della vita. 
                      Un’opera di tessitura non facile, sempre esposta, come 
                      dicevamo al rischio di influenze esterne, così come del 
                      resto non è facile la pratica dell’alleanza terapeutica, 
                      su cui grava, anche per quelle influenze, soprattutto ai 
                      confini della vita, l’ombra negativa  della possibilità 
                      dell’abbandono  o della “negligenza terapeutica”. 
                      
                                   La responsabilità del giudizio sulla misura 
                      delle cure ricade, quindi, non solo sul medico e 
                      sul paziente, sulla loro difficile relazione, ma su tutti 
                      coloro che sono chiamati a compiere scelte socialmente 
                      rilevanti sulla cura dei pazienti terminali. Una 
                      responsabilità pesante poiché si tratta di decisioni da 
                      prendere muovendosi sempre su uno stretto asse di 
                      equilibrio: tra il sostegno della vita e il protrarsi del 
                      processo de morire, tra la sospensione di cure ormai 
                      inutili e il procurare, sia pure per omissione, la morte. 
                      Perdere l’equilibrio, o smettere di cercarlo, 
                      significherebbe incrinare non solo l’alleanza terapeutica, 
                      capovolgendone il fine primario, la cura della vita, ma 
                      anche indebolire il caposaldo di quella più ampia alleanza 
                      che ci consente di vivere insieme come uomini tra uomini: 
                      il rispetto della vita di ogni essere umano.  
                      
                        
                      
                        
                      
                        
                        
                        
 
  
                            
                          
                             
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                             
                             
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                           
                          
                          
                           Dichiarazione sull’eutanasia, 
                          IV. Nello stesso senso, ma con una accentuazione del 
                          ruolo del medico, va quanto scritto a proposito della 
                          liceità dell’interruzione dei mezzi  messi a 
                          disposizione dalla medicina più avanzata: “nel 
                          prendere una decisione del genere, si dovrà tener 
                          conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi 
                          familiari, nonché del parere di medici veramente 
                          competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare 
                          meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e 
                          di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili 
                          e se le tecniche messe in opera impongono al paziente 
                          sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne 
                          possono trarre” (ibidem). 
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